EDITORIALE, Lo Stato, Cappellacci e l’indipendentismo sardo, di Salvatore Cubeddu
Lo Stato, Cappellacci e l’indipendentismo sardo, di Salvatore Cubeddu
Premessa. L’Europa è stritolata dal ghiaccio e dalla neve. Anche a Cagliari fa freddo. Tutto si è rallentato in Sardegna, pure gli eventi che fanno la storia. Abbiamo tempo. Ciò permette di ragionare.
6 febbraio 2012, lunedì. Il solo Sardegnaquotidiano riporta la notizia in una sua pagina interna: “La Sogin, società incaricata dello smaltimento dei rifiuti radioattivi italiani, deve realizzare un solo sito per la raccolta nazionale. E non smentisce la possibilità che sarà in Sardegna”.
Nello stesso giorno, L’Unione Sarda annota: “…Eppure il momento dev’essere davvero delicato se persino Settimo Nizzi, il sanguigno coordinatore regionale del Pdl, lancia messaggi di pace e generalizzati inviti all’unità nella gestione della vertenza Sardegna. Lo fa, prendendo le distanze da chi ha definito un mezzo fallimento il vertice di palazzo Chigi tra Monti e la delegazione isolana guidata da Cappellacci, invitando tutti ad andare avanti con fiducia. E unendo, così, la sua voce a quella del senatore Beppe Pisanu, molto netto nel condannare le divisioni.
Ritorna un altro grave problema (la servitù ambientale della Sardegna) e si impone la credibilità del governo nei confronti della questione sarda. Cappellacci e le associazioni degli imprenditori vanno di conserva in questa consegna di fiducia al governo. (CgilCislUil sono di nuovo lasciati da parte, insieme ai ‘movimenti’…). C’è una logica? Un legame tra queste informazioni? Tra il possibile arrivo dei rifiuti radioattivi e la presente vertenza Sardegna?
5 febbraio 2012, domenica. In un articolo evidentemente richiesto a L’Unione Sarda, l’on. Beppe Pisanu si dimostra “sorpreso per la ricostruzione del post-vertice” con il presidente Monti. L’ex ministro sottolinea invece che l’incontro è stato positivo e lui, Pisanu – … “penso di avere abbastanza esperienza di cose di questo genere …. “ – descrive un Monti informato a fondo di tutto il dossier e pronto ad assumere le decisioni operative, concrete e risolutive per i problemi sardi. Conseguente la decisione di aprire i due tavoli tecnici. La valutazione politica dell’ex ministro degli Interni di Berlusconi e attuale presidente dell’Antimafia, nel suo ruolo di trait d’union tra il governo di Roma e la Sardegna, la si legge alla fine. Conclude, infatti, il giornalista Antony Muroni:
“Da parte sua, il presidente della commissione Antimafia, ha voluto ricordare al premier che è necessario tenere ben alta la guardia contro il rischio di degenerazioni delle proteste, che spesso sono messe in campo da cittadini: «La recessione sta introducendo in Sardegna fattori di disgregazione sociale e politica – fa notare – e di questo stato di tensione potrebbero approfittare gruppi eversivi di varia origine, che sono sempre pronti a inserirsi. Occorre; dunque, un’.azione efficace per far si che l’eversione non trovi consenso nella disperazione della gente».
Dopo una ricostruzione di questo tipo, è chiaro che cambiano gli scenari (apparsi foschi) rispetto ai rapporti tra il governo Monti e la Sardegna. L’operazione-verità che il senatore Pisanu (in genere poco alle prese dì posizione pubbliche su questioni sarde di “parte”) ha detto di voler promuovere, non mancherà di suscitare reazioni.
La preoccupazione di Pisanu coincide con l’analoga osservazione espressa da Cappellacci nel telegramma a Monti dello scorso 31 gennaio (“le inevitabili ripercussioni sull’ordine pubblico che rende non più procrastinabile un incontro urgente con il Governo per la tutela della coesione sociale e la salvaguardia dell’unità nazionale»)? Certamente nella presente ‘guerra sarda’ sono saltati molti dei punti fermi dell’ordine pubblico, se lo si considera in rapporto all’agibilità delle pubbliche strade, delle piazze e delle sedi istituzionali. Ma Pisanu va oltre e precisa che la salvaguardia dell’unità nazionale viene messa in discussione da “gruppi eversivi di varia origine, che sono sempre pronti a inserirsi”.
A chi e di che cosa sta parlando l’onorevole Pisanu? Non viene chiamato per nome, ma è difficile che quell’argomento (quello di Cappellacci quando teme che si arrivi a mettere in discussione ‘la salvaguardia dell’unità nazionale’) non riguardi l’indipendentismo. Parliamone, allora, chiaramente: esiste oggi in Sardegna l’emergenza di un indipendentismo “eversivo”? Dove potrebbero individuarsi le azioni, da tutti verificabili, che giustifichino simili valutazioni da parte di uno degli uomini politici più stimati in Italia per equilibrio e serietà? Uomo, per di più, delle istituzioni italiane, che tende a presentarsi come il più rappresentativo dei sardi a Roma.
Bisogna osservare i fatti di queste settimane – che continuano atti che ci arrivano da mesi e per certi aspetti da anni – per (primo) coglierne i possibili rapporti con l’indipendentismo democratico e/o eversivo, per (secondo) chiederci se lo Stato italiano abbia motivo di preoccuparsi ed agire così come pare intuirsi, per (terzo) verificare modi e scopi con i quali il tema viene utilizzato da chi governa in Sardegna.
1. L’INDIPENDENTISMO SARDO OGGI: IDEALITA’ DEMOCRATICHE O EVERSIONE?
1. A. Gli indipendentisti sardi sono visibili – con i loro dirigenti (Cumpostu per Sardigna Natzione, Gavino Sale per Irs, Cristiano Savino per A manca po s’indipendentzia, Franciscu Sedda nei dibattiti di Progress, Doddore Meloni raccogliendo le firme (ma su di lui bisognerà trattenersi ancora) – nelle attività di tutti i movimenti attivi in Sardegna, a partire dagli scioperi di CgilCislUil, con l’attiva adesione della CSS, fino alle iniziative dei pastori (MPS), degli artigiani e commercianti liberi e dei luoghi di resistenza (come il “presidio” che da mesi occupa il piazzale di viale Trento e il nono piano del Palazzo regionale. Sono stati tra i protagonisti del movimento antinucleare (Cumpostu) e contro Equitalia (Sale) proprio nelle settimane in cui Bruno Bellomonte di Amps’I usciva da perseguitato dal processo d’appello di Roma che lo rimandava a dirigere le ferrovie di Sassari (La Nuova Sardegna, 22 novembre 2011, titola l’articolo di Lissia: Bruno Bellomonte non è un terrorista: assolto dopo 29 mesi in cella. I giudici della prima sezione della Corte d’assise di Roma hanno assolto con formula ampia, «perché il fatto non sussiste», il ferroviere sassarese accusato di far parte delle nuove br. Dopo 29 mesi Bellomonte ha lasciato il carcere”.
1.B. Gli indipendentisti sardi telefonano apertamente, pubblicano i documenti che riferiscono le loro idee e proposte, riuniscono i loro organismi con gli aderenti, vanno tentando con la solita difficoltà di unificare alcune delle loro iniziative. Ovviamente non è altrettanto visibile l’opera di controllo nei loro confronti da parte dello Stato, se non nella normale (e quasi sempre ben condotta) gestione dell’ordine pubblico e in alcuni probabili provocatori all’opera nelle manifestazioni (grida, incitamento all’azione e alla reazione, riprese fotografiche). Dato che vengono pagati dai cittadini, è presumibile che sia molto attiva la registrazione di telefonate, l’utilizzo di microspie e l’attivazione all’ascolto di ex-militari che conoscano la lingua sarda per conoscere movimenti e iniziative. Gli indipendentisti di base sono degli ingenui, lo si vede nella disponibilità a intrattenersi con gli agenti in borghese, dalla loro non abitudine, quasi un’innata incapacità, a rinoscerli. Altrettanto non accuratezza si nota in taluni giornalisti, mai davvero attenti a capire come e cosa si muova nella piazza.
1. C. Il più ‘antico’ tra gli indipendentisti sulla piazza è Doddore Meloni, che rappresenta un rompicapo per gli stessi indipendentisti, ma non si sa quanto lo sia per lo Stato. Coinvolto nel cosiddetto ‘complotto separatista’ degli inizi degli anni ’80, è uscito di prigione continuando a predicare le sue idee, anche se alcuni militanti sardisti uscirono distrutti da quella vicenda. Con quegli arresti, e il successivo processo, il Partito sardo dovette subire la provocazione politica da parte dei partiti italiani (si ricorda l’accusa di ‘mezzo terroristi’ rivolta da De Mita, segretario della DC, e di cui Mario Melis, presidente della Regione, dovette difendere il sardismo, restando lui stesso coinvolto in un processo per calunnia) mentre Doddore Meloni continua a muoversi nella più totale libertà d’azione, proclama indisturbato l’improbabile utilità per la repubblica dei sardi di rivendicare la sovranità sullo scoglio di Maluentu, pratica e propone lo sciopero delle tasse (per 5 milioni di euro?) come fosse pensabile uno stato sardo dove non si paghino le imposte dovute. Qualche anno fa è morto il ‘ministro degli esteri’ di Maluentu, braccio destro di Meloni. Era stato il ‘sardista pentito’ che aveva rivelato la congiura e contribuito a mandare in galere molti militanti innocenti; Mario Melis l’aveva denunciato (insieme al sottoscritto e a Giomaria Bellu) perché probabile spia al soldo dei servizi segreti italiani deviati (di allora) e in combutta con i libici. Per questa accusa Giampaolo Pisanu – questo il suo nome – denunciò Melis, Cubeddu, Bellu e il direttore de La Nuova Sardegna; il processo si svolse a Sassari, ma i quattro accusati furono “assolti perché il fatto non sussiste”. Forse non lo sapremo mai, mai: ma perché l’occupazione di Maluentu è stata fatta concludere proprio nel giorno in cui arrivava in Sardegna, per la campagna elettorale contro Soru, il ministro italiano della difesa? (Ne riferii nel mio “L’ultima battaglia”, alla pag. 109).
Oggi Meloni ripropore in Sardegna le firme del referendum per l’indipendenza, di recente sperimentato in Catalogna con i sardisti e gli indipendentisti sardi invitati quali testimoni internazionali. Meloni non vi è stato invitato. Perché, sorprendendo tutti nel tempo, e da solo (è da mesi che nell’ambiente se ne parlava), è partito con l’iniziativa di sicuro insuccesso? Come e per chi lavora costui?
2. LO STATO ITALIANO NON DEVE TEMERE IN SARDEGNA L’ EVERSIONE. L’IDEA INDIPEDENTISTA FA PARTE DEI DIRITTI COSTITUZIONALI, ANCHE IN ITALIA. Altrimenti Bossi e Maroni dovrebbero essere in galera da molto tempo. E’ doveroso, allora, proporre alcune precisazioni:
a) storicamente l’indipendentismo e l’autonomismo sardo non è, nè mai è stato, violento. Oggi il rifiuto della violenza fa parte delle ‘prioritarie’ affermazioni delle organizzazioni indipendentiste, ma lo stesso concetto può ritrovarsi nel seguire il filo rosso che da sempre lega l’autonomismo e il sardismo, persino quando lo slogan, derivato dal 28 aprile 1794 e fatto proprio dal giovane Antonio Gramsci, era: ‘A mare sos continentales!’;
b) a partire dalla nascita dell’autonomismo lo Stato italiano ha sempre utilizzato l’accusa di ‘separatismo’ collegandolo con ’”eversioni” di vario tipo. Chiamati prima ‘irlandisti’ e poi ‘sardisti’ nel Parlamento del 1921, sorvegliati speciali nei giorni della ‘marcia su Roma’, controllati dall’Ovra in quanto unici veri resistenti in Sardegna dopo il fallimento del sardo-fascismo, boicottati dalla tenaglia Dc – sinistre in quanto anti-stato nell’immediato secondo dopoguerra, i dirigenti sardisti discussero apertamente del tema e mai accettarono il terreno della risposta violenta verso cui spingevano comportamenti e valutazioni di settori della Stato;
c) la non-violenza del messaggio gandhiano è stato teorizzato proprio dal principale ideologo dell’indipendentismo sardo, l’architetto Antonio Simon Mossa e dai suoi tanti seguaci, dentro e fuori il Partito sardo, proprio nel corso del dibattito di quella prima grave crisi autonomista succeduta alle inadempienze dello Stato italiano nei confronti del Piano di Rinascita (1965 – 1968).
Ci dispiace deludere coloro che, a Roma o in qualsiasi parte del Continente, vorrebbero portare i Sardi sul terreno dell’”eversione di qualsiasi tipo”. Non verranno accontentati nella loro paura che i Sardi affermino i propri diritti. Ma gli elementi consapevoli e i portabandiera della libertà della Sardegna non lo faranno da disperati o solo perché delusi delle inadempienze e dell’uso strumentale delle terre sarde da parte dello Stato, ma dovranno muoversi soprattutto in forza dei propri diritti, che resterebbero intatti e validi anche se lo Stato, o chi per lui, paradossalmente li acoprisse d’oro.
Il concreto problema del separatismo, già in atto, è quello dello Stato dagli interessi del popolo sardo, il furto delle sue risorse (le ricchezze del sottosuolo minerario, prima, oggi i finanziamenti dell’art. 8), l’evidente abbandono dei suoi diritti di cittadinanza (servizi, scuola, lavoro, mobilità), l’esclusivo utilizzo dei suoi ampi spazi per lasciarci ciò che non piace in Continente (basi di esercitazione militare e spaziale, industrie inquinanti, chimica verde che si divora le pianure, rifiuti di acciaieria, … ). La Sardegna viene sempre più confermata nella sua destinazione di ‘territorio d’Oltremare’.
3. INDIPENDENTISMO E DEBOLEZZA DELLA CLASSE DIRIGENTE SARDA. E’
vero, invece, che, già dalla prima grande crisi dell’autonomia nel 1967 – una situazione per tanti versi simile all’attuale – la classe dirigente sarda utilizzò il dibattito dei teorici dell’indipendenza sarda per rafforzare la sua condizione di assoluta debolezza nei confronti dei partiti e delle istituzioni italiane. Ne scriveva ad Aldo Moro, presidente del Consiglio dei ministri, e ad Emilio Taviani (ministro degli Interni, non a caso) il presidente della Giunta di allora, Giovanni Del Rio, che ne riferiva in Consiglio regionale nei seguenti termini il 2 ottobre 1967:
emergono dalla delusione e dal malcontento popolare, dall’ansia di giungere in fretta ai traguardi della rinascita, fermenti nuovi e atteggiamenti di fronte ai quali non possiamo rimanere insensibili. Si va facendo strada, in alcuni ambienti e con motivazioni che non possono essere sottovalutate, un sentimento nuovo dei diritti del popolo sardo. Si stanno manifestando, sotto l’urgere di fatti e di situazioni la cui gravità non può essere trascurata, tendenze politiche nelle quali il termine “separatismo” e il bisogno di svincolarsi dalla soggezione a decisioni partenalistiche o comunque oltre misura centralizzate, ricorrono con sempre maggiore frequenza. Situazione, questa, che ho sentito il dovere di prospettare nei suoi termini gravi, anche se non drammatici, al Presidente del Consiglio e a tutti i Ministri che ho incontrato in questo periodo. Sappiamo che alla base di tutto ciò vi è una giusta e legittima difesa di interessi alla cui tutela non possiamo rinunciare senza sentirei colpevoli di aver tradito la fiducia del popolo che ci ha eletto. In un mondo ricco di fermenti, in rapida trasformazione, in cui gli atteggiamenti psicologici emotivi possono rapidamente tramutarsi in precisi e decisi orientamenti politici, in una società così aperta a stimoli nuovi e così sensibile ad individuare deficienze, manchevolezze e ingiustizie, spetta alla classe politica dare la giusta interpretazione di ciò che avviene e di quanto va maturando.
Il Presidente della Regione Delaveva giocato pesante: il ricatto del “separatismo” e la minaccia nei confronti del Governo italiano era una carta già utilizzata da Alfredo Corrias nel 1954, anche se pochi erano in grado di ricordarlo. Del resto, il governo sapeva fin dove sarebbe stata disponibile ad arrivare la protesta della classe dirigente sarda: l’aveva sperimentato qualche mese prima, e non c’era da aver paura!
Ben più sensibili erano gli intellettuali: in quelle settimane Michelangelo Pira aveva iniziato il dibattito sul “separatismo” nella rivista “Tribuna della Sardegna”. Michele Columbu vi interveniva nel numero del 16/30 novembre; Antonio Simon Mossa, nel mese successivo. Ma questi scriveva varie volte alla settimana su La Nuova Sardegna. La sua risposta a Del Rio vienepubblicata il 10 ottobre 1967 (è il giorno in cui i giornali riportano l’uccisione di Che Guevara in Bolivia!) con il titolo ‘Verso l’indipendenza’. Merita riportarne qualche brano:
Fare del “separatismo” salottiero, come quello che Del Rio ha mostrato di voler fare, e poi ostinarsi a credere nelle scelte promesse da Pieraccini, Scalfaro e compagni, significa veramente tapparsi le orecchie e bendarsi gli occhi. …
Il fallimento ormai certo della politica contestativa, il cedimento unilaterale da parte del governo regionale, sono le cause prime dell’insorgere del fenomeno del “separatismo” al di fuori del Partito Sardo, e l’estensione e generalizzazione di esso in larghi strati della popolazione e fra gli stessi intellettuali, che erano notoriamente i più ostili.
L’alternativa, quindi, adombrata da Del Rio come una minaccia, diventa una realtà. Lo sganciamento suggerito dal Presidente con la “rivoluzione di luglio” produce lentamente i suoi effetti. La palla è sfuggita di mano al giocoliere a un certo punto irreversibile.
Tensione autonomistica, autonomia politica, indipendentismo, separatismo hanno lo stesso significato: che è quello da sempre indicato dal Sardismo nella sua accezione più pura, nella visione di un futuro che dovrà essere necessariamente diverso da un passato fatto di umiliazioni e di miserie.
Sardismo significa risurrezione di un popolo, idea madre di una società libera, con autonomia politica piena e completa, che sia essa stessa protagonista della sua storia.
Se questa posizione chiarissima e responsabile debba essere interpretata come “atteggiamento insensato e reazionario”, riteniamo che si tratti delle solite accuse di coloro che, nella loro chiusa visione provinciale, non vogliono vedere la cruda realtà della Sardegna in questo momento storico.
Del resto nell’articolo “Una politica di colonizzazione” di Michelangelo Pira, pubblicato nell’agosto scorso ne “La Nuova Sardegna”, si legge: “La Sardegna ha sperimentato non solo la politica colonialista, ma anche quella di colonizzazione in senso stretto. Ieri le migliori località della costa sarda erano occupate dai militari, oggi dal capitale forestiero industriale turistico. Ieri Arborea: oggi i poli di sviluppo industriale. La politica italiana è stata sempre politica colonialista, sia quando si è rivolta all’esterno con le avventure africane, sia quando si è rivolta all’interno. Sono cambiati i miti di questa politica ma la sostanza è rimasta. Che oggi siano i tecnocrati di Roma o di Bruxelles a dire quel che è bene fare o non fare in Baronia e dintorni, anziché i ministri piemontesi, non cambia molto, cioè non rovescia la tendenza. Mutano le forme del colonialismo ma la sua sostanza di politica di sfruttamento delle zone coloniali resta. Mutano anche le forme della resistenza sarda a questa politica, ma resta il fatto che essa non riesce a rovesciare il rapporto”.
Il PSd’Az di allora abbandonò quella giunta al suo destino. I partiti al governo si presero anche le accuse di subalternità a Roma da parte del maggiore partito di opposizione, il PCI, che ancora in Sardegna non era stato sottoposto alla verifica della propria storia di subalternità alla centrale romana.
4. LA STORIA NON SI RIPETE SE NON IN PEGGIO. L’atteso dibattito in Consiglio regionale, già urgente lo scorso 3 febbraio, vive di continui rimandi e si svolge in un clima surreale. I consiglieri mostrano di avere il morale sotto i tacchi proprio nel momento in cui avremmo bisogno della loro chiarezza di propositi, di decisione e di coraggio.
La possibile schiarita della situazione dei lavoratori dell’Alcoa serve pure ad evidenziare la centralità della situazione sarda. Difficile non considerare la difesa della grande industria come una battaglia obbligatoria (si pensi a quando dovremo affrontare l’inevitabile ammodernamento o chiusura della Saras!) ma di retroguardia (restano, invece, importanti, ed unica legittimazione di essa, le verticalizzazioni fatte da imprese quali l’Ila). I principali nostri temi di prospettiva restano la difesa dell’ambiente e del nostro paesaggio, la sovranità alimentare, un turismo gestito dai sardi, i trasporti tramite una vera flotta sarda nei cieli e nel mare, istituzioni libere dal presente ‘servaggio’.
Ci sarà un sardo che avrà il coraggio di esporre simili idee, accompagnate da sentimenti di questo tipo, al Presidente della Repubblica italiana? Capace di rappresentarci nei nostri bisogni più veri? Di proporre ai sardi dei doveri nel mentre afferma i nostri inalienabili diritti?