Gianfranco Contu, biografo delle «comunità dentro gli ideali», di Gianfranco Murtas
Con la commemorazione di Gianfranco Contu, a quasi un mese dalla sua scomparsa, il Murtas introduce anche il saggio “Gianfranco Contu: «Una curiosa eccezione al patto di confluenza degli azionisti nel PSd’A. Il caso di Morgongiori».
E’ passato veloce questo primo mese nostro senza Gianfranco Contu. La malattia ce ne aveva privato della consuetudine da tempo ormai, affidando noi a quelli di casa, per discrezione – soltanto per discrezione – i messaggi. Quelli miei personali, dopo l’incontro (e la fraternità del pranzo condiviso, con la signora e Matteo) ad Alghero, al convegno delle/sulle “nazioni senza stato” – al quale eravamo stati chiamati fra i relatori, per celebrare la Spagna democratica sconfitta nell’impari scontro con le falangi franchiste, nei tardi anni ‘30 –, erano stati ancora riservati al libro stampato ormai da tempo (dal 2007) ma a cui era rimasto sempre particolarmente legato per l’eterodossia della sua lettura critica, “L’altra guerra di Spagna”, con prefazione di Santi Fedele.
Al di là dei rapsodici, remotissimi incroci al tempo della uscita del periodico “Nazione Sarda” (giornale bilingue dell’identità), fra 1977 e 1978, con quanti erano allora amici e maestri miei (nonostante le distanze ideologiche), da Francesco Masala a Eliseo Spiga, c’erano stati, nei primi anni ’80, quegli altri giustinianei, democratici, nell’abbraccio della militanza morale sempre per combinare libertà e giustizia ma in un binomio interiorizzato, vissuto nella coscienza prima che definito nelle carte e predicato, generatore del federalismo utopista. Posseggo, sul punto, un suo testo, rielaborazione di altri ma con aperture od espansioni a braccio – a cuore, direi meglio – , dato l’uditorio, che un giorno se possibile pubblicherò, a conferma della integrità di un pensiero, di una ricerca e di una convinzione, di una testimonianza insieme intellettuale e civile.
Io qui adesso ho pensato di poterlo onorare, il nostro Gianfranco Contu, con la riproposta di alcune pagine che mi offerse come introduzione al secondo volume del mio “Alla fabbrica della Repubblica e dell’Autonomia” (uscito nel 1993), il quale si poneva come complemento alla collana sardo-azionista “Documenti e Testimonianze” (quattro volumi – oltre 2.600 pagine – apparsi fra il 1990 ed il 1992) e s’abbinava in ultimo al corposissimo “Con cuore di sardo e d’italiano. Giovanni Battista Melis deputato alla I e IV legislatura repubblicana”.
Era la materia del nostro comune amore ideale, l’azionismo, cui confluivamo dalle distinte sponde socialiste (le sue) e repubblicane (le mie). Se ne potrebbe dire, insieme con la sua sofferenza politica – dato il sistema ingessato dei partiti italiani ancora negli anni ’60, ’70 ed ’80 (e comunque non più indegni dei migliori di oggi, e infinitamente migliori dei più indegni che hanno anche governato la patria nostra negli ultimi vent’anni!) – e anche del suo generoso tentativo di risvegliare anche in sede regionale la traccia dialettica di Giustizia e Libertà, nella permanenza di un antifascismo morale senza riserve.
Avevo recuperato, nel 1989, molte carte che si pensavano perdute, sull’azionismo sardo degli anni 1943-44. Era stato a casa dell’indimenticato Antonino Lussu, amico del cuore e solidale, e sodale politico, di Cesare Pintus, tanto più negli anni della permanenza di punizione del reduce dal carcere fascista, dopo il 1935 e in quelli della guerra, del comitato concentrazionista, della sindacatura del capoluogo, fino agli ultimi del ricovero a Pra Catinat ed all’exit sopraggiunto nel declinare dell’agosto 1948. Mi aveva mostrato quelle carte – documenti i più vari: verbali, mozioni, delibere, corrispondenza, pezze amministrative, stralci di giornale, appunti con la grafia di Emilio Lussu – in due faldoni, quell’anziano e austero decano dei nostri commercialisti cagliaritani, già amministratore pubblico, assessore con Dessì Deliperi dalla primavera 1944… Li aveva riaperti apposta, i faldoni, per portarmi dentro scene di palese emozione e commozione, dopo mezzo secolo di sonno, forse di rimozione (per il dolore che i ricordi avrebbero provocato). Poche settimane egli, già infermo, lo perdemmo. E fu allora dallo spontaneo gesto di fraternità fiduciosa del nipote allora giovanissimo, ventenne o poco più, dico Massimiliano Rais Lussu, che materialmente ebbi quelle unità d’archivio – d’un archivio domestico formidabile – e potei lavorare, con carte inedite, al libro “Cesare Pintus e l’Azionismo lussiano”.
Da lì tanto si è mosso successivamente, e Gianfranco Contu è stato assiduo interlocutore, compagno presente nel riordino e nell’intrigo della ricostruzione, e della riflessione, storica ed umana, conclusiva. Nel novero di quelle tracce d’una storia di minoranza estrema – ma minoranza estrema è stata ed è rimasta l’area del socialismo federalista come l’intendeva lui, e come è stata ed è rimasta la mia democratica repubblicana segnata dalla nobilissima Edera della Giovine Europa – erano alcuni fogli riguardanti Morgongiori, paese d’infanzia dello stesso Contu. La cosa quindi lo prese tutto, lo indusse a portare fuori i ricordi dormienti. Fu tutta sua l’iniziativa, e io l’assecondai volentieri mettendogli a disposizione quelle pagine bianche che egli riempì da par suo.
Venne dopo anche la comune partecipazione, come relatori, a una serata dedicata proprio a Giustizia e Libertà e alle anime dell’azionismo e del sardoAzionismo. Fu nel 1993 per l’organizzazione dell’associazione “Cesare Pintus” a presidenza di Salvatore Ghirra, e partecipò con noi, fra gli altri e, direi, sopra gli altri, anche Simonetta Giacobbe Columbu. Intanto però eravamo stati entrambi coinvolti – Contu ed io – nel convegno di studi, promosso da Fondazione Sardinia, “Emilio Lussu e il sardismo”, il 6 e 7 dicembre 1991 (un convegno che s’era aperto con il drammatico e improvviso malessere di Umberto Cardia, e ricordo Contu che, da medico, s’era precipitato sull’amico adagiato, in quel trambusto, sul tavolo della presidenza, ricavandone dapprincipio sconsolate considerazioni per quello che ne sarebbe stato, e in effetti fu, l’avvenire di vita). Egli tenne la relazione introduttiva su “Emilio Lussu nella storia del sardismo”, io tenni una delle successive comunicazioni su “Lussu e l’Azionismo”. Contu curò nel 1994 la stampa degli Atti premettendo un altro, ulteriore bel contributo di approfondimento.
Quegli primi anni ’90 sono segnati, nelle fatiche di Contu e mie, dalle ricerche e dagli scritti – ripeto – sull’azionismo. Aggiungo che la sua collaborazione piuttosto continuativa (a fronte della mia episodica) ai bellissimi “Quaderni bolotanesi”, gli ha consentito di esitare diversi altri lavori sull’azionismo e/o sull’area del radicalismo federalista che si riportava alla basi morali e ideali della sinistra, anche della sinistra socialista, non marxista però. Basta scaricare la scheda dell’Opac Sardegna (peraltro lacunosa) per orientarsi meglio sulla originalità della sua presenza sulla scena della ricerca storica isolana e sulla copiosità delle sue produzioni (una cinquantina di titoli).
Meriterà tornare in argomento. E’ dovere nostro, è diritto della sua memoria. Come spero si possa un giorno trovare una formula – una fondazione nuova a lui intitolata? una sezione autonoma di altra fondazione già collaudata? – per preservare e valorizzare il corpus articolato di questi studi e di questi scritti, partendo magari da quel primo titolo dedicato a Giovanni Battista Tuveri, uscito nel 1972, che si collega anche agli esordi della benemerita e prestigiosa Edes, una delle punte di diamante della nostra editoria regionale.
Dunque Contu e l’azionismo del 1943-46 in quel di Morgongiori. Una pagina di testimonianza personale, di ricostruzione storica, di riflessione critica. Riproduco qui quel testo, con la breve mia scheda a chiudere. E poi, lo prometto, tornerò sul galantomismo di Gianfranco Contu, sulla sua personalità democratica, sulla sua cifra intellettuale.
Gianfranco Contu: «Una curiosa eccezione al patto di confluenza degli azionisti nel PSd’A. Il caso di Morgongiori»
È noto che il VI Congresso regionale del Partito Sardo d’ Azione (il I dopo la caduta del fascismo), tenutosi a Macomer alla fine di luglio del 1944, aveva avuto come argomento centrale del dibattito la “questione azionista”, il problema cioè del difficile e contrastato rapporto fra lo stesso PSd’ A e il Partito Italiano d’ Azione che, sia pure limitatamente ad un certo numero di sezioni, si era organizzato anche nell’isola, parallelamente alle sezioni sardiste, fin dal novembre del 1943.
È anche noto come, nonostante la maggioranza dei delegati di base e dei quadri intermedi (che avevano ceduto ormai alla facile suggestione di un separatismo privo di serie basi programmatiche) ed anche una parte dei dirigenti sardisti fossero nettamente contrari a qualunque accordo con forze politiche nazionali (e quindi anche con il PId’ A), la saggia azione moderatrice di esponenti del calibro di Pietro Mastino e di Luigi Oggiano fosse riuscita a far prevalere al congresso un odg che impegnava appunto il direttorio regionale a stipulare un patto politico con il Partito d’Azione.
Un punto imprescindibile dell’ odg era la necessità di una trattativa immediata con i dirigenti dell’ azionismo sardo per un inquadramento delle sezioni isolane del PId’ A nel PSd’ A.
Il 15 settembre dello stesso anno si riunivano, sempre a Macomer, i dirigenti regionali del PSd’ A e veniva concordata la fusione delle sezioni azioniste con quelle sardiste nei comuni dove esistevano entrambe e comunque l’unificazione della sigla con quella del Partito Sardo d’Azione.
Se l’ accordo di fusione nell’isola non soddisfaceva in pieno la parte sardista (che pure assorbiva organicamente e quindi in pratica egemonizzava l’ azionismo isolano), ancora meno poteva soddisfare gli azionisti. Per i dirigenti fu più facile. Il massimo esponente – nazionale e regionale – del PId’ A, Emilio Lussu (che poi era anche il leader carismatico del PSd’ A), ebbe il singolare privilegio di poter mantenere la doppia tessera; altri dirigenti regionali azionisti come Cesare Pintus, Gonario Pinna, Salvatore Cottoni e la stessa compagna di Lussu, Joyce Salvadori, presero, sia pure a malincuore, la tessera del PSd’ A, mentre altri esponenti che vivevano e operavano a Roma, come Stefano Siglienti, Mario Berlinguer e Francesco Fancello, mantennero la tessera del Partito d’ Azione. Anche la base azionista delle sezioni isolane, pur riluttante, si conformò per lo più agli accordi di Macomer. Certo, alcuni elementi, individualmente, lasciarono il loro partito per aderire chi al PSI, chi al PRI, qualcuno anche al PLI o addirittura al PCI, però le sezioni (una quarantina circa, forse qualcuna di più) si fusero con quelle sardiste o – nei pochi casi in cui non esisteva la sezione sardista – mutarono la dicitura con quella del Partito Sardo d’ Azione. Tranne il caso del comune di Morgongiori. La sezione del Partito d’ Azione di quel piccolo paese visse, accanto e in concorrenza con quella del PSd’ A quasi per altri due anni dopo i deliberati di Macomer, presentò perfino una lista delle elezioni comunali del 1946, gareggiando con una lista di coalizione PSd’ A-DC per il primo posto e sciogliendosi soltanto dopo la sconfitta delle urne.
La singolare esperienza cominciò nel maggio del 1944 avendo come teatro Morgongiori, un piccolo villaggio di pastori e di contadini, appollaiato sul versante orientale del Monte Arci, in quegli anni appena collegato da vere e proprie mulattiere con i più importanti comuni della zona, Ales, Uras, Mogoro (Morgongiori era il paese natale di mio padre, dove ho trascorso buona parte della mia infanzia)(1).
Il 21 maggio di quell’anno dunque, una cinquantina di persone (per lo più contadini, pastori e artigiani, però non mancavano alcuni impiegati e qualche studente) si riunivano nella sede del Monte granatico e davano vita alla sezione del Partito d’ Azione (2). Animatori dell’iniziativa erano alcuni elementi della piccola borghesia locale (pensionati, impiegati comunali, studenti) come Antonio Puggioni, Efisio Carta, Peppino Fenu, Quirico Desogus, che furono eletti dall’assemblea alle cariche direttive. I dirigenti della sezione si misero subito in contatto con la segreteria provinciale del partito che era retta da Cesare Pintus, il quale era anche amico personale del presidente della sezione, Carta. Lo stesso Pintus tuttavia intervenne pesantemente quando seppe che il Fenu, eletto segretario della sezione, era stato in precedenza segretario politico del Fascio locale, per cui questi venne immediatamente rimosso e sostituito con un certo Mereu (3).
Tutto questo avvenne una settimana più tardi, nel corso di una successiva riunione, ben più affollata della precedente, che fu tuttavia abbastanza tempestosa per via delle proteste vivaci dell’interessato. L’ edificio del Monte granatico è ubicato proprio di fronte alla casa di mio nonno ed io, assieme a una banda di ragazzini curiosi (avevo appena 12 anni), sono stato spettatore, sia pure passivo, di quella infuocata discussione (4).
Nel paese in quegli stessi mesi si era costituita anche una sezione del Partito Sardo d’Azione per iniziativa di alcuni fra i più ricchi (si fa per dire…) proprietari e maggiorenti locali. Questi erano guidati da un “nobilotto di razza”, Don Salvatore Massidda, rampollo dei Cavalieri di Simala, fratello del più noto Don Carlino Massidda, avvocato e già consigliere provinciale sardista nel 1° dopoguerra, anch’egli facoltoso possidente della zona. Benché non fossero mancati tentativi, da parte di qualche dirigente azionista, di cercare un collegamento fra le due sezioni, questi non ebbero successo. A parte infatti alcuni casi di malintesi e di rancori sul piano personale fra i dirigenti delle sezioni rivali (fatti questi che rivestono una certa importanza in un piccolo centro), esisteva e balzava subito evidente la frattura di “classe” in un villaggio dove, se era vero che anche i cosiddetti “ricchi” menavano vita grama, la stragrande maggioranza della popolazione (piccoli coltivatori, braccianti, pastori) era letteralmente alla farne. La sezione sardista non riuscì a fare molti proseliti: c’ erano sì fra gli iscritti al PSd’ A anche contadini, braccianti e servi pastori, però questi lo avevano fatto unicamente dietro la pressione dei loro padroni che erano poi gli stessi dirigenti del sardismo locale. La predicazione dei dirigenti azionisti invece faceva facilmente breccia sulla povera gente: questi “dannati della terra” sentivano parlare per la prima volta di giustizia sociale, di diritti sindacali, di cooperative di pastori e di caseifici sociali, di riforme agrarie, di esproprio senza indennizzo di terre incolte e di assegnazioni ai senza-terra e a quelli con poca terra (5).
Inoltre il gruppo dirigente, di cui facevano parte giovani assai attivi, si preoccupava di procurare materiale giornalistico e saggistico onde educare le masse rurali del villaggio che per lo più erano analfabete o semianalfabete. Ricordo anche che durante l’ estate di quello stesso anno, nel paese (dove io trascorrevo le vacanze estive, mentre la mia famiglia era sfollata nella vicina Mogoro), dopo le afose giornate trascorse nell’aia a trebbiare il grano – operazione che si svolgeva ancora come 2000 anni prima, con i buoi e i cavalli – zio Giovanni, contadino e analfabeta, mi conduceva la sera all’osteria dove incontrava i suoi amici pure analfabeti e mi faceva leggere a voce alta la stampa del partito, fatta per lo più di dattiloscritti, ma talvolta anche di qualche raro foglio stampato nell’Italia liberata. Non dimenticherò mai il giorno in cui lo stesso zio Giovanni venne trafelato a cercarmi a casa, mostrandomi orgogliosamente una copia di un opuscolo fresco di stampa che gli aveva donato il presidente della sezione, che recava come titolo “Il Partito d’Azione nei suoi metodi e nei suoi fini”, il cui autore era un certo Francesco Fancello, nome che a me, allora, non poteva significare molto.
«Fai il piacere – mi disse – leggimi questo libretto e spiegamelo». Confesso che dovetti penare molto a capire (quel poco che potevo capire di cose politiche a 12 anni) e soprattutto a tradurre in lingua sarda il contenuto di quell’opuscolo. Qualche anno più tardi, calmatesi le prime passioni politiche nel villaggio, ritornai con una coscienza politica più matura a casa dello zio e gli chiesi di prestarmi, se ancora lo aveva, il libretto che ormai era introvabile anche a Cagliari. Il buon vecchietto mi consegnò volentieri il libretto, ma con il passare degli anni dimenticò di richiedermelo e io stesso… devo dire che non feci molto per ricordarglielo. Ancora oggi possiedo quel raro esemplare (un po’ sgualcito e senza copertina) e lo conservo gelosamente; forse fu proprio la lettura di quel libretto a conquistarmi agli ideali del socialismo liberale che in seguito dovevano rafforzarsi, pur nella peregrinazione attraverso diverse formazioni politiche: dal Partito Sardo d’ Azione Socialista di Emilio Lussu dove ebbe inizio la mia prima militanza politica, al PSI dopo la confluenza dei socialsardisti alla fine del 1949 (6), al Movimento di Unità Popolare di Piero Calamandrei negli anni del peggior frontismo, per ritornare poi nel PSI una volta che il partito riconquistò la sua autonomia dal PCI (7).
Come ho già detto, la propaganda del Partito d’ Azione nel piccolo centro ebbe successo fra le masse rurali. Molto meno invece interessava quella del sardismo ufficiale, anche perché di autonomia della Sardegna e di Repubblica federale parlavano ugualmente con maggiore incisività gli stessi esponenti della sezione azionista. C’era tuttavia un punto negativo dell’ azionismo: quello del laicismo che, molto spesso, sconfinava nell’ anticlericalismo. Quei discorsi sulla separazione della Chiesa dallo Stato, sul matrimonio civile e sul divorzio, non potevano non suscitare forti perplessità presso una popolazione rurale che era profondamente religiosa e praticante. E se qualche assenso si poteva cogliere nel mondo maschile fra i giovani, negli ambienti femminili certi discorsi erano considerati poco meno di eresie, passibili di scomunica. Il confessionale, d’ altra parte, era perennemente in guardia, e questo errore dell’azionismo locale si farà sentire pesantemente al momento delle elezioni.
Il gruppo sardista locale invece ignorava qualsiasi discorso laicista (che pure era presente nel programma del PSd’ A) ed anzi i dirigenti della sezione, il presidente Massidda in testa, erano religiosi praticanti e qualcuno ricopriva addirittura delle cariche nelle organizzazioni cattoliche. Il parroco Don Manias, vecchia figura di oscurantista (credo che fosse ancora fermo al sistema tolemaico), nutriva idee da inquisizione spagnola ed era in ottimi rapporti con i maggiorenti locali, attaccava in ogni occasione gli azionisti, sorvolando benevolmente sui sardisti (8).
Arrivò il 1945 e la sezione azionista di Morgongiori andò aumentando i suoi proseliti, favorita anche dal ritorno in paese di un giovane medico, il dott. Pietro Scano, che aveva operato nei servizi sanitari delle formazioni partigiane di “Giustizia e Libertà” del Veneto ed ora recava nel suo villaggio, con le ultime notizie della guerra di liberazione, una ventata di idee nuove (9).
C’è da osservare che a Morgongiori la sezione del Partito d’ Azione non raccolse l’invito a sciogliersi e a confluire nella sezione del PSd’ A, che derivava dal patto di Macomer del settembre 1944, che era stato siglato dal direttorio sardista e dai dirigenti provinciali azionisti. Non ho trovato documenti ufficiali, però mi risulta dalle testimonianze di alcuni superstiti che gli ex dirigenti azionisti cooptati nel direttorio sardista e lo stesso Cesare Pintus si adoperarono verbalmente ed anche con lettere per convincere i dirigenti della sezione locale a rispettare il deliberato di Macomer.
La linea difensiva della sezione locale era formalmente ineccepibile: nonostante l’assenso, verbale e scritto, di Emilio Lussu, leader del Partito d’ Azione, al patto di confluenza in Sardegna, la direzione nazionale non aveva ufficialmente ratificato l’accordo. Per cui la situazione si trascinò immutata per tutto il 1945, anzi fino alle elezioni amministrative del 1946. Verso la fine del 1945 le forze politiche del paese entravano in febbrile attività per la preparazione delle liste in vista delle prime elezioni amministrative del postfascismo. La DC non aveva una grossa organizzazione, però poteva contare sulla grande riserva di voti (soprattutto femminili) che le avrebbero garantito l’Azione Cattolica e le altre istituzioni parrocchiali.
Il PSd’ A non le faceva paura, perché l’organizzazione sardista era abbastanza debole nel villaggio; così come non temeva la sinistra storica (PCI e PSI) che non era organizzata in sezioni, mancando nel paese una vera classe operaia, ma che tuttavia intendeva presentare una lista unica alle elezioni. Il vero nemico da battere era il Partito Italiano d’ Azione, che poteva contare su una sezione forte e organizzata e che aveva avuto successo presso le masse dei contadini, dei braccianti e dei pastori. Era insomma il vero partito della sinistra in quel comune. Il suo programma di intonazione laica e talvolta anticlericale terrorizzava letteralmente l’ ambiente cattolico (così come il suo programma sociale impauriva i possidenti locali). Nacque così a Morgongiori la strana e innaturale alleanza elettorale fra la DC e il PSd’ Ai cui dirigenti locali decisero di presentare una lista unica cattolico-sardista con un capolista sardista, appunto il nobiluomo Don Salvatore Massidda.
La lotta elettorale si svolse in toni aspri fra le due liste concorrenti, quella democristiano-sardista e quella azionista (la lista socialcomunista non aveva seria consistenza), con grande imbarazzo degli esponenti provinciali della DC e del PSd’ A ma soprattutto di questi ultimi che dovevano parlare nei comizi contro i candidati azionisti che, almeno ideologicamente, appartenevano alla medesima matrice.
Le elezioni comunali furono sfavorevoli alla lista azionista. Democristiani e sardisti uniti superarono gli azionisti per almeno un centinaio di voti e ciò fu spiegato con il massiccio voto femminile e con il terrorismo da confessionale (10). Fu eletto sindaco lo stesso cav. Massidda il quale, comunque, dopo breve tempo passò, armi e bagagli, al campo democristiano (11). La sezione del Partito d’Azione visse ancora qualche mese, poi (dato anche il suo isolamento dagli organi provinciali ormai inesistenti dopo la cooptazione nel PSd’ A) decise di fondersi con quella sardista da cui però erano usciti gli elementi più conservatori e indesiderabili.
Si concludeva così la breve, singolare (e, diciamo pure, coraggiosa) esperienza dell’ azionismo sardo in quel piccolo comune di montagna.
L’episodio del gruppo azionista che – ignorando gli ordini della stessa dirigenza provinciale – riuscì a sopravvivere in un piccolo centro fino alla metà del 1946, se politicamente può apparire di scarso rilievo, può offrire però lo spunto per qualche utile riflessione. La domanda che ho cercato di pormi più volte è questa: era possibile un autonomo sviluppo dell’azionismo tout-court in Sardegna? e, se questo doveva proprio sparire, come effettivamente accadde, era possibile almeno lo sviluppo di un sardismo diverso nell’isola? Io penso proprio di sì. Per sardismo diverso intendo un movimento autonomista e federalista (oggi potrei anche aggiungere, dopo l’esperienza maturata nel Movimento di Nazione Sarda), etnico-nazionalitario, che si riagganciasse al sardismo del 1° dopoguerra, senza suggestioni anacronistiche di tipo separatistico, con una scelta di campo classista, ma soprattutto con una apertura alle nuove correnti autonomiste e federaliste italiane ed europee. Questo era il senso che i fautori del collegamento fra sardismo e azionismo intendevano imprimere al nuovo Partito Sardo d’Azione rinato dopo la sconfitta del fascismo. Il ripudio del concetto di ogni forma di alleanza con qualunque forza politica nazionale (12), compreso il PId’ A (richiesto dalla base e dai quadri sardisti), in nome di una difesa a oltranza degli specifici interessi dell’isola, non riuscì a mascherare un certo provincialismo conservatore con l’innaturale supporto del separatismo, che era stato sostanzialmente estraneo al Movimento Combattentistico e al primo Partito Sardo d’Azione.
D’ altro canto, negli anni che seguirono la scissione sardista del 1948 (con la costituzione del Partito Sardo d’Azione Socialista e il successivo passaggio di questo, verso la fine del 1949, nel PSI nel quale due anni prima era confluito anche il Partito d’Azione privato dell’ ala repubblicana di La Malfa), siamo stati testimoni di diversi e contraddittori momenti politici. In quegli anni il PSd’ A ufficiale non ha disdegnato 1’ accordo politico con partiti politici nazionali quali il PRI (nel cui gruppo parlamentare fu iscritto l’ unico eletto sardista), il Movimento Comunità di Ivrea, guidato da Olivetti e, ben ultimo, il PCI, il partito più antiautonomista dell’ arco antifascista e sotto il cui simbolo furono inseriti i candidati sardisti.
Certamente il momento scelto da Lussu per la fusione del PSd’ A Socialista con il PSI fu quanto mai inopportuno: era il momento in cui i frontisti di Nenni e di Morandi (e perché non dirlo? anche di Pertini) riprendevano le redini del partito. E molti di noi social-sardisti, che ci consideravamo gli eredi legittimi dell’ azionismo sardo, lo seguimmo in quel PSI, ma per poco tempo (13). Nel 1953 fummo, assieme a Tristano Codignola e a Piero Calamandrei (13), fra i fautori del Movimento di Unità Popolare che, in un certo senso, teneva viva la fiaccola di “Giustizia e Libertà”. Poi, dopo i fatti d’ Ungheria, nel 1957 rientrarnmo nel PSI, però non seguimmo egualmente Lussu nella nuova scissione del 1964 che dava vita al PSIUP (che avrà comunque vita molto breve)(14). Il fatto è che la grande occasione dell’azionismo in Italia e in Sardegna era morta nel 1946, con la scissione del Partito d’ Azione e con elezioni per la Costituente, quando non si riuscì a far comprendere all’ elettorato che il nuovo Partito derivato da “Giustizia e Libertà” era sì un partito socialista, ma non di matrice marxista. Ma forse la vera, grande occasione fu perduta un anno prima, subito dopo la Liberazione, quando fallì il tentativo di dare vita a un grande, rinnovato, Partito Socialista Liberale, mettendo assieme il PSI, il Pd’ A e il PRI. Un’ ultima considerazione riguarda la Sardegna e il fallimento della sua autonomia speciale.
Gli uomini del sardismo postfascista giustificarono la loro opposizione al patto con il Partito Italiano d’ Azione con l’argomento che solo un PSd’ A forte e del tutto indipendente avrebbe potuto dare le garanzie necessarie per la conquista di una solida autonomia speciale. La verità storica è un’ altra. Gli azionisti, sia in sede regionale che nazionale, si dimostrarono ben più avanzati in materia, conquistando per l’isola quello che poi la maggioranza dei consultori sardi (sardisti compresi) avrebbero rifiutato: uno Statuto speciale forte e ricco di prerogative, ricalcato sul modello di quello siciliano (15).
Ed è ben strano che oggi versino lacrime ipocrite sull’ attuale Statuto anemico (e sul suo fallimento quarantennale), proprio molti di coloro che hanno contribuito a crearlo (e molto spesso a gestirlo).
Note
(1) Mogoro era invece il paese di mia madre ed anche il mio comune di nascita.
(2) Cfr. G. Murtas, Cesare Pintus e l’Azionismo lussiano, Altemos, Cagliari 1990, p. 7.
(3) Cfr. G. Murtas, Ivi, p. 98.
(4) Alcuni mesi prima, nell’ ottobre 1943, durante lo sfollamento a Mogoro, avevo potuto assistere, sempre nella veste del ragazzino “invadente’, alla prima riunione semiclandestina (svoltasi nella mia abitazione) dei vecchi sardisti del paese, i quali, assieme a un gruppo di giovani studenti guidati dal mio fratello maggiore, gettavano le basi per la ricostituzione della sezione del PSd’ A.
(5) Pur nella mia inesperienza di adolescente, avevo potuto notare la profonda differenza che esisteva fra le posizioni della sezione sardista di Morgongiori (guidata dai “prinzipales”) e quelle della sezione di Mogoro, alla cui testa stavano piccoli coltivatori, impiegati e studenti. Inoltre, mentre i sardisti di Mogoro erano dichiaratamente “lussiani”, quelli di Morgongiori diffidavano delle idee del grande leader carismatico e ne paventavano il rientro. Era sintomatico comunque che a Mogoro non fu mai sentita l’esigenza di creare una sezione del PId’A.
(6) Cfr. G. Contu, Origine e crisi del socialsardismo. A quarant’anni dalla nascita del PSAS, in “Quaderni Bolotanesi”, anno XV, n. 15, 1989, p. 85.
(7) Cfr. G. Contu, Emilio Lussu, cento anni dopo. Le radici sarde, lo scrittore italiano, il politico europeo, in “Quaderni Bolotanesi”, anno XVII, n. 17, 1991, p. 35.
(8) Ricordo perfettamente quando Don Manias (battezzato dai paesi poco riverentemente con il soprannome di “Predi Cassola”), nelle prediche domenicali del periodo preelettorale, lanciava anatemi contro Emilio Lussu, «… uomo scostumato perché non sposato in chiesa, noto anticlericale e pericoloso framassone» (sic).
(9) Passati quegli anni ruggenti, tuttavia, anche il dott. Scano si affrettò a raggiungere i più facili lidi del PSd’A, sorvolando prudentemente sul suo passato azionista.
(10) Cfr. L’ Unione Sarda del 3 aprile 1946, n. 79. Cfr. anche Il Solco del 4 aprile 1946, n. 13.
(11) Nel 1952 mi capitò di incontrare il vecchio Don Salvatore Massidda, non più Sindaco di Morgongiori, nelle vesti di presidente del Comitato Civico del paese.
(12) Cfr. G. Murtas, I mori fra Pirandello e Kafka, in Sardismo e Azionismo negli anni del CLN, a cura di G. Murtas, Alterns, Cagliari 1990, p. 79.
(13) Cfr. G. Contu, Origine e crisi del Socialsardismo, cit., pp. 86-87.
(14) Cfr. G. Contu, La componente autonomistica nell’evoluzione storica del socialismo sardo, in “Quaderni Bolotanesi”, anno XVIII, n. 18, 1992, p. 29.
(15) Cfr. E. Lussu, Il discorso al cinema Olympia, in Stampa periodica in Sardegna 1943-49, vol. VIII, Riscossa Sardista a cura di A. Mattone, Edes, Cagliari 1975, p. 308. Su cui cfr. A. Contu, Il federalismo come fine. Critica dello Stato nazionale e fondazione dell’Unità Europea in Emilio Lussu, in Id., Le ragioni del federaIismo, Lortziana, Sassari 1993, (in corso di stampa).
N.d.C.
Il breve ma sodo intervento di Gianfranco Contu è l’esito delle molte sollecitazioni che gli ho rivolto nel tempo, convinto come ero, e come sono, che la sua esperienza di democratico impegnato e di intellettuale “inorganico” alle scuole prevalenti gli consentisse una elaborazione originale tale da risultare, sotto taluni aspetti, complementare ai termini della mia ricerca.
Sardista lussiano (dall’adolescenza) di successivi e insistiti approfondimenti nazionalitari, con approdi però federalisti ed internazionalisti e non certo avviliti nelle secche di un provincialismo chiuso e sterile, tutto compreso di sé e di sé soltanto; biografo del Tuveri e conoscitore come pochi altri della produzione filosofica e politica del pensatore- giornalista di Collinas che amò patriotticamente e Mazzini e Cattaneo ma che da entrambi, per la irriducibile specificità della sua formazione e del suo vissuto, si differenziò nella complessa proposta di un ordinamento giuridico-istituzionale dominato da un superiore imprinting etico-morale; promotore di iniziative culturali e pubblicistiche, di testate giornalistiche e di case editrici, l’amico Contu ha speso il meglio delle sue energie di uomo di ricerca e di scrittura nella definizione di una sintesi possibile fra gli indirizzi che variamente avrebbero portato ad un moderno socialismo liberale tutto attraversato dalle pulsioni autonomistiche, ad un sistema politico-costituzionale ispirato ed animato da una febbre umanitaria scaturente così dal bisogno sociale della redenzione delle classi più povere come dalla speculare esigenza di realizzare un comunitarismo fra soggetti diversi ma tutti egualmente portatori di una fiera ed onesta coscienza di sé e dei propri fondamenti storici.
Egli ha vissuto e rivissuto la parabola dell’ azionismo come l’incanto di questo socialismo liberale, di questo comunitarismo dialogìco e progressivo che Lussu aveva predicato e che – mi sia consentito – lui per primo, e per molti rispetti, aveva quindi disastrosamente contraddetto. Fino a sconfiggere definitivamente l’utopia.