Monsignor Pier Giuliano Tiddia, vescovo da quarant’anni, di Gianfranco Murtas

MOns. Piergiuliano Tiddia al termine di una concelebrazione nella cattedrale di Oristano.

Caro Salvatore,

lo scorso 2 febbraio il nostro don Pier Giuliano Tiddia ha celebrato il quarantesimo della sua ordinazione episcopale. Dico “nostro” per ragioni affettive che tutti e tre ci uniscono, ma poi a titolo particolare tu perché, da seneghese pur residente a Cagliari, sei stato suo diocesano morale, dati i vent’anni di servizio apostolico di don Pier Giuliano nell’archidiocesi antica e prestigiosa di Oristano; io invece perché già da età lontana, direi adolescenziale, lo ebbi a Cagliari caro riferimento, esempio di disciplina e generosa disponibilità sempre.

Anni addietro, nell’occasione del suo ottantesimo compleanno festeggiato fortunatamente in buona salute e in un fare sempre prezioso (e discreto) a pro di singoli, associazioni e parrocchie in specie del capoluogo, egli raccolse il mio invito a fissare sulla carta i ricordi di tutta una vita, sui crinali personali e familiari, di studio ed ecclesiali, nella successione dei luoghi e dei momenti. Arcivescovo metropolita emerito di Oristano, poté allora ricostruire una trama complessa e gentile della sua missione anche nelle Chiese particolari di Lanusei e di Ales, in cui condusse amministrazioni apostoliche per incarico della Santa Sede. E anche per questo – per la quadripolarità (territoriale) del suo servizio episcopale  e per il decanato del rango – era stato eletto nel 2003 alla presidenza della CES allorché don Ottorino Pietro Alberti lasciò la guida dell’archidiocesi di Cagliari e, con essa, anche quella della Fraternità episcopale isolana. Ma di più: per il gran lavoro compiuto nel respiro regionale del Concilio Plenario Sardo, nelle funzioni di segretario generale per lunghi anni, già dalla fine degli anni ’80 fino al 2001, alla pubblicazione degli Atti cioè, egli meritò quanto fu riconoscimento di valore.

Duole – e tu lo sai, in una sensibilità e in un giudizio che ci unisce – che dopo di lui siano stati innalzati alla sede di Oristano ed alla presidenza della CES personalità che, estranee al percorso del Concilio Plenario Sardo, hanno bellamente rimosso quegli impegni, cominciando dai più elementari che costituivano poi soltanto un adempimento formale e un vincolo morale: la verifica decennale. Tanto don Giuseppe Mani quando don Ignazio Sanna si sono caricati, davanti al popolo che dovevano servire, e davanti alla storia che associa le generazioni nel loro continuo subentro, la grave responsabilità di mettere nel non cale gli impegni conciliari, talvolta perfino irridendo ad essi ed a chi intendeva onorarli. Piccole cose che forse non saranno neppure registrate, atteso che per lunghi anni neppure sono stati pubblicati i verbali, o i comunicati, delle tornate di lavoro della Conferenza Episcopale Sarda.

Oggi siamo alla vigilia di un concistoro che darà riconoscimento a don Luigi De Magistris, associandolo al clero romano che storicamente fa senato attorno al vescovo-papa, e insieme darà lustro e però anche impegno alla Chiesa sarda della quale, pur eccentrico secondo invalse categorie, sono figlio anch’io. Sarebbe bello ripercorrere i tratti paralleli delle vite dei due presuli – don Luigi e don Pier Giuliano –, chissà, è una idea… E mi commuove pensare adesso a loro, nella emozione anche delle notizie che arrivano sulla prossima beatificazione del martire Oscar Arnulfo Romero, alla cui figura il vissuto spirituale di tanti di noi è debitore.

Intendendo onorare oggi il nostro don Pier Giuliano Tiddia ti mando, perché ove lo ritenga utile tu possa pubblicarle nel sito, alcune pagine di quel racconto autobiografico resomi, secondo la formula giornalistica della intervista, dall’arcivescovo emerito per la pubblicazione nel volume “Il Vangelo, la Chiesa e la Sardegna: una esperienza di vita. Conversazione con monsignor Pier Giuliano Tiddia, arcivescovo emerito di Oristano”. Si tratta dei passaggi di memoria che riportano alla promozione episcopale appunto di quarant’anni fa, nella nostra cattedrale di Santa Maria.

Sia anche questa manifestazione pubblica, in abbinata a quella personale e privata, un omaggio al caro don Pier Giuliano per quanto egli è stato e per quanto è.

Abbracci, Gianfranco Murtas

Essere vescovo, l’incontro di fraternità e paternità

Del 1974 è la nomina ad ausiliare. Se l’aspettava? Cresceva il prestigio ma di pari passo anche il carico di responsabilità…

Tutto è avvenuto nella massima riservatezza. Strano, perché qualche spiffero c’è sempre. E’ anche vero che spesso i vicari generali sono promossi, ma non è una regola in nessun modo.

 

Com’è la procedura?

La nomina avviene a Roma. La competente Congregazione – evidentemente quella dei Vescovi –   comunica la delibera all’ordinario diocesano perché a sua volta ne informi l’interessato. Ciò naturalmente quando si tratta di prima nomina. Era il 21 dicembre 1974, un sabato, e monsignor Bonfiglioli aveva in agenda un ritiro spirituale alle suore. Prima che uscisse passai da lui come ogni mattina e ricordo che incominciò a dire «O oriens…» che è l’antifona al “Magnificat” del giorno. Dovevo interpretare?

 

E poi cos’è avvenuto?

Quando finii con le pratiche dell’ufficio, rincasai perché monsignor Bonfiglioli ancora non era tornato. Nulla di strano. Però ecco, a metà pranzo una telefonata. Era lui: «Se ne è andato via presto…», «Eh, all’ora di chiudere, eccellenza». «Abbia pazienza, venga subito da me». Presi la macchina e andai da lui. Mi accolse nell’atrio. «Beh, facciamo le cose in fretta: lei è stato nominato vescovo; venga venga, la faccio parlare con il cardinale Baggio». Ecco capito anche il motivo di quegli orari inconsueti dell’antifona «O oriens…»: il cardinal Baggio aveva appena presentato al papa le proposte di nomina che erano state deliberate dalla Congregazione dei Vescovi. L’udienza era fissata per la tarda mattinata di quel sabato mattina. A udienza conclusa, ottenuta la firma di Paolo VI, il cardinale ne informò monsignor Bonfiglioli, con il quale evidentemente c’era già l’appuntamento telefonico, e gli comunicò o confermò la notizia.

Quindi ecco che l’arcivescovo mi passò il telefono, e il cardinale…  «per comunicarti che sei diventato vescovo… , cara eccellenza…». Scherzava. E io, confuso, cosa potevo rispondere? «Grazie, eminenza».

 

Quindi una bella promozione ma comunicata nel più informale dei modi: via telefono. E poi cosa successe?

Monsignor Bonfiglioli mi chiese: «L’annuncio quando possiamo darlo? Diciamolo il 24». Risposi: «Va bene». Bisogna considerare che eravamo a ridosso di Natale, e che il 24 dicembre era fissato l’incontro dell’arcivescovo con i canonici, i collaboratori di curia e altri, per lo scambio degli auguri.

Così avvenne, era mezza mattina. Monsignor Sitzia, ancora in salute, porse a nome di tutti, il suo saluto. L’arcivescovo poi, al momento di rispondere, disse: «Fate entrare i laici». C’era qualche decina di persone fuori della sala infatti. E appena la sala fu piena ecco che monsignor Bonfiglioli dette l’annuncio della nomina. Cambiò tutta la scaletta degli auguri.

 

Chi  stato il suo… sponsor? O diciamola più seriamente: come, realisticamente, ha preso sostanza questa promozione che pure poteva essere nelle previsioni?

La proposta, nel caso concreto, è certamente partita da monsignor Bonfiglioli, che evidentemente considerava anche le dimensioni della diocesi, le nostre centoventi parrocchie, l’esigenza da parte sua di occuparsi anche della presidenza della Conferenza Episcopale Sarda, ecc.

Come è regola, la proposta dell’ordinario passa alla Congregazione che istruisce la pratica. Vengono raccolte notizie sull’interessato, con vincolo di segretezza, nella diocesi di residenza o altrove, infine il prefetto porta la decisione alla plenaria della Congregazione e poi la delibera finale passa al papa.

 

Che nel caso – essendo Paolo VI – avrà letto nel fascicolo, o avrà saputo dal cardinal Baggio, che lei era quel tale don Tiddia che l’aveva accolto in seminario il 24 aprile 1970 e che aveva assistito a Cagliari, per tanti anni, l’amata FUCI…

Chissà, forse sì. In genere, le proposte che vengono presentate al papa sono una terna. Nel caso concreto, perché questa è una confidenza che mi fece monsignor Bonfiglioli stesso gratificandomi molto, lui disse «O Tiddia o ci rinuncio». D’altra parte non può non considerarsi che da più di un anno lavoravamo gomito a gomito, ed evidentemente c’era ormai un affiatamento e anche una stima da parte sua per il lavoro che sbrigavo… Ma il cardinale Baggio, che sapeva il suo, lo rassicurò. Io di me, però, non sapevo davvero nulla, nessuno mi aveva mai anticipato nulla. Se terna formale ci sia stata non lo so, né è giusto che lo sappia.

 

Ed ebbe il titolo di Minturno. Come mai?

Minturno è una ex sede vescovile da tempo incorporata nella diocesi di Gaeta, in provincia di Latina. Non avendo più un suo vescovo residenziale, il titolo – come peraltro quello di svariate centinaia di ex diocesi di tutto il mondo – viene assegnato ad un vescovo ausiliare o al responsabile di un ufficio, come per esempio nella Santa Sede. Anche in Sardegna abbiamo diversi titoli episcopali che sono assegnati a vescovi talvolta anche stranieri… Così c’è il vescovo di Dolia, il vescovo di Suelli, il vescovo di Santa Giusta, ecc. E d’altra parte anche il nostro monsignor Luigi De Magistris, pro-penitenziere maggiore emerito, ha il titolo di Nova, antica diocesi ora scomparsa del nord Africa, o monsignor Pillolla, quando prima di andare ad Iglesias era vescovo ausiliare di Cagliari, aveva il titolo di Cartenna, che era una comunità cristiana che rimanda addirittura a Sant’Agostino…

E lei è stato a conoscere la sua diocesi-non diocesi?

Sì, pochi mesi dopo la nomina, andai a presentarmi, a conoscere ed a celebrare la messa nell’antica cattedrale. Come particolare di curiosità aggiungerei che al momento della comunicazione telefonica il cardinale Baggio non ricordava il titolo. Lo seppi dopo, il giorno dell’annuncio ufficiale.

 

Quale motto episcopale scelse e quale stemma. E perché?

La scelta dello stemma fu tra le prime preoccupazioni da risolvere, mi veniva richiesto, ed occorreva per le stampe che preparano l’ordinazione episcopale. Mi venne in mente il richiamo di una meditazione svolta dal carissimo papa Giovanni XXIII nella preparazione al sinodo romano: il Libro sacro e il Calice: richiamano fortemente la missione del sacerdote e prima del vescovo. Ecco le immagini del mio stemma: in alto è la colomba, immagine biblica dello Spirito Santo. Per il cartiglio scelsi una frase di Sant’Agostino: “Servi sumus eius Ecclesiae”, siamo servi della sua Chiesa. L’espressione, certo significativa, è presa dal testo agostiniano sulla vita dei monaci. Il santo Dottore aggiunge: “Siamo servi della Chiesa di lui, e specialmente delle sue membra più inferme. Se siete fratelli, se siete figli nostri, se siamo conservi, o meglio servi vostri in Cristo, ascoltate i nostri ammonimenti, osservate i nostri precetti, ricevete ciò che vi somministriamo”. Con questo commento, Sant’Agostino ricorda ad ogni vescovo il suo compito di prestazione, ma nota anche che essa non è gradita e attesa se indica alla comunità gli impegni di coerenza alla fede.

La consacrazione quando avvenne?

Il 2 febbraio 1975, in cattedrale. La parrocchia era stata intanto affidata già dal 1973 a monsignor  Cesarino Perra che era canonico penitenziere e già abitava a Castello. Un’altra bella figura di sacerdote colto, che amava le cose antiche in larga parte lasciate al suo comune natale di Sinnai.

D’intesa anche con monsignor Bonfiglioli, scelsi la cattedrale, anche se la basilica di Bonaria era più ampia. C’erano diverse ragioni che mi fecero optare per il duomo: intanto ero vescovo ausiliare di Cagliari, e quella era la sede del vescovo. Poi della cattedrale ero stato parroco per due anni, ero nel Capitolo già da sette anni, e dell’ambiente – dico della curia nella varietà dei suoi uffici, fra cancelleria, economato, e poi anche Tribunale – ero un assiduo per lavoro già da vent’anni… Feci una ricerca: l’ultimo vescovo che era stato ordinato in duomo era stato monsignor Giuseppe Cogoni nel gennaio 1931, anche lui era vicario generale e fu mandato a Nuoro, e nel 1938 ad Oristano.

In antico c’erano stati degli ausiliari che dovevano accompagnare i vescovi cadenti, qui non c’era un vescovo cadente, ma un vescovo che riconosceva di aver bisogno di un aiuto per il gravoso lavoro pastorale da affrontare. Ed a cui detti, come sempre ho cercato di fare, la migliore collaborazione.

 

Naturalmente invitò il cardinale Baggio, che da Cagliari mancava neppure da tre anni. Sbaglio?

Credetti giusto chiedere al cardinale di darsi disponibile come consacrante principale, e accettò molto volentieri. Come coconsacranti chiesi a monsignor Giuseppe Bonfiglioli ed a monsignor Paolo Carta: con lui ci conoscevamo da sempre, da quando io ero seminarista, e siamo rimasti sempre in contatto. Certo, avrei potuto invitare anche monsignor Giovanni Cogoni, mio predecessore come rettore del seminario, o altri, ma i coconsacranti potevano essere due soltanto… Comunque intervennero anche i vescovi delle altre diocesi sarde e dal continente fu presente anche monsignor Alberti, con il quale già ci si conosceva perché nei primissimi anni ’70 fu rettore del seminario maggiore ormai trasferito a Cagliari. Poi fu promosso arcivescovo di Spoleto e vescovo di Norcia.

Quando giunse per la cerimonia, il cardinale Baggio portò la bolla di nomina anche di un altro vescovo ausiliare, monsignor Giovanni Pes, dato come aiuto all’arcivescovo di Oristano monsignor Fraghì. E infatti monsignor Pes fu per diversi anni ausiliare ad Oristano. Nel 1979 tornò nella sua diocesi d’origine, Bosa cioè, aggiungendovi nel 1986 la sede di Alghero. Da giovane sacerdote era stato un assiduo del seminario di Cuglieri, gli studenti ne ammiravano la cultura.

 

Naturalmente cattedrale stracolma…

Sì, le navate e i transetti erano stipati. Partecipavano anche moltissimi sarrochesi, e i miei familiari.

 

Come organizzò il suo lavoro?

Le funzioni e i poteri del vicario generale li stabilisce il codice. L’intesa operativa che prendemmo subito con monsignor Bonfiglioli era che dove andava lui non c’era bisogno che andassi anche io per fargli assistenza e così duplicare. In settimana concordavamo gli impegni soprattutto dei giorni festivi, poi ci si vedeva per i resoconti. Con l’arcivescovo, d’altra parte, un incontro lo avevamo tutti i giorni. Salivo da lui alle 9, salvo situazioni eccezionali. Riferivo, mi dava istruzioni. Le materie erano tante, dall’ufficio catechistico alla caritas, ecc. Dopo di che scendevo in curia, al piano terra, per ricevere la gente, e lui faceva la stessa cosa, secondo agenda, al primo piano del palazzo. Tutte le domeniche io andavo almeno in una parrocchia, magari c’erano le cresime…, ma anche senza queste, andare aveva merito in sé, era un incontro pastorale, di conoscenza, confronto, dialogo.

 

Un vertice bicefalo funziona?

Non è un vertice bicefalo. La responsabilità della diocesi l’ha il vescovo residenziale. L’ausiliare collabora, si chiama ausiliare apposta. Certo, il vescovo ausiliare ha tutti i poteri del residenziale tranne quelli riservati alla sua persona. Si tratta quindi di intendersi con reciproco rispetto. Con monsignor Bonfiglioli, ma lo stesso potrei dire di monsignor Canestri dopo di lui, ho lavorato in perfetto accordo sempre. Io sapevo quello che lui desiderava, e cercavo di essere in linea, adeguato alle necessità. D’altra parte, lui non interferiva mai. Non mi ha mai detto di non decidere senza il suo permesso, accoglieva volentieri quello che facevo. Mi dava ampio spazio di libertà, e io cercavo di non invadere il campo delle sue decisioni.

 

Quali presenze conservava negli uffici della curia?

Sotto il profilo degli incarichi particolari mi alleggerii notevolmente. In quanto vescovo ausiliare conservavo l’incarico di vicario generale ed ero membro di diritto del Consiglio presbiterale, del quale divenni il moderatore (restando l’arcivescovo il presidente). E mantenevo ancora la direzione del bimestrale “Bollettino Ecclesiastico Regionale”, nel quale per qualche tempo mi aiutò don Efisio Pala, più tardi parroco anche lui della cattedrale e canonico.

 

Se dovesse indicarne una, quale iniziativa di monsignor Bonfiglioli le pare degna di speciale risalto magari anche perché la coinvolse più direttamente?

Fra il moltissimo che questo nostro amato arcivescovo ha compiuto nella diocesi nei dieci anni in cui l’ha guidata, io citerei la visita pastorale. Egli la iniziò il 6 gennaio 1975 – poche settimane prima della mia consacrazione cioè – e la portò avanti lungo cinque anni. E in questa visita lui affidò a me la parte amministrativa: cioè l’esame e le relazioni sullo stato materiale delle singole parrocchie, edifici, bilanci, ecc. Ero convisitatore, come si dice. Non si andava insieme. Io concordavo direttamente con i vari parroci quando vederci, giorno ed ora, anche per esaminare con loro, e con calma, le carte. Ogni tanto qualcuno mi chiedeva anche di restare per celebrare la messa.

 

La progressiva decadenza fisica di monsignor Bonfiglioli accrebbe il peso del suo ufficio: non solo accompagnare e aiutare, ma anche sostituire. Come visse quelle fasi?

Era doloroso vedere la decadenza dell’arcivescovo, tanto più se lo si ricordava nella sua efficienza dei primi anni. Efficienza sulla quale però faceva premio sempre la semplicità e la bonomia, per non dire bontà, come anche era annunciato dal suo motto episcopale. Trovava difficoltà crescenti soprattutto nella parola, non poteva più parlare nelle cerimonie pubbliche. Io intervenivo quando lui me lo chiedeva, stavo sempre ai suoi desideri. Cercò anche di guidarci nelle funzioni legate all’anno santo straordinario 1983-84 indetto dal papa. Chiaramente me ne dovetti occupare soprattutto io. Proprio allora rinunciò alla diocesi, fra molta sofferenza, anche se sono certo che nel suo intimo aveva la serenità di chi sa di aver fatto tutto quel che era nelle sue umane possibilità. Concludemmo il nostro anno santo quando già era stata data notizia della nomina a nuovo arcivescovo di monsignor Giovanni Canestri.

 

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