I sogni e le fatiche di un Sisifo al Quirinale, di Eugenio Scalfari

Dal Pci fino al Colle, per una nuova classe dirigente e per gli Stati uniti d’Europa. Le ragioni del secondo mandato di Giorgio Napolitano: varare riforma costituzionale e quella elettorale, evitando elezioni anticipate. Nell’interesse generale del Paese. La Repubblica, 14 gennaio 2015.

 

OGGI Giorgio Napolitano darà le dimissioni e se ne andrà dal Quirinale. Tornerà nella sua casa di via dei Serpenti e il suo ufficio sarà a Palazzo Giustiniani come spetta a tutti quelli che hanno ricoperto la carica di presidenti della Repubblica.

L’aveva già fatto più d’un anno fa, alla scadenza del suo settennale mandato aveva preparato gli scatoloni con dentro le carte di pertinenza propria degli anni trascorsi, le sue private memorie e tutte le altre che non interessano gli archivi di Stato ma soltanto la persona che ha ricoperto quella che è la più alta istituzione chiamata a tutelare la Costituzione e le prerogative del Presidente coordinando la leale collaborazione tra poteri costituzionalmente distinti e talvolta anche contrapposti.

Va aggiunto però che, oltre a queste essenziali funzioni, è auspicabile anche che la figura del Presidente abbia un tratto paternale verso gli italiani e che i cittadini possano avvertire questo tratto che è al tempo stesso protettivo dei loro diritti e dei loro bisogni ma anche severamente educativo verso i loro difetti pubblici. Il privato è libero, il pubblico invece esclude la corruzione, la malafede, l’evasione fiscale, l’arbitrio dei forti contro i deboli e dei ricchi contro i poveri e gli esclusi.

Una volta chiesi a Giorgio  -  al quale mi lega una conoscenza molto antica e una profonda stima da quando quasi nove anni fa fu eletto al Quirinale  -  qual è il suo giudizio su Papa Francesco. Mi rispose che questo Papa interpreta il suo ruolo in un modo che andrebbe imitato da tutti coloro che rappresentano e debbono tutelare i diritti ma anche i doveri di tutti e in particolare dei deboli, degli esclusi, dei poveri e delle minoranze che hanno una visione comune diversa da quella della maggioranza. Ebbene questo dovrebbe essere il ruolo anche del Capo dello Stato. E’ auspicabile che lo tengano presente i parlamentari che parteciperanno al “plenum” del 29 gennaio per eleggere insieme ai rappresentanti delle Regioni il nuovo presidente della Repubblica.

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La vita politica di Napolitano ebbe inizio, come quella di molti giovani della sua e della mia generazione, con l’iscrizione all’università di Napoli nell’autunno del 1942. Ho letto nella sua autobiografia e lui stesso me l’ha raccontato nei nostri numerosi e amichevoli conversari, che i suoi amici erano di sentimenti antifascisti e utilizzavano cautamente le opportu nità offerte dalle diverse articolazioni del Guf di Napoli, compreso il giornale “IX maggio”.

I Guf (Gruppi universitari fascisti) erano in molte città sedi di università, organizzazioni dove i giovani manifestavano sentimenti di “fronda” e il partito concedeva questa larvata opposizione consapevole che i giovani non accettano quasi mai passivamente le visioni politiche della precedente generazione. A me capitò a Roma qualche cosa di analogo ma a differenza di Napolitano i miei amici ed anche io eravamo fascisti o perlomeno tali ci credevamo. A me capitò però di essere espulso dal Guf nell’inverno del 1943 per un articolo scritto su “Roma Fascista”: evidentemente la fronda aveva sorpassato i limiti che il partito poteva sopportare.

Napolitano, dopo questo periodo di antifascismo senza partito di riferimento, si orientò verso i comunisti e si iscrisse a quel partito nel 1945, quando il Sud era già stato liberato dalle armate angloamericane e i partiti antifascisti non erano più clandestini. Va aggiunto però che il Pci aveva da tempo abbandonato il massimalismo di Bordiga e con il Congresso di Lione era stato praticamente rifondato seguendo le indicazioni politiche e culturali di Gramsci e di un gruppo dirigente i cui maggiori esponenti erano Togliatti, Longo, Terracini, Negarville, Scoccimarro, Tasca. I giovani che negli anni successivi dettero la loro adesione avevano accettato l’ideologia leninista-marxista. Ma dal Congresso di Lione in poi quell’ideologia era stata “contaminata” con una lettura gramsciana che teneva anche presente la rivoluzione liberale di Gobetti, gli scritti marxisti di Antonio Labriola e addirittura lo storicismo di Benedetto Croce. Fu quella più o meno l’epoca nella quale aderirono al Pci persone come Amendola e Ingrao e Alicata che facevano parte di questa nuova “leva” e così anche Napolitano, più giovane di loro ma con la stessa duplice cultura politica: il marxismo, la rivoluzione liberal-gobettiana e il liberalsocialismo dei fratelli Rosselli e di “Giustizia e Libertà”. Questa fu anche la cosiddetta “doppiezza” di Palmiro Togliatti il quale però fu anche, in quegli anni di clandestinità, uno dei leader del Comintern l’organizzazione che rappresentava tutti i partititi comunisti, sia quelli che si erano formati nell’Europa orientale e addirittura in altri continenti come la Cina, il sud-est asiatico e alcuni territori africani, sia in paesi occidentali.

Ricordo queste vicende perché altrimenti non si capirebbe la storia politica di Giorgio Napolitano e di altri militanti del Pci. Non si capirebbe cosa è stato quel partito che, dopo Togliatti e Longo, fu guidato da Enrico Berlinguer. Il percorso che seguì il Pci con il nuovo segretario mise in secondo piano l’ideologia, da un certo momento in poi si staccò da ogni sudditanza nei confronti di Mosca e si identificò soprattutto con la classe operaia rappresentata da Trentin e da Lama, con i braccianti guidati da Di Vittorio e con i ceti più deboli della società italiana.

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La “doppiezza” di Togliatti e del gruppo dirigente del Pci, al di là dell’ideologia marxistaleninista che durò fino allo “strappo” di Berlinguer, si verificò soprattutto in un pragmatismo che Togliatti applicò con tratti molto evidenti. Anzitutto con il riconoscimento del governo Badoglio nel 1944 che durò fino alla liberazione di Roma quando fu sostituito da Bonomi. Ma soprattutto dalla decisione di sostenere la nascita dell’assemblea costituente che fece del Pci un partito italiano e costituzionale e non una semplice sezione italiana del Cominform come era per esempio il Partito comunista francese.

Togliatti, quando fu oggetto di un attentato molto grave che rischiò di costargli la vita, ordinò che il partito non facesse dimostrazioni di alcuna violenza. Durante i dibattiti alla Costituente cercò accordi con la Dc tutte le volte che era possibile e votò addirittura per il riconoscimento costituzionale del trattato lateranense e del Concordato (articolo 7) che videro invece il voto contrario del Partito socialista e del Partito d’azione.
Napolitano a quell’epoca era ancora un dirigente locale ed era particolarmente vicino a Giorgio Amendola che condivideva pienamente la “doppiezza” togliattiana accentuandone però il costituzionalismo. Sarebbe stato molto favorevole ad una unificazione col Partito socialista di Pietro Nenni nel periodo in cui quel partito era ancora alleato del Pci. Quando però l’alleanza si ruppe l’ipotesi di una riunificazione diventò impensabile.
Nel frattempo ci fu la repressione in Ungheria del tentativo di quel paese d’uscire dalla “tutela” sovietica. Intervennero le truppe sovietiche e i loro carri armati impedirono che quel tentativo avesse successo. Il Pci non era ancora nelle condizioni di rompere i suoi legami ideologici e politici con Mosca e fu dunque solidale con la repressione, ma molti intellettuali e dirigenti, tra i quali ricordo Antonio Giolitti, uscirono dal partito.

Napolitano, per quanto so, rimase profondamente turbato da quella repressione ma restò fedele alla linea di Togliatti. Un mutamento comunque avvenne perché poco tempo dopo nacque una vera e propria corrente guidata da lui e da Macaluso, che fu chiamata “mi gliorista” o “riformista” e che si schierò pubblicamente contro Mosca quando ci fu una seconda repressione a Praga contro il socialismo di Dubcek. Napolitano in quegli anni era deputato e al tempo stesso dirigente nazionale del partito; sempre più lontano dall’ideologia comunista, la corrente da lui guidata puntava verso una nuova alleanza con la socialdemocrazia europea. In questo senso accolse positivamente la segreteria di Berlinguer, della quale tuttavia fu anche critico perché, distaccatosi da Mosca, restò tuttavia comunista mentre Napolitano sempre più puntava verso un accordo con l’Internazionale socialista europea.

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Ma parliamo ora del Presidente della Repubblica che proprio oggi lascerà il suo secondo mandato. E’ il solo caso d’un incarico al Quirinale della stessa persona che aveva dato le dimissioni alla scadenza del suo settenato. La Costituzione non dice nulla a questo proposito il che significa che esso è possibile come sono altrettanto possibili le dimissioni anticipate. Del resto il Presidente, accettando il secondo mandato, aveva già preannunciato che non l’avrebbe certo compiuto. Era stato pregato di accettarlo da tutte le forze politiche, con la sola eccezione per altro scontata di Grillo e del suo Movimento. Altre soluzioni non c’erano dopo il voto negativo contro Prodi avvenuto per il voto contrario di 101 franchi tiratori del Pd. Spiegarne il motivo è semplice: alcune riforme assai urgenti non erano state ancora votate a cominciare da quella sul lavoro, dalla riforma costituzionale del Senato e dalla legge elettorale. Il governo Renzi e l’interesse generale del paese avevano bisogno che quel percorso procedesse, mentre l’impossibilità di trovare un successore al Quirinale avrebbe inevitabilmente obbligato a nuove elezioni. La fine della legislatura avrebbe dovuto utilizzare la legge esistente per volontà della Corte costituzionale dopo l’annullamento del “Porcellum”, con un sistema proporzionale che avrebbe quasi certamente creato due diverse maggioranze tra la Camera e il Senato e quindi una totale ingovernabilità.

Questa è stata la ragione del secondo incarico a Napolitano che già si era dimesso. “Non supererò comunque la scadenza dei miei novant’anni ” aveva preannunciato. Poi la fatica d’un incarico pieno di impegni nazionali e internazionali ha accentuato il peso che gravava sulle sue spalle e questo lo ha indotto a far coincidere le sue dimissioni con la fine della presidenza semestrale europea gestita dal primo luglio scorso da Matteo Renzi. Appunto oggi il presidente si dimetterà con una lettera ai presidenti del Senato e della Camera, il primo dei quali eserciterà la supplenza al Quirinale fino al momento in cui il successore sarà stato eletto.

Si apre dunque da oggi una fase della massima importanza e delicatezza per le istituzioni e per il paese.

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Bisogna dire che le prerogative del Capo dello Stato in Italia sono notevolmente diverse da quelle degli altri paesi europei. Nella loro quasi totalità in quei paesi il Capo dello Stato non ha alcun potere effettivo; si limita a firmare le leggi votate dal Parlamento e proposte dal premier. Fa eccezione la Francia dove c’è un semipresidenzialismo con un governo nominato dal presidente e un’assemblea parlamentare che ha limitate capacità di controllo sulla pubblica amministrazione e sulla legislazione.

In Italia quelle prerogative sono numerose e fanno del nostro Presidente il garante della Costituzione e della leale collaborazione tra le istituzioni e i poteri che ciascuna di esse rappresenta. Tocca a lui di promulgare le leggi e se non le ritiene conformi a rinviarle alle Camere per una loro seconda deliberazione; nomina il presidente del Consiglio e i ministri da lui proposti; scioglie le Camere anticipatamente se per una qualunque ragione la loro funzionalità fosse bloccata; nomina una parte dei componenti della Corte costituzionale; presiede il Consiglio superiore della magistratura, cioè l’organo di controllo del potere giudiziario; è il titolare esclusivo del diritto di grazia; nomina i senatori a vita entro il limite complessivo di cinque ai quali si aggiungono i capi dello Stato che abbiano terminato quella loro funzione. Aggiungiamo anche che è irresponsabile giudiziariamente fin quando ricoprirà il suo mandato, salvo reati penali colti in flagranza.

Naturalmente queste prerogative sono molto elastiche. L’elastico può essere allentato o teso evitando però la sua rottura. Durante il periodo della partitocrazia, che durò per tutta la cosiddetta prima Repubblica guidata dalla Dc e dai suoi alleati, le prerogative del Capo dello Stato furono di fatto confiscate dai partiti di maggioranza. L’opposizione comunista accettò quella confisca: erano i tempi della guerra fredda, il mondo intero era diviso in due, il deterrente della bomba atomica di fatto produceva una stabilità internazionale e nelle varie nazioni aderenti all’uno o all’altro schieramento, un immobilismo politico da tutti accettato.

Quella stagione cessò con la caduta del muro di Berlino e soprattutto con la riunificazione delle due Germanie. Da allora le prerogative del Capo dello Stato italiano hanno recuperato il peso che dovevano avere e tutti i partiti, nessuno escluso, hanno recuperato la possibilità di costruire una maggioranza di governo o di esercitare un ruolo d’opposizione che prepari una prossima alternanza sempre nel quadro tracciato dalla Costituzione esistente.

In che modo Napolitano ha gestito, in questo quadro, i poteri che la Costituzione gli ha conferito? E fino a che punto ha teso l’elastico?

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Il nostro è un paese politicamente fragile e la fragilità è pressoché inevitabile perché ha come riscontro la fragilità politica dell’Europa. E’ un tema che emerge soprattutto in tempi di crisi, quando tutti siamo chiamati a sopportare sacrifici e a veder frustrate le speranze del futuro. Ma non dipende solo da questo. Napolitano ha studiato a fondo la nostra vita pubblica e non soltanto sui libri: l’ha vissuto come dirigente di partito prima e come presidente della Repubblica poi; quello è un osservatorio che spazia sull’intera classe dirigente, non soltanto politica ma economica, professionale, militare, sui docenti, sui tecnici, sugli scienziati, sui giovani che cercano il futuro, sui vecchi che hanno un’esperienza da mettere in comune.

Ebbene, per qualche ragione motivata dalla storia del nostro paese, noi non abbiamo un “establishment”. Abbiamo individui spesso intelligenti, ancor più spesso furbi e amanti del far da sé, ma se per establishment si intende una classe dirigente che anteponga realmente gli interessi collettivi ai propri e della propria più ristretta cerchia, allora l’establishment in Italia non c’è e non c’è mai stato.

Napolitano nei quasi nove anni di Quirinale ha fatto il possibile e addirittura l’impossibile per compiere e far compiere qualche passo avanti in quella direzione. Ha trovato persone che erano pronte a mettersi insieme a lui e da lui guidate in questa difficilissima strada. E questo è avvenuto ma non è stato sufficiente. Sisifo sollevava i massi e li faceva avanzare verso la vetta della montagna, ma è un personaggio mitologico e quindi divino. Non c’è nessuno che abbia quei poteri. Lo si vorrebbe e infatti la nostra immaginazione ne ha creato il mito proprio perché nella realtà non può esistere.

Questa è la tristezza che Napolitano ha sentito emergere dentro di sé, o almeno così io credo per quanto possa aver capito dei suoi pensieri e della sua diagnosi della realtà. In altri paesi le classi dirigenti, portatrici di una solida visione del bene comune, ci sono e la loro esistenza distingue quei paesi dagli altri. Forse ci sarebbe se l’Europa diventasse un continente federato e non confederato, come ancora è. Napolitano questo lo sa, infatti non ha cessato di ricordare ripetutamente agli italiani ed anche agli europei che il nostro obiettivo è di avanzare sulla strada dell’unità politica dell’Europa. Lui la pensa come Altiero Spinelli e il suo manifesto di Ventotene, la pensa coma la volevano De Gasperi, Adenauer e quegli statisti che prevedevano fin da allora l’evoluzione della società moderna e l’avvento di una società globale dove gli Stati hanno dimensioni continentali per poter confrontare e risolvere tutte le contraddizioni, le diseguaglianze, la povertà, i mutamenti del clima, le ondate migratorie, i conflitti locali.

Ho chiesto a Napolitano molte volte nelle nostre conversazioni qual era il suo sogno europeo e lui mi ha sempre risposto auspicando che l’Europa diventi veramente uno Stato con ampi poteri sovrani. Ma ci vorranno anni per realizzare questo obiettivo. Ho chiesto anche se ci sono personalità di peso internazionale che cerchino di far avanzare l’Europa su questo percorso e lui mi ha risposto che certamente ci sono queste personalità anche da noi e naturalmente anche in Europa ma non hanno ancora avviato il percorso verso un vero Stato europeo. Forse l’insorgere di un terrorismo come quello che ha insanguinato in questi giorni Parigi e che minaccia di trasformarsi in una vera e propria guerra, ha l’aspetto positivo di stimolare la nascita degli Stati Uniti d’Europa.

Sisifo è un mito, ma noi dobbiamo sperare e operare affinché diventi una realtà.

 

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