Storia di un cardinale e del suo mondo. Don Luigi De Magistris di Castella prete cagliaritano, ovvero la dottrina nella carità, di Gianfranco Murtas

Nasce un cardinale dalle cure di una famiglia o, anzi, di un quartiere intero popolato ancora da diecimila anime, per metà da coetanei, bambini e ragazzi e giovani che iniziano a tessere relazioni di vita all’ombra della cattedrale di Santa Maria e delle torri pisane, delle scuole e dei palazzi, nelle vie bisce e semibuie che in longitudine affettano le case dall’Arsenale fin giù al plein air dei bastioni che affacciano al mare o, dalla parte del rione giudeo, sui tetti di Stampace. Prima della guerra, prima delle macerie, prima dei vuoti che oggi vedi dall’alto delle cortine, o prima dei palazzi stonati che l’assenza di un piano regolatore ha autorizzato a modificare, a stravolgere, lo skyline de is  appendizius di occidente e di oriente raccontati da Francesco Alziator o Aquilino Cannas…

Nasce un cardinale dalle cure di una famiglia per molti versi unica e dalle amorevolezze delle suore cornette – le Figlie della Carità d’un tempo! – in una scuola mista costruita proprio alla sommità di Cagliari, di fianco alle antiche e inumane carceri di San Pancrazio e al palazzo delle Seziate, evocativo di miserabili imploranti la grazia e di viceré semidio lì a concederla o a negarla. Nasce dalle dritte predicatorie di canonico Uras, e magari anche di qualche suo collega capitolare, in un duomo per alcuni anni trasformato, per l’ennesima volta nella sua storia, in cantiere. Nasce dalle lezioni delle marchesine Amat e Aymerich, alle adunanze settimanali nei locali del Fossario, montati sopra altre carceri, quelle ecclesiastiche capaci di mandare all’impazzimento, ancora nell’Ottocento, i poveri preti condannati dalle sentenze (come il disgraziato don Cirina). Nasce dalle quotidiane ed assortite offerte bibliotecarie della Congregazione Mariana, nei domini gesuitici giù a Stampace. Nasce dalle esperienze già della prima adolescenza, nella comitiva dell’Azione Cattolica in giro di propaganda per parrocchie dell’hinterland dopo che in città. Nasce dagli studi ginnasiali che, se so bene, proprio da allora prolungano Castello – il San Giuseppe di Castello – verso le scalette di Sant’Antonio, di lato al Santo Sepolcro, negli spazi un tempo dei Fatebenefratelli, dove il Siotto ha portato la sua sede. E dagli studi, che seguono, al liceo Dettori, in un edificio che s’alza centenario anch’esso alla Marina, dal 1913 presidiato dall’erma (sbeffeggiato per irriverenza e forse però anche per confidenza) di Dante, e assicurato dal prestigio della sua storia, dei suoi professori, di molti dei suoi ex allievi.

Nasce un cardinale anche dagli altri studi, più impegnativi ancora, nella facoltà di Lettere e filosofia, di nuovo a Castello, a palazzo Belgrano e da palazzo Belgrano presto, giusto a ridosso degli sconquassi bellici e di fianco ai progressivi rientri dallo sfollamento, nell’ex collegio di Santa Croce, nella via Corte d’Appello. Con il busto itinerante di Giordano Bruno in dote…

Anni di bella gioventù e però anche di infiniti tormenti, stretti o costretti nei panni dell’avanguardista o di cos’altro (ma sempre senza regola od obbedienza), fra le incomprensibili paramilitari del regime, nel campo della GIL, e le ordinarie drammatiche emergenze della guerra vera, nella fuga di salvezza fino a Nuoro, in quell’inizio del 1943. Il Dettori s’è sparso fra sedi diverse in provincia e confini, fra Isili – dove sorgeranno, da Valle ed Alziator, gli Amici del libro – a Dolianova, a Mogoro. L’esame di maturità, nel centro della tempesta. Mirabilie, manco a dirlo. Con l’accusa ingiusta e risibile – secondo una certa vulgata familiare – di aver copiato il compito, quando invece lo studente il compito di traduzione l’ha già completato nel tempo stesso che il professore ha impiegato per dettarlo…

Nasce un cardinale nella diligenza, nella disciplina, nell’assillo crescente di darsi a una causa non qualsiasi. Preparandosi secondo le opportunità offerte, appunto poi fino alla laurea in Belle Lettere – iniziali maiuscole – prima del passaggio del Tirreno, alla volta della città eterna, alle aule della Lateranense, e alle camerate del Seminario Romano, quello stesso del giovane Roncalli e anche di quanti chierici sardi, tanto più nel primo Novecento minato – minato? – dal modernismo, ai tempi di Pio X…

Nasce facile un cardinale sardofono, secondo il modello familiare, secondo la pratica d’un genitore, conosciuto già in età – 53enne quando frigna l’ultimogenito –,  figlio (novarese, cagliaritano dai sette anni) di piemontese che parla piemontese col padre Casimiro e in sardo con la moglie e i figli e gli altri di casa, e legge di scienza però in universale, ora francese ora inglese ora tedesco; che conosce quanto sapida possa essere quell’alternanza di generazioni Sardegna/Piemonte presente nell’albero delle ascendenze che hanno coinvolto nel primo Ottocento anche una Amat, la sorella del cardinale di San Filippo – il cardinale Luigi Amat legato di Pio IX nelle legazioni bolognesi nell’antiRisorgimento papalino. Genitore che, a proposito di Piemonte, ha incontrato – altro patrimonio dell’anima – don Bosco quasi alla fine dei suoi giorni e il suo successore don Rua, venuto poi a Cagliari, per montare l’Opera salesiana, nel 1902… Un padre, superspecializzato a Napoli e Firenze e Torino, diagnosta come i migliori del mondo, che è naturaliter la guida sociale di tutta la comunità di Casteddu ed oltre, non soltanto di una famiglia, un padre che insegna come si possa fare il medico amando i propri pazienti, facendo di essi come una espansione dei propri affetti domestici, e sovvenendo quelli che, lungi dal poter pagare la visita, neppure possono comprarsi le medicine. Se ne sarebbe visto il risconto ai funerali, in pareggio quasi a quelli di fra Nicola da Gesturi, l’anno precedente.

Nasce facile un cardinale  allevato da una madre Ballero che educa, con semplicità religiosa non bigotta, alle virtù del quotidiano, ma insegna anche il parlare francese e il gusto alla musica e all’opera, alla pittura e soprattutto ai libri. Donna Agnese matriarca anche lei, che porta nella sua formazione il liberalismo cosiddetto organizzatore, orientato alla democrazia, solido ed esperto, della sua famiglia non ghibellina ma certamente neppure guelfa come quella dei De Magistris, ed anch’essa compromessa nel servizio amministrativo alla città, schierata sempre con Bacaredda; pure lei, «d’intelligenza naturale» e memore in superlativo, formata alle cose di santa religione – non foss’altro che per la proprietà curata della chiesa di Sant’Efisio a Giorgino – ed a quelle altre piuttosto omnibus, belle da condividere, dell’arte di soprani, tenori e baritoni che passano per i teatri cittadini e di orfeonisti al comando delle bacchette che hanno fatto epoca, dai Rachel ai Brunetti, virtuosi che allargano mente e spirito e che i cagliaritani sanno apprezzare. E’ lei la protagonista e insieme la regista di quelle nozze celebrate, nel fatale 1909, all’altare della umile chiesa minorita di Santa Rosalia, santuario del beato Salvatore da Horta (santo dal 1938). E dirà pur qualcosa che uno dei pochissimi scritti pubblici di don Luigi, almeno di quelli conosciuti qui in Sardegna, sia dato come introduzione a un libretto di padre Alberto Cogoni OFM dedicato proprio al taumaturgo catalano: “San Salvatore da Horta. La grandezza dei piccoli”, Cagliari, Edizioni della Torre, 2002.

E’ una storia che va per continui replay e consente viaggi nel tempo che è il nostro stesso, o che ha preparato il nostro e che, dunque, sentiamo appartenerci comunque. Vien da insistere, da ripassare momenti e luoghi e immagini, come i fotogrammi identitari di un film comunitario, noi tutti protagonisti, protagonisti anche gli spettatori con i propri sentimenti, i propri ricordi.

Per spiegare questo scritto. M’incoraggiava sempre a dirne, o scriverne – dico di cose di Chiesa –, saldando la mia dubbiosa coscienza laica (naturaliter cristiana) agli studi della storia municipale ed ecclesiale sarda l’indimenticato arcivescovo Alberti, sulla scia proprio del rapporto avuto con lui, che amava le petizioni di autonomia (pur se ne avvertiva talvolta anche la ruvidezza, o la sgradevolezza), convinto che l’incontro abbia un sapore migliore quando avvenga fra diversi, mossi da formazioni e sensibilità diverse e talvolta opposte, ed uniti però dalla schiettezza e mutua benevolenza.

Con loro, con don Mondino e donna Agnese, hanno parte, nella prima educazione del futuro cardinale, un fratello che di anni ne conta ben sedici più di lui e, in quell’antico Collegio dei nobili ribattezzato Conservatorio della Provvidenza, due vincenziane: la dolce e protettiva suor Camilla, addetta alla cucina e all’orto, e suor Matilde competente come cento pedagogisti messi in fascio ed impareggiabile commerciante di bolli di liquerizia a pro delle missioni. Suore che sono  istituzioni in carne ed ossa della Cagliari che ancora vive, nel raccolto panorama della fede di quei tardi anni ’20 e nei primi del decennio successivo, dell’esempio sociale di suor Giuseppina Nicoli rinnovato da suor Teresa Tambelli, così come delle illuminate fatiche di un dottor Virgilio Angioni, al Buon Pastore, o di un Santo questuante fra i cappuccini. E, nelle articolazioni della vita civile, le atmosfere bacareddiane (anche dopo la scomparsa del grande sindaco e lo scivolamento cittadino, e di tutta la patria, nei rigori, nelle bizzarrie e nelle prepotenze della dittatura).

Due anni nel mix di educande povere e cugini decorosi (forse non tutti molto più ricchi) del patriziato urbano, e poi il triennio superiore delle elementari a Santa Caterina, per aver deciso le suore, dal 1934, di riservare la loro accoglienza alle sole femmine. E in parallelo temporale, di lato anche fisico alla nuova scuola svettante sul bastioncino, con quelle classi assegnate al talento e alla bontà di maestri fra i quali non mancano i frammassoni di coscienza, che amano la patria rispettando la religione, la cattedrale: la chiesa di Santa Maria con i suoi misteri in progressiva esplorazione, tanto più dopo che il Giarrizzo ha rimediato alla scommessa perduta degli Scano e degli altri, convinti che potesse esserci ancora, sotto la coltre dei marmi barocchi, l’antica facciata romanica. I misteri della cattedrale e le sue singolarità, il cenotafio di Martino il giovane e la cripta scavata e cesellata nella roccia, i vescovi scolpiti in somno pacis sotto gli altari dei transetti, la Sacra Spina e il trittico di Clemente VII, il simulacro della Vergine dormiente secondo la tradizione bizantina, e la vestizione riservata, alla vigilia della solennità dell’Assunta, alle Sanjust e alle altre dame della nobiltà locale, magari ancora tutte strette nell’intrico parentale delle Quesada, delle Asquer o delle Carboni e Nieddu e Rossi… La cattedrale ancora senza le tele del Figari ma con le cappelle  degne ciascuna di emergere in una grande basilica, per l’arte di colonne e trabeazioni, di quadri e statue e mausolei che tanto hanno già incuriosito, affascinato ed impaurito un Alziator bambino, la cattedrale dei canonici solenni e ciarlieri com’è don Silvio Canepa, che ha avuto un fratello vescovo e un altro ateo, poeta civile mazziniano e garibaldino travolto dalla follia ancora giovanissimo, o tutto discrezione e distinzione com’è don Attilio Murroni, che peraltro non si è mai risparmiato il commento su quanto, in partibus infidelium, gli sia sembrato improprio e sbagliato. Chiacchiere di monsignori datati, tardi e talvolta improvvisati cronisti delle storie spagnole in terra castellana e di quelle liberali dell’Ottocento risorgimentale, quando anche il santo decano Domenico De Roma era rimasto impigliato nelle scomuniche medicamentose dell’arcivescovo costretto poi all’esilio nell’isola Tiberina. Impegnato a fare più che a dire il pio e zelante parroco canonico Uras, tutto battesimi, messe e confessioni.

Un cardinale cagliaritano nasce così, ascoltando e osservando, e tesaurizzando,  in famiglia, a scuola, in parrocchia, da chierichetto con la veste rosso scarlatto, la mozzetta di velluto gallonato e la cotta di pizzo (abiti che farebbero la felicità oggi – anno del Signore 2015 – di tanti lefebvriani cosiddetti talarini che in diocesi stanno riempiendo, nell’indifferenza dei vescovi in successione, i ranghi abbandonati dai preti ormai anziani e stanchi). Cinquenne, proprio in contemporanea all’esordio dalle suore cornette, il debutto in cattedrale, piccolo monsignore nelle fila della Dominici Schola Servitii. E nel gruppo dei Fanciulli Cattolici – fascia bianca al petto, a mo’ dei diaconi –, nell’oratorio di San Saturnino, sopra gli antri di quella tremenda prigione ecclesiastica, sala delle lezioni di catechismo e liturgia e anche storia dei santi e della Chiesa impartite dal gruppo “donne” dell’AC. Anche quella volta del maggio 1931, quando i fascisti in orbace e stivaloni dichiarano l’ostracismo all’Azione Cattolica di grandi e piccoli, e notificano, scemi, l’interdetto  anche alla cosiddetta ”adunanza”  dei cinquenni e seienni. Misura tronfia del regime che ha firmato già il Concordato, seppellendo la libertà di una Chiesa militante fattasi però lei, miope, più sensibile al proprio oggi contingente che alle proprie fonti di testimonianza, chiamale pure di martirio…

Sempre in compagnia dei fratelli più prossimi per età, di Ignazio e soprattutto di Paolo il “quasi gemello”, prossimo sindaco della città, e storico e poeta della città, raccontatore raffinato e gustoso dei suoi presìdi fisici e dei suoi personaggi  antichi e moderni. Con lui procede, sperimentatore, negli inoltri conoscitivi, preadolescente, adolescente. Inoltri nell’associazionismo spalmato sul territorio largo della diocesi, in logica di missione d’apostolato e di nuove esperienze formative. Con lui è, ai nove-dieci anni, alla Congregazione Mariana di via Caprera, prima che nella sagrestia di San Michele – la chiesa gesuitica di Cagliari bella come poche altre in città –, e poi in via Portoscalas. Insieme sono all’Azione Cattolica dei ragazzi – per applicazione della proprietà transitiva ai congregati – , che concede di partire, in turni ragionati e in progress, per le parrocchie diffuse nel Campidano, e fra Trexenta e Gerrei, e presenta o consegna il mondo come è, oltre mura non soltanto di Castello ma anche di Cagliari magna, ad un ragazzino che dalle elementari passa al ginnasio. Il mondo e i libri della biblioteca della Congregazione: un volume al giorno, forse più appassionante – perché scelto e non imposto – di quelli della scuola. Senza personali coinvolgimenti , però,nella filodrammatica o nel gioco, peccato! in Congregazione. Nel pool di prefetti e insegnanti uomini come i padri Bacigalupo e Greppi, futuri amministratori o legislatori della Sardegna tornata democratica come Efisio Corrias e Agostino Cerioni…

Da più parti mi è stata chiesta una parola di commento alla promozione cardinalizia di don Luigi De Magistris, arcivescovo titolare di Nova (suffraganea nientemeno che della metropolia di Cartagine, pure essa ormai ridotta a un titolo!) e pro penitenziere maggiore emerito di Santa Romana Chiesa. Qualifica altisonante che quasi sorprende se collegata ad una personalità dai tratti molto marcati nei termini di una sobrietà evangelica che molto lo onora. E insieme ci onora per la familiarità che molti di noi cagliaritani hanno con la schiatta De Magistris e con il suo mondo di valori, di memorie e di presenza, di studi e di testimonianza civica e sociale.

Mi hanno chiesto di sfuggire al ripetitivo che si è udito o letto in questo frangente nelle cronache di giornale o telegiornale, e di dare insieme con il tratteggio, per quanto modestamente potrei, della umanità e della fisionomia religiosa del nuovo cardinale cagliaritano qualche cenno biografico più puntuale.  Mi ci sono provato ricorrendo ai ricordi di confidenza dell’indimenticato don Paolo, tante volte da me portato, per valore e prestigio, ora nelle pagine dei miei libri ora in televisione, ora nei reading teatrali, quella volta – sette uscite! nel 1995 – con i ragazzi delle comunità di padre Morittu, lui in platea a sentirsi letto dai giovani rinati, e anche dopo la morte dolorosissima, anzi nel decennale di quella morte atroce, nel teatro di Sant’Eulalia, che fu pure l’occasione dell’ultimo saluto al nipote avv. Carlo, indimenticato gentiluomo anche lui, che pochi giorni dopo sarebbe stato preso nel morso della sua ferale malattia.

Non solo. Ma è stato anche opportuno il ricorso alle pagine che don Paolo ci ha lasciato con quel suo gioiellino che è “Infanzia come una sinfonia” e il ricorso anche ai suoi racconti che, insieme con Paolo Matta, suo amico di famiglia e sodale politico, avevo registrato per stamparlo poi, nel 1989, in un libro-intervista dal titolo “Un uomo, il sindaco”. (Spero molto che Matta, che ha competenza sua in materia di vita ecclesiale, possa entrare, o tornare, più approfonditamente in argomento).

Dalle Belle Lettere alla Sacra Teologia, dal laicato al ministero. Propongo una rapida galoppata negli anni finali della dittatura, passando per la guerra e le prime fasi della ricostruzione, quando la DC comincia a metter mano, con uomini dapprincipio quasi sempre probi (seppure non… quasi sempre all’altezza delle complessità civiche e politiche), all’amministrazione e alle istituzioni dell’autonomia, ed anche dai De Magistris si prende a dare un contributo, con Ignazio in particolare e il cognato Giovanni Filigheddu, essendo i fratelli Casimiro ed Edoardo “prigionieri” entrambi delle loro professioni istituzionali, l’uno nella prefettura l’altro nella magistratura. Gli anni che per Luigi quindici-ventenne sono quelli del liceo e poi della facoltà di lettere all’Università di Cagliari. E della presidenza della FUCI cagliaritana, dopo Ernesto Dessì, e prima di suo fratello Paolo, quando lui decide di entrare in seminario a Roma.

Nei suoi anni universitari è rettore Ernesto Puxeddu, il chimico che è stato il presidente del comitato bruniano a Cagliari, fra 1912 e 1913. Pietro Leo, il futuro sindaco (e militante della prima FUCI, che nel 1921 ha incontrato a Cagliari monsignor Roncalli), è il direttore amministrativo. Preside della facoltà è nientemeno che Bacchisio Raimondo Motzo, lo storico antichista già prete modernista, un vanto massimo per l’accademia sarda, stimatissimo da Giovanni XXIII e Paolo VI. A Motzo subentra poi, dal 1945, il glottologo professor Giandomenico Serra, e nello staff docente, fra ordinari e incaricati, figurano talenti di prima grandezza come la storica della filosofia Cecilia Dentice di Accadia, l’archeologo e storico dell’arte Massimo Pallottino, ma anche il “giovane” Giovanni Lilliu, e Luigia Achillea Stella ed Enrica Malcovati, rispettivamente di letteratura greca e letteratura latina, e l’italianista Giuseppe Citanna, e quanti altri… da Liborio Azzolina a Sebastiano Broccia, da Raffaello Delogu a Sebastiano Dessanay, da Ciro Forresu a Francesco Loddo Canepa, da Teodoro Levi ad Alberto Pincherle, alla (a me carissima) risorgimentista Emilia Morelli.

Brucia le tappe il futuro cardinale. Negli anni della sua frequenza la popolazione universitaria di Cagliari viaggia sui duemila studenti, fino ai 2.399 dell’anno accademico 1946-47. Sono compagni di corso, o dei corsi contermini, coetanei che si chiamano Antonietta Ciusa – figlia prediletta del grande Francesco – e Flavia Cocco Ortu, Maria Crespellani e Manlio Brigaglia, Alessandro Ghinami e Paolo Dettori… In facoltà, nell’anno del 4° corso – il 1946-47 – gli iscritti a Lettere e filosofia sono 334, donne in prevalenza (256).

C’è il sacerdozio dopo la laurea in Belle Lettere del 1947 (un titolo che, potrebbe ricordarsi buttando l’occhio nell’albo clericale del Novecento cagliaritano, è condiviso da personalità di valore di Vincenzo Corrias, Giuseppe Lepori, Giovanni Serra, Elvio Sitzia e poi ancora Matteo Dentoni, Luigi Frau, Leone Porru… e di quant’altri potrebbe dirsi ancora, in tempi più recenti). C’è la Lateranense, l’università del papa, il corso di Teologia. Superati o ridimensionati gli allettamenti di una scelta religiosa – magari gesuitica (quella che sarà nel 1954 di padre Vittorio Papoff, già medico, per fare un nome cagliaritano – pur se di origine sarcidana –,  conosciuto e solenne) – punta dritto all’obiettivo: prete secolare e siano poi i superiori a decidere. A lui basta “darsi”.

Nella cappella del Pontificio Seminario Romano riceve, dal vice gerente del Vicariato di Roma Luigi Traglia, ostiariato e lettorato. Con lui è il collega di studi Giovanni Cara, pure lui di famiglia molto nota a Cagliari. E’ il 21 febbraio 1950. Un anno dopo, esattamente il 10 marzo 1951, nella Patriarcale Basilica Lateranense, riceve, ancora con Giovanni Cara e ancora da monsignor Traglia, gli altri due ordini minori: esorcistato e accolitato. Seguiranno il suddiaconato – con l’impegno celibatario – e il diaconato.

Viene ordinato, poco più che venticinquenne, dall’arcivescovo Paolo Botto, nella sua città. Pronuncia i suoi voti, all’altare della cattedrale di Santa Maria, sabato 12 aprile 1952 – sabato santo –, lo stesso giorno in cui – preannuncio di nuove modernità – un collegamento televisivo fra ponti di microonde unisce Torino e Milano… Episodio che, nelle avvisaglie del tempo, introduce alla rivoluzione tecnologica nella quale oggi viviamo in pacifica confidenza.

E’ il quattordicesimo chierico ordinato dal nuovo arcivescovo di Cagliari, in diocesi dal 20 ottobre 1949, di persona dal 23 ottobre. Venuto, temuto ed amato dopo il trentennio quasi di servizio apostolico di monsignor Ernesto Maria Piovella. Nello stesso 1952 saranno ordinati anche altri sette: Tito Cabiddu, Cesare Cannas, Giuseppe Cogoni, Martino Murgia, Mosè Piroddi, Giovanni Cadeddu, Antonino Orrù (quest’ultimo, a me carissimo, destinato anch’egli all’episcopato, secondo successore dell’indimenticato monsignor Tedde).

Con lui sale all’altare, alle 8,30 di mattina, secondo l’uso, nuovamente don Giovanni Cara, che anni dopo compirà la scelta radicale del servizio missionario in Brasile, dapprima fidei donum quindi Piccolo Fratello del Vangelo, la famiglia religiosa di Charles de Foucauld. Una eccellenza evangelica che sarà studiata nelle nostre università, nei tempi che verranno, e che oggi è ammirata e, nella fraternità del colloquio cui non si nega, venerata. Anche don Giovanni frequenta la Lateranense, ha quasi concluso il corso. Altri chierici e seminaristi ricevono, nella stessa tornata celebrativa, chi il diaconato chi gli ordini minori. (Fra essi è anche il francescano fra Dario Pili da Aritzo, che sarà profetico provinciale degli osservanti sardi, colui che aprirà i conventi isolani, con il benemerito e caro padre Morittu, ai nuovi poveri della droga).

L a mattina seguente, solennità pasquale, don Luigi celebra la sua prima messa: alla Purissima, giusto di fianco a casa, nella via Lamarmora. (Don Cara sceglierà invece Sant’Anna, ancora affidata alle cure dell’anziano ma ancora attivo don Mario Piu).

Viene subito assegnato  all’ufficio di notaro, e poi a quello di difensore del Vincolo al Tribunale ecclesiastico regionale sardo: così per cinque anni, fino al 1958 (sono con lui i reverendi Gavino Spanedda, Gerolamo Dettori e, il più giovane, Pier Giuliano Tiddia, prossimo vescovo e arcivescovo anche lui).

Nel contempo gli è affidato l’incarico di insegnare italiano e latino alle medie del Tridentino e religione nella scuola pubblica, all’Istituto Martini (lo affiancano don Giuseppe Aramu e don Edoardo Lobina). Né basta questo: in sovrappiù ha anche, fino al 1958 (ma in alternanza con monsignor Elvio Sitzia), l’assistenza ecclesiastica dei Laureati Cattolici. E’ tempo di fervore organizzativo e non soltanto culturale. Nel 1954 la sezione cagliaritana dei Laureati promuove l’aggregamento regionale. Ne è presidente pro tempore il magistrato Antonio Dessì cui s’avvicenda l’ingegnere Enrico Zanda, vice presidente la professoressa Mariolina Maxia. Di questo periodo (1954) sono anche un importante ritiro diretto dall’abate generale dei Vallombrosani ed un convegno di argomento mariano guidato dal padre Enrico di Rovasenda (un domenicano torinese, già ingegnere civile formatosi al Politecnico, fattosi poi frate e filosofo, infine, negli anni ’70, promosso da Paolo VI nientemeno che direttore della Pontificia Accademia delle Scienze).

In quanto al servizio liturgico, don Luigi è da subito affiancato a quel suo fratello elettivo che è don Giovanni Cara, nominato intanto vicario coadiutore nella parrocchia di Nostra Signora del Rimedio, detta di San Lucifero, dove ancora spende le sue ultime generose energie don Mosè Farci. Servizio all’altare, servizio soprattutto alle confessioni.

Il Monitore Ufficiale dell’Episcopato Sardo fornisce il continuo aggiornamento di tali incarichi così come delle chiamate, insieme con l’altro giovane clero, alla prevista trafila degli esami cosiddetti novensili (che obbligano i preti a continuare a studiare) e dei novelli confessori, nonché ai ritiri spirituali riservati alle plenarie del presbiterio diocesano: un’occasione anche per allargare le conoscenze personali, seminare fiducia e cogliere opportunità.

Nel 1957 gli sono affidate le cosiddette “20 lezioni suppletive in città”, integrative nelle terze, quarte e quinte elementari nelle sezioni del Riva (con lui, nello stesso casamento di piazza Garibaldi, sono i confratelli Antonino Figus, Marco Monti, Giuseppe Mangeri, Elio Fozzi, Pietro Manca, Mariano Mastrandrea e Giacinto Macis).Partecipa ancora nel 1958, con funzionai diaconali, alle solenni funzioni crismali del Giovedì Santo.

Dal 1° febbraio di quello stesso anno è investito della responsabilità di rettore della basilica Mauriziana di Santa Croce, rilevandola dal canonico Eugenio Lai, che è stato per lunghissimi anni – succedendo nell’incarico al futuro cardinale Fietta – segretario di dell’arcivescovo Piovella. Ma sarà incarico breve. E’ Roma che s’affaccia, infatti, sulla maggior scena della vita di don Luigi De Magistris di Castella, proprio a partire dal 1958.

Importa forse, a questo punto, rilevare che, volendo  mantenere sempre i contatti con la propria Chiesa d’origine, officiando in cattedrale ad ogni sua venuta a Cagliari e più continuativamente, e puntualmente, in occasione delle vacanze estive, egli rimarrà di fatto, e direi anche di diritto, incardinato nella archidiocesi. Dal 22 aprile 1968 sarà, per bolla dell’arcivescovo Paolo Botto, canonico onorario del Capitolo metropolitano, onore che assocerà a quello di assistente spirituale dell’Ordine di Malta.

Una svolta missionaria nel cuore della cattolicità. Nel 1958 dunque lascia la Sardegna per trasferirsi a Roma, dove assume la segreteria generale della Lateranense. Ha lasciato un segno, da studente, e alla Lateranense è richiesto il suo servizio. Sarà però anch’esso un incarico breve – un anno soltanto – in attesa di altro ben più corposo e duraturo. Nel 1959 arriva infatti, dalla Sardegna, un altro ex studente, che ha avuto uno sviluppo degli studi abbastanza simile a quello di don Luigi: la laurea “profana” prima di quella teologica, la vestizione non agli undici anni dei più – i ragazzini dei seminari minori iscritti alla prima media – ma ai 21 o 22… Si tratta del nuorese don Ottorino Pietro Alberti, prete da tre anni soltanto, dopo il titolo in Agraria e il quinquennio al corso teologico appunto della Lateranense: ed è lui, don Ottorino, ad avvicendare il collega cagliaritano nell’ufficio della segreteria generale (che assocerà presto alla cattedra di filosofia della natura).

Esperienza breve ma preziosa, per don Luigi. Egli passa quindi fra gli effettivi della Santa Sede. Dapprima – dal 1959 al 1967 – qui è sostituto notaro della Sacra Congregazione del Sant’Uffizio Dottrina della Fede e, per un ulteriore biennio, capo ufficio.

In contemporanea con tali incarichi, gratificato (in senso oggettivo, ché l’uomo è davvero del tutto alieno ai fronzoli d’insegne ed appellativi) del titolo di Cameriere segreto di Sua Santità, ne ricopre altri presso la Sacra Congregazione dei Sacramenti: dal 1960 al 1964 è difensore del Vincolo, successivamente è, dello stesso dicastero, commissario.

Per dieci anni, cioè dal 1969 al 1979, è minutante del Consiglio Affari Pubblici della Chiesa, in Segreteria di Stato. Con il nuovo titolo di Prelato d’onore di Sua Santità (ricevuto 27 agosto 1973) assume, nel 1979, le funzioni di reggente la Sacra Penitenzieria in Roma e quelle di consultore della Sacra Congregazione per le Cause dei Santi.

Dal 1992 ha la veste di esperto permanente della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, voluta dal papa Giovanni Paolo II con lo scopo di favorire il ritorno alla comunione con la Chiesa cattolica della Fraternità Sacerdotale San Pio X promossa dal vescovo Lefebvre.

Proposto dalla compente congregazione, viene eletto da Giovanni Paolo II alla Chiesa titolare di Nova presso Cartagine, in Tunisia, con dignità di arcivescovo, il 6 marzo 1996. (Una data che fa pensare anch’essa alle coincidenze, alle casualità o magari alle consequenzialità del calendario: perché è come se una Volontà grande avesse inteso, quella volta, confortare e compensare la famiglia episcopale sarda della perdita ormai imminente di un vescovo generoso, ed evangelico anche lui, come don Paolo Carta, emerito di Sassari, figlio di Serdiana nella cui cattedrale oggi riposa con il compaesano, e suo predecessore sulla cattedra turritana, don Agostino Saba).

Il 28 aprile successivo, nella chiesa cagliaritana di Sant’Anna, si svolge il rito solenne della consacrazione episcopale. A don Luigi De Magistris rimane la reggenza della Sacra Penitenzieria Apostolica – in sostanza la segreteria generale di quel tribunale – ancora per un lustro, mentre il 22 novembre 2001 gli sono riconosciute funzioni e dignità di Pro Penitenziere Maggiore. Così fino al 4 ottobre 2003.

A presiedere la solenne cerimonia è chiamato il cardinale arcivescovo di Genova, e già di Cagliari, Giovanni Canestri. Con lui l’arcivescovo Alberti e il vescovo Pillolla. Presenti nel presbiterio, insieme con pressoché tutti gli altri ordinari ed emeriti delle diocesi isolane, altri prelati variamente responsabili di uffici della Santa Sede. Fra essi il cardinale William Wakefield Baum, penitenziere maggiore, e la delegazione della Penitenzieria Apostolica e delle Penitenzierie delle basiliche maggiori di Roma, nonché don Tommaso Giussani, segretario del Capitolo Vaticano cui don Luigi è associato.

Don Luigi è accompagnato e presentato da due presbiteri diocesani con i quali il rapporto amicale è particolarmente stretto: ancora don Giovanni Cara, apposta reduce dalle miserie delle favelas brasiliane, e don Leone Porru. La Polifonica Kalaritana, diretta da don Deiosso, serve al meglio la liturgia. La stampa diocesana e più sobriamente quella laica danno conto dei dettagli della cerimonia suggestiva come poche altre, con l’interrogatorio e la consegna di vangelo, anello, mitria e pastorale, con l’insediamento e l’abbraccio di fraternità, la benedizione comunitaria dei celebranti. Per concludere con il discorso di saluto e pubblico proposito, e di memorie vivide che partono dalla famiglia – comprendendo il padre Edmondo, primo maestro di vita, e la madre Agnese Ballero, che gli preparò la cotta per l’ordinazione sacerdotale nel 1952, i fratelli scomparsi e quelli viventi (pur nella pena della malattia) – e s’allargano alle nuove generazioni domestiche e alle amicizie.

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Don Luigi è del 1926: 23 febbraio. Ho pensato di onorarne la promozione cardinalizia, per l’affetto che provo anche alla famiglia guelfa, io che guelfo non sono, e in specie alla memoria gratissima di don Paolo, proponendo un rapido focus, naturalmente dal mio osservatorio, su quella data.

Il 1926 è stato un anno sfortunato per la patria e per la democrazia. E anche per la religione, nonostante le apparenze. Era, il 1926, l’anno delle leggi cosiddette “fascistissime” che, dopo quelle emanate nel 1925, avevano completato, o quasi, la trasformazione dell’Italia in un regime di dittatura. Un anno iniziato, per la parte cattolica impegnata in politica, piuttosto male: abbandonato l’Aventino, i deputati popolari orfani di don Sturzo – cui il Vaticano, non soltanto la dittatura, aveva imposto l’esilio –  tentarono il ritorno alla Camera, ma ne furono impediti dai nuovi padroni: avrebbero dovuto piegarsi, con pubblica dichiarazione, al fascismo. Poi era nata l’Opera Nazionale Balilla, con quella pretesa di una pedagogia totalitaria che avrebbe portato nel 1931 al conflitto (vincente) con l’Azione Cattolica. Quindi erano stati aboliti i consigli comunali e dopo ancora erano stati sciolti i partiti e le associazioni non allineate, e costretti a chiudere anche i giornali. Ma intanto già da quattro anni almeno le sezioni politiche e le redazioni  di quotidiani e periodici, come anche le logge e le sedi dei sindacati erano divenute bersaglio di squadristi e camicie nere, semplici carte e stoffe e legni da bruciare nei blasfemi falò di piazza, come al tempo della Inquisizione. Introdotto il confino politico, istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato e con esso attivata una rete di polizia dipendente dalla Milizia. Padrone l’esecutivo di funzionare da legislativo, illegale lo sciopero, sostituita la libertà sindacale con rappresentanza corporativa. Sostituite le elezioni con i plebisciti. Riformate le camere parlamentari secondo la logica dello Stato-regime. Ecc. ecc.

Un anno sfortunato, anche per la morte violenta, comunque violenta, di Piero Gobetti e Giovanni Amendola, tra febbraio ed aprile. A fine anno Antonio Gramsci sarebbe finito in galera. Anche Emilio Lussu sarebbe finito in galera nel 1926. Nomi dell’Italia liberale, dell’Italia proletaria, dell’Italia di democrazia meridionalista. Nomi simbolo qui evocativi di una temperie civile e politica che soltanto studi mirati e una forte capacità di partecipazione morale possono comprendere.

Ma il 1926 è stato anche l’anno sette volte centenario della morte di San Francesco d’Assisi e in tutta Italia erano sorti dei sottocomitati celebrativi (federati al comitato centrale con sede a Roma). Ogni sottocomitato intendeva esaltare la fede della propria porzione di territorio e di popolo, il fascismo ammiccava, anzi incoraggiava. Mancavano ancora tre anni alla firma dei patti del Laterano, ma lì il regime voleva andare proprio lì, all’incontro, naturalmente pagando esso pochi prezzi (piuttosto li avrebbe fatti pagare all’Italia, retrocessa dalla sua sovranità di stampo liberale, oltre che privata delle sue libertà democratiche).

Nel sottocomitato che raccoglieva fondi per una statua degna dell’Assisiate e proponeva al Municipio – così in ogni capoluogo di provincia, o almeno uno in ogni regione – anche dove collocarla, quella statua, si davano la mano popolari-quasi-ex-popolari e fascisti, vittime (stoltamente inconsapevoli) e carnefici. Anche a Cagliari.

L’obiettivo comune – dei tardo popolari (sostenuti dal buon clero) e dei fascisti – era di smontare, smantellare ogni residuo dello Stato liberale di eredità risorgimentale, compresa quella simbolistica echeggiante principi e  valori considerati ostili. Nel mucchio anche la statuaria con cui gli uomini del postRisorgimento o del nuovo tempo notabilare e laico intendevano educare il popolo, quasi in parallelo all’opera d’istruzione o educazione religiosa profusa nelle chiese. La guerra dei simulacri.

Aveva preso connotati singolari quella guerra ideologica, mentre l’Italia si trasformava in una caserma. I cattolici tardo popolari s’erano alleati ai fascisti nel sottocomitato francescano che doveva puntare a sostituire proprio con un bronzo dell’Assisiate quello di Giordano Bruno. La guerra l’aveva promossa a Cagliari un dotto, il professor Raffaele Di Tucci, paleografo benemerito per mille ricerche, funzionario dell’Archivio di Stato (poi anche preside straordinario del Pacinotti e docente universitario), di dichiarata fede antimassonica (benché poi negli anni ’50 sarebbe approdato alle sponde prima ripulsate). Aveva demolito ogni merito di frate Giordano di avere un monumento e di averlo lì, a Porta Castello. Messo al centro di quella rotonda da qualche maligno, forse per umiliare i canonici – ultimi eredi di quelli che avevano voluto l’abbruciamento dell’eretico domenicano – i quali dalle appendici tutti i santi giorni dovevano passare e ripassare per le incombenze in duomo, o in episcopio, o al Tridentino.

E dunque? Eliminare frate Giordano l’eretico e sostituirlo con frate Francesco il serafico. Per il bene dell’Italia, nel mezzo degli sconquassi delle leggi fascistissime. E per il bene di Cagliari, nella memoria di settecento e più anni dalla prima venuta dei seguaci del Poverello, quando il Poverello era ancora in vita. Per onorare anche questo privilegio isolano!

I giornali che in città trattarono questa vicenda erano taluno al proprio crepuscolo, ma senza averne piena contezza, altri – come L’Unione Sarda, che sosteneva la campagna plebiscitaria pro frate Francesco e contro frate Giordano – nel mezzo dei propri rimescolamenti ideologici (deceduto nel 1925 l’editore Sorcinelli, dark della prim’ora e avversario – sconfitto – della sardistizzazione del fascismo,  il quotidiano aveva inglobato la redazione fasciomora de Il Giornale di Sardegna e s’era trasformato in organo ufficiale del PNF). Lanciò addirittura un appello al suo pubblico di lettori, L’Unione Sarda: rivolgersi, per la firma della petizione e l’offerta, a padre Felice Carta, conventuale dell’Annunziata. E polemizzò con il professor Ernesto Puxeddu che del comitato promotore del monumento bruniano era stato, fra il 1912 e l’anno seguente, il presidente.

Il Solco e il Corriere di Sardegna – voci il primo del Partito Sardo d’Azione, il secondo dei popolari – dissero la loro, sostenendo tesi opposte. Pro frate Giordano – e per il Serafico si sarebbe trovata certamente altra sede che non la rotonda di Porta Castello – era il giornale di Lussu (diretto da Anselmo Contu, di formazione cattolica), per la sostituzione del vecchio con il nuovo si dicevano invece i tardo popolari (o chiamali neoguelfi) del Corriere di Sardegna. I quali, sostenuti dall’arcivescovo Piovella e dalla intera giunta diocesana di Azione Cattolica presieduta dal marchese Quesada di San Sebastiano, promossero formalmente, giusto in episcopio, il comitato o sottocomitato, quello d’onore e quello esecutivo, con l’immediato gradimento del commissario prefettizio Vittorio Tredici e del prefetto Renato Malinverno.

Insieme con i francescani di tutte e tre le famiglie – osservanti, conventuali e cappuccini – ecco a seguire,tempestive, le adesioni del tenente generale Gastone Rossi (già alto grado del Rito Scozzese di obbedienza ferana) e del deputato Giovanni Cao di San Marco. Aderiva l’anziano Luigi Colomo, già popolare ora fascista (era il Giulio Molco della pubblicistica cattolica d’inizio Novecento e l’autore del memoriale “Cagliari che scompare”, stampato proprio nel 1926!): egli scriveva addirittura di «sconcio indecoroso» e di necessità d’una rapida sostituzione del «busto dell’ignobile apostata nolano» con la «statua del serafico Sposo di santa Povertà».

Ma sistemare San Francesco era impresa infine più semplice di quanto un pregiudizio dottrinario potesse far pensare. La piazza Carlo Alberto, ancorché luogo di sinistre memorie, cento metri appena giù di casa De Magistris di Castella, poteva essere una soluzione. Però il furore (e/o l’ingenuità, lo sguardo corto) clerical-fascista puntava dritto comunque contro frate Giordano. L’erma doveva essere rimosso.

«Giordano Bruno segna un anacronismo ed un’onta al sentimento cattolico di Cagliari. Deve, dunque, scomparire. E la cittadinanza attende fiduciosa l’atto di riparazione», scrisse il povero giornale dei tardo popolari, convinto di aver fatto breccia nel sentimento e nella volontà di chi era salito al comando. E infatti pochi giorni dopo il direttorio provinciale del PNF rinforzato da generali e gerarchi votò un ordine del giorno di pieno consentimento con la proposta Tredici, e più specificamente dichiarò «di approvare la rimozione della statua di Giordano Bruno, che nell’angusta piazzetta ove trovasi rappresentato nient’altro che lo spirito settario delle Amministrazioni massoniche, anticattoliche del passato; di approvare l’erezione di una statua a San Francesco in altra sede degna della sublime figura del poverello d’Assisi; di richiamare tutti i fascisti della provincia perché in ogni Comune, durante il Centenario, si onori lo spirito di umiltà, di carità, di amore del Santo Italianissimo».

Conclusione. Con lo scoprimento del suo monumento la sera del 3 ottobre (e il solenne pontificale l’indomani mattina a Sant’Anna), veniva onorato al meglio, a Cagliari, dalla dittatura e dai cittadini, dai cristiani e dai simpatizzanti, il Santo prossimo (dal 1939) patrono principale d’Italia. Due settimane prima  frate Giordano era stato prelevato e infilato in un sacco (per essere liberato un anno e mezzo dopo ed essere collocato, nel mezzo di un replay di lamentele clericali, entro un nicchione dell’Università, e viaggiare successivamente,  nel 1946 e nel 1960, nelle nuove sedi della facoltà di Lettere e filosofia). Ventotto giorni dopo la tipografia del Corriere di Sardegna veniva invasa e semidistrutta dagli alleati dei guelfi antibruniani. Storie del 1926.

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Le due giornate del 12 e 13 febbraio 2015  destinate a una informativa e, ritengo, ad una prima discussione fra i cardinali circa la riforma della Curia Romana precederanno il solenne concistoro del 14, quando a don Luigi De Magistris di Castella sarà imposta la berretta e assegnato il titolo di una chiesa romana: quel titolo che appunto lo farà membro del clero romano chiamato in comunione al vescovo-papa di quella  archidiocesi-madre.

Chissà quante se ne diranno, delle linee di quella riforma. Posso esporre una mia libera riflessione in materia? Andrò veloce: la curia è l’apparato di utile al papa nel servizio che egli deve alla cattolicità. Il servizio del papa è un servizio di carità, cioè di partecipazione nella fraternità: ergo la collaborazione al papa deve essere dello stesso segno, e non di tratto autoreferenziale, spesso autoritario e prepotente (com’è stato di frequente). Poiché il papa è tale perché è vescovo di Roma e il papa, tanto più dopo le revisioni conciliari, sente sempre più come la storia che viene gli imponga una logica sinodale, sviluppa la sua tensione alla collegialità in parallelo, direi in incrocio, con l’opzione irreversibile all’ecumenismo. Ma nessuna autorità episcopale ortodossa o riformata accetterebbe mai l’inframmettenza nel proprio rapporto col vescovo di Roma di uomini dell’apparato fattisi protagonisti in proprio. Dunque la riforma della curia dovrà calibrarsi in rapporto, oltre che alla collegialità dell’episcopato cattolico, anche alle urgenze ecumeniche della Chiesa di Roma. In questa logica, nella quale prendono nuovo senso le dimensioni carismatiche o, se si vuole dirla con linguaggio corrente, le funzionalità ecclesiali, cadono in parte i vincoli clericali, e spazi non ancillari – non di contorno e d’apparenza cioè – vanno riconosciuti alle grandi categorie emarginate dalle strettoie clericali e maschiliste invalse nei secoli: le donne e i laici. In una Curia Romana che si ridimensiona a misura dell’accresciuta responsabilizzazione (leggi autonomia) degli episcopati nazionali e continentali – sviluppando la comunionalità a detrimento della disciplina d’obbedienza – non potranno perciò essere poca cosa gli ambiti di servizio “autorevoli” affidati a competenze di donne e di laici, alle risorse che sono misconosciute anche nelle Chiese particolari.

 

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