Il cuore dell’Occidente, di Ezio Mauro (editoriale su ‘la Repubblica’ dell’8 gennaio 2014)
Con un’azione militare contro il settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi il terrorismo islamista porta la morte nel cuore dell’Europa e della sua crisi, scagliando il nome di Allah e il fuoco dei kalashnikov contro un altro simbolo della democrazia: un giornale. Restano uccise 12 persone, poliziotti, giornalisti, un economista, il direttore, i vecchi vignettisti famosi in tutto il mondo come Wolinski, con una vita irriverente trascorsa a celebrare l’amore e a mettere a nudo il potere, i suoi riti e i suoi inganni. Anche il potere del fanatismo, naturalmente, quello che Salman Rushdie chiama oggi suRepubblica il “totalitarismo religioso”. Il pretesto antico, eterno e meccanico come una fatwa, è quello delle vignette su Maometto pubblicate nel 2006, già bersagliate da bombe molotov contro il giornale quattro anni fa.
Ma il bersaglio, com’è evidente, è la libertà in cui viviamo credendo di essere in pace, senza nemmeno accorgerci che quella libertà è eversiva e colpevole per il fanatismo proprio perché diventa costume civile quotidiano, normale modo di vivere, meccanismo di garanzia reciproca che ci scambiamo l’un l’altro in ciò che chiamiamo società, dove la nostra esistenza si incontra e si combina con le vite degli altri, trovando una regola comune nel rispettare i diritti altrui mentre vogliamo vengano tutelati i nostri.
C’è uno scarto evidente, a volte vistoso, tra i principi che affermiamo e la traduzione che ne facciamo nella politica, nelle pratiche di potere grandi o piccole, nell’operato degli Stati democratici, nella nostra condotta personale. E tuttavia c’è un orizzonte collettivo in cui ci riconosciamo che molto semplicemente tende al bene comune, ad uno sviluppo inclusivo che sappia tenere insieme la libertà economica e le libertà individuali che sono nate proprio in questa parte del mondo.
Oggi ciò che noi siamo è ciò di cui moriamo. Perché il terrorismo fanatico sembra esattamente consapevole di una nostra identità trascurata, mal sopportata da noi stessi, considerata stanca come le nostre istituzioni estenuate, la nostra democrazia ingrigita ed esausta. Poi alziamo gli occhi, davanti agli spari ad nella redazione di un settimanale trasformato in simbolo, e scorriamo l’elenco dei santuari civili della grandiosa banalità democratica scelti come bersaglio: una scuola a Tolosa, un museo ebraico a Bruxelles, un caffè a Sidney, il parlamento a Ottawa e infine oggi un giornale a Parigi.
Sono cinque angoli - tra i tanti - della nostra struttura civile in cui si incontrano le credenze democratiche nella libertà e nel progresso. Libertà di studiare, di far politica, di non discriminare tra le creature umane, di confidare nella trascendenza o nell’umano, di scambiare lavorare e consumare, di conoscere e di essere informati, per poter partecipare.
L’assalto a un settimanale ci ricorda quanto i giornali siano insieme simbolo e sostanza di questa civiltà che chiamiamo Occidente e di cui siamo meno consapevoli di coloro che ci hanno trasformati in nemici, anzi in vittime designate. I giornali portano in sé il dovere di informare e il corrispondente diritto di conoscere e sapere. Sono il prodotto e il metro di misura della democrazia di un Paese, la conferma che il potere è obbligato al rendiconto, la garanzia che non esistono zone franche, la testimonianza che in una società aperta ci sono diverse letture della realtà possibili, e il cittadino può confrontarle tra loro, così come può scegliere.
I terroristi ci confermano che non c’è libertà senza i giornali. E che la libertà dei giornali arriva fin dov’è necessario, fino all’irriverenza nella storia di Charlie Hebdo. La dimensione fanatica, il meccanismo totalitario non tollerano un’informazione libera. Addirittura non concepiscono la satira. Sanno perfettamente, nel loro istinto, che informazione, libertà e satira sono elementi fondamentali, naturali di una democrazia. E la democrazia è il loro vero bersaglio. Non tanto la democrazia delle istituzioni, giustamente protetta nei suoi luoghi sacri: piuttosto la democrazia dei diritti che si traduce nella materialità della vita quotidiana, nel nostro costume civile comune, così naturale connaturato da diventare quasi inconsapevole.
Se vogliamo che i morti di Parigi abbiano un significato morale e politico anche per noi, oltre al significato simbolico e militare per i terroristi, dobbiamo recuperare questa consapevolezza di ciò che noi siamo. Si chiama Occidente, cioè quella parte della cultura e del mondo che afferma di credere appunto nella democrazia come pratica che regge la cosa pubblica e la convivenza civile. Recuperata questa coscienza, dobbiamo prendere atto che proprio a questa identità è stata dichiarata una guerra mortale. Tanto più mortale quanto più i terroristi usano l’asimmetria come l’arma più potente, invincibile: kalashnikov contro la potenza disarmata di carta, inchiostro e idee, per esempio.
Noi crediamo di vivere in pace e, fuorusciti con la democrazia vittoriosa da un secolo che ha regalato al mondo due totalitarismi, vorremmo estendere pace e democrazia nel mondo. Il terrorismo ci ricorda che i nostri valori più universali sono in realtà semplicemente occidentali, quindi colpevoli. È la profezia di Huntington che mirano a realizzare, nel rovesciamento del calcolo razionale tra costi e benefici, nel ribaltamento terroristico del nostro codice che regola il rapporto tra l’ordine e il disordine, il bene e il male.
La religione armata contro la civiltà dei giornali è un doppio choc per la Francia che vuole nude le pareti della République, senza simboli religiosi, ritenendo laicamente che nella convivenza pubblica tra la legge del creatore e la legge delle creature debba prevalere quest’ultima, perché tutela i diritti - tutti - ma di tutti, quindi di chi crede e di chi non crede. Arriva fin qui l’attacco dell’islamismo radicale: fino alla separazione tra Chiesa e Stato. Fino a indurre la paura che l’edificio statale classico stia traballando di incertezze di fronte all’urto dei fondamentalisti. Che le parole con cui siamo cresciuti - laicità, tolleranza, uguaglianza, libertà - non riescano a definire di senso compiuto il nuovo mondo. Che quindi anche la cultura politica sia disarmata.
Nasce a questo punto il dovere di difendere non soltanto noi stessi ma addirittura la democrazia che è il vero bersaglio: il nostro modo di vivere, di amministrare noi stessi, la libertà di portare a scuola i nostri figli, di credere nel loro futuro, di accompagnarli in una chiesa o in un museo, di riunire i nostri parlamenti. È evidente che se tutti diventiamo bersaglio in quanto tutti siamo ogni giorno espressione, per strada e al lavoro, di libere scelte di vita, difenderci con le misure classiche di polizia diventa impossibile. Occorre prendere atto che il Califfato e ciò che resta di Al Qaeda sono il cuore della minaccia per noi e per la libertà di tutti: anche dell’islam moderato civile, naturalmente, che deve separarsi radicalmente dal totalitarismo fanatico che strumentalizza la religione a fini criminali di potenza.
Da questa minaccia dobbiamo difenderci con ogni mezzo, naturalmente con il dovere di rimanere noi stessi cioè fedeli, anche nella difesa, ai principi democratici e alla legalità internazionale. L’altro dovere è un riarmo culturale della democrazia, nei cui principi dobbiamo dimostrare fiducia e non disprezzo come troppo spesso facciamo. Vale in primo luogo per il potere, che ha responsabilità grandissime con le sue pratiche incoerenti, soprattutto la mancata consapevolezza che il lavoro è il fondamento della dignità e della libertà materiale. Ma vale per ognuno di noi: difendere la democrazia oggi per poterla affidare domani ai nostri figli. Così come per ognuno di noi, oggi, suona la campana di Parigi.