Un sardo di Villacidro a Tokio, da sessanta e più anni. Nei versi poetici del fratello, don Angelo, il suo insegnamento ed il soffio ecumenico fra oriente ed occidente e gli emisferi, di Gianfranco Murtas
Per padre Giuseppe Pittau S.J., arcivescovo
«Giuseppe / i tuoi occhi / sono stanchi di contemplare / la sabbia e le rocce / immutevoli / le onde del mare / effimere / ti ritiri nella veranda del tempio / ora parli con Dio / tu contempli i petali dei ciliegi…». I ciliegi – Sakura –, gli stessi forse del suo paese sardo…
Angelo Pittau, ancora fino a pochi mesi fa parroco di San Nicolò vescovo – la chiesa madre di Guspini –, nell’ultimo suo bellissimo libro di liriche di mistica universale dal titolo“Leggére” ha dedicato alcuni versi al fratello maggiore della sua dinastia villacidrese, il padre gesuita e arcivescovo Giuseppe Pittau, scomparso l’altro giorno in Giappone, dove viveva ormai da più di sessant’anni. Sessant’anni, con pause, relativamente brevi, di studio, ed una maggiore di servizio alla Compagnia ed alla Santa Sede. Intendo quella prolungatasi dal 1981 al 2003: dapprima, e per un decennio, perché incardinato nel team di guida degli oltre 20mila gesuiti sparsi per il mondo intero, dopo la malattia del preposito padre Arrupe – un gigante del cattolicesimo del Novecento: – poi perché nominato, a Roma, rettore della Gregoriana (carica conservata per un lustro circa); infine perché incaricato della segreteria della congregazione vaticana per l’Educazione cattolica (competente in materia di università e seminari). Con un titolo arcivescovile che lo riportava alle origini sarde, quello della medievale diocesi di Castro (poi Ozieri). Fino a che, per scelta di vita sempre dichiarata, nel 2003 decise di rientrare nella sua terra d’elezione, dove era stato per lungo tempo rettore della università Sophia di Tokio, frequentata da nipponici (e non solo) di ogni religione.
Veniva a Villacidro, finché l’età glielo consentiva, con qualche frequenza. Presente negli affetti permanenti ed autentici della comunità, e non soltanto di quella religiosa frazionata fra Santa Barbara, Sant’Antonio e la Madonna del Rosario (la parrocchia fondata da don Angelo negli anni in cui dirigeva “Confronto”). Era come Giuseppe Dessì, un orgoglio che univa i rioni cidresi, una gloria umile condivisa, padre Giuseppe. Dotto ed evangelico, un vanto anche di Villacidro e della Sardegna intera in faccia ai continenti.
Nel mezzo dei tanti altri versi dedicati alla spiritualità dell’oriente nipponico e asiatico nelle cento sue declinazioni fra meridiani e paralleli, don Angelo Pittau – che nelle sue esperienze di vita giovanile conta anche la penisola indocinese e, per diversi anni, il Vietnam della guerra, negli anni ‘60 – riporta i suoi pensieri sui passi che gli hanno consentito di conoscere mondi tanto diversi dal nostro, proprio a partire da quello sposato, proprio con sentimento nuziale, e per la vita, dal fratello grande ammirato e amato.
Una decina di mesi fa circa abbiamo offerto alla conoscenza di molti, datisi convegno al seminario diocesano di Villacidro, questo libro magnifico. Con Efisio Cadoni ero stato richiesto di una presentazione al microfono, e prima ancora anche di qualche pagina scritta, introduttiva alla silloge.
Oggi, con il pensiero riverente verso la memoria di padre Giuseppe, consegno a Salvatore Cubeddu, ove lo ritenga utile per la pubblicazione, quel testo fissato dunque sulla carta stessa delle liriche di don Angelo, mistico glocalista talentuoso come pochi, spiritualmente allevato dall’indimenticato vescovo Antonio Tedde e da quel fratello maggiore ora in benedizione.
(nella foto: don Angelo Pittau, il poeta fratello del gesuita padre Giuseppe)
Villacidro e l’universo mondo, fra consuntivi e nuovi inoltri, sui passi dei maestri. «…il sentiero di Leni / nel muretto dell’orto di mio padre / di mio nonno e dei miei nonni dei nonni / un masso di granito / con il muschio ruggine antica / il masso antico / per la mia tomba / ritorna in questa città di granito / S. Giacomo di Compostela.
«Dal sentiero dell’infanzia / al cammino di Compostela / a questo sentiero / e i pensieri vanno / al paese della gioventù Cuglieri / alla città eterna
«in Francia per i sentieri / della Provenza / ai vicoli di Tuili dai portoni antichi / in Vietnam / nelle foreste di bambù / a Torino / nei quartieri della lotta e della resistenza
«nell’errare per nazioni e continenti / emergono gli uomini di Angor / dei Maia e degli Incas / di Giava e di Bali / della Polinesia / dell’Africa / di questa mia terra
«Sentieri che si aprono ai popoli / ch’io ho percorso e percorro / piccolo uomo / giunto all’orizzonte limite / del finisterre». Finisterre, si riavvolge il film di tutta una vita…
Una vita per l’accoglienza, e del continuare. Sono i passi del viandante ad animare lo scenario tracciato dal poeta, a dargli vita e senso come dell’abbraccio: passi lungo sentieri i più vari che sia dato immaginare, quelli forse incerti e sperimentali degli anni della formazione e quegli altri realizzativi della piena maturità, e di suggello adesso nell’ineunte vecchiaia, giusto alle soglie dell’«orizzonte limite».
L’uomo dei sentieri è lui stesso, il poeta: lui l’attore sulla scena che si racconta nei dialoghi segreti con Domineddio – il Dio del cosmo e della storia, della materia e dell’energia e del cuore buono –, nel ripasso d’una missione che volge ormai all’esaurimento. Tutto egli ha visto e sentito e registrato in uno strano libro dell’anima, dove le percezioni si sono tradotte, per magia di simultanea, in idee e riflessioni che non chiudono mai un discorso ma aprono sempre, anzi, ad altre esplorazioni, a nuove andate per nuove mete.
Nel bilancio che è poi soltanto anticipazione di un altro consuntivo che verrà chissà quando, entrano dunque i sentieri, metafora del dovere compiuto: quelli rurali di Norbio al tempo della prima scuola e di Tuili all’esordio d’officiante all’altare, nel mezzo quelli dello studio al regionale di Cuglieri e, più in qua nel tempo, quelli del vasto mondo: nel Vietnam da libero cronista di guerra, in Francia od a Torino da prete operaio di periferia, in Giappone e nell’oriente estremo – Indocina e Indonesia –, in America latina ed in Africa come missionario di collegamento con la Sardegna, e ponte sempre fra società di chiesa e società di famiglie e mestieri, nella logica della partecipazione evangelica, cioè del lievito disperso nella pasta.
Il viandante che molti nella società organizzata di Cagliari ed Ales e Ruinalta considerano un leader, uomo di dottrina ed esperienza, uomo spirituale e di mille relazioni, uomo perfino di banca e soluzioni possibili, si racconta alla strada che ancora non tutta ha consumato: «sono pellegrino / ho camminato tutta una vita / porto la polvere / dell’errare per continenti / il logorio delle battaglie combattute / vinte e perse / le cicatrici ancora aperte
«io sono stanco / anche se desidero altre albe / altre strade / altre lotte / altri fremiti passione». Ancora Finisterre, il film di tutta una vita…
Si confessa, tornato innocente, o fatto innocente proprio dal cumulo delle prove che ha dovuto/potuto affrontare, non sempre superare, e che sono state più spesso di dolore, di dramma e perfino tragedia; fatto innocente o riscattato dagli incanti di natura dai quali si è fatto cogliere e trasformare, e ricaricare dopo ogni fatica per altre ripartenze: «oggi inizio un nuovo cammino / e si fa sera… notte / sono arrivato all’alba / al colle della gioia / il sole / bianca luce sulle verdi colline / sorge alle nostre spalle…
«sono alla terza età / a mesi settanta anni / alle mie spalle tante albe / tanti giorni luminosi / colli, colline e montagne / raggiunti». Insiste Finisterre, il film di tutta una vita…
Il dato biografico ritorna e non concede evasioni, seppure esso ancora s’ostini a declinare il passato in uno al futuro. E’ una vita – quella del poeta-viandante – che, a guardare il calendario, sembra ormai al capolinea, e che però e invece non rinuncia a un supplemento di domani avvertito come impegno, non preteso come un diritto. Insomma, quella neutra consapevolezza anagrafica non è lei a dettare il tema, ma sembra ancora farsi risucchiare nel gusto tutto soggettivo del continuare, nel gusto rinnovato per il rischio di far il bene – e far bene il bene, come certi suoi maestri –, di aprire ancora altre porte al suo prossimo, per onorare il suo Signore.
Il viandante partito dalle pietre di Giarranas, dai rivi di Leni o dalle aie di Olaspri, l’esploratore dei continenti, capace di raccogliere gratuità ovunque passi e capace però poi di semina per donarsi a sua volta, salda l’una con l’altro: la contezza di finisterre con quell’impulso alla responsabilità che è il motore vero della sua vita e non si esaurisce mai perché evolve, anzi trasforma la passione in missione, ogni giorno riproponendolo così, sempre debitore e sempre oblativo, al suo Signore.
«“Volete andarvene anche voi” – dici Signore ai tuoi discepoli, / dici anche a noi Signore? –/ Anche a me!
«Ti ho seguito sin da piccolo / quando andavo dietro i buoi / portavo i cavalli all’abbeveratoio / portavo con l’asino il latte / al caseificio / incominciavo la giornata con la messa: / anche a me Signore?
«Dove vado io? / Io non mi allontano da te / la Tua Parola luce ai miei passi / lungo la mia vita / errante / in cammino nella gioventù / a cercare dove e come meglio servirTi; / in cammino nella maturità / tra le urla della guerra / le stragi, le distruzioni; / tra lo sfruttamento / le masse degli immigrati del sud / a Torino, / e in questa mia terra / di Sardegna / a costruire comunità / servizio / giustizia / libertà». Sulla scena di Giovanni 6,60-69 è anche lui, don Angelo, Angelo, con la sua storia e anche il suo pianto, e la sua protesta di uomo della Sequela: «Dove vado io? / Io non mi allontano da te».
Glocalista nel pluriverso, poeta del rischio. Prete cristiano e poeta dell’uomo, è un mistico sociale Angelo Pittau. Sembra mosso, ogni volta che gliene si offre l’occasione, dal meraviglioso gioco dei rimandi fra l’ambiente fisico – poco importa se sia Marmilla o Africa nera, Oriente tutto isole, templi e grattacieli, o Guspini terra dell’ultimo apostolato modellato come un prisma di luce su ogni bisogno – e l’ambiente più intimo, quello del pensiero e dello stupore religioso, delle domande a se stesso, le domande di senso…
Li chiamano “glocalisti” coloro che maneggiano l’arte del combinare la propria piccola patria con l’universo mondo, anzi il pluriverso mondo, come si comincia a dire dagli uomini di scienza e da quelli più avanzati o consapevoli di religione, i quali sanno procedere di concerto, in comunione nella distinzione e complementarità, verso le frontiere della nuova conoscenza. Angelo Pittau è risaputo essere anche lui – saranno già, in crescendo, trenta o quarant’anni! – un “glocalista”, un artiere di quell’universalismo che il nostro Giuseppe Dessì aveva raccolto da Leibniz e riformulato nella celebre sentenza secondo cui ogni punto dell’universo è il centro dell’universo. Sì, Villacidro come Tokio, Hammameth come Kamakura, Gerusalemme come San Nicolò o Santa Maria di Malta, Zeppara o Ngorongoro come Roma, Torino come Sabuko, o Rombo, o Moshi, o Seikè, o Bongor, o Bose della riunione ecumenica…
Sicché sfogli un libro di poesie come questo Leggére, e trovi la vita pubblica e quella intima dell’autore, l’esperienza e l’elaborazione, il sentimento e quel tanto che ti fa capire i percorsi e gli approdi, i travagli e le consolazioni di un uomo di fede che onora Domineddio accogliendo e servendo il suo fratello. E dunque Villacidro e Guspini sì, con il Giappone e la Palestina di Gerusalemme, con l’Honduras e il Ciad tropicale, nel galoppo su e giù fra gli emisferi, qua e là fra i meridiani delle civiltà altre, delle religioni e anche delle guerre e miserie altre, sempre per cercare e risarcire l’ultimo dei dimenticati, sempre per scoprire le tracce replicate della signoria multilingue di Domineddio, sempre per ridefinire – affiancando altri viandanti e soccorrendo gli sbandati, compagno del momento – la propria identità. Operativo uomo della Sequela.
Trovi cose semplici ma grandi, grandi ma semplici, nelle pagine che riespongono, consegnandoli al tempo e al bisogno di altri, i suoi versi. E annoti, di lato a quei versi, una parola che gemella la tua emozione alla sua narrazione poetica: Hammameth ti rimanda a quella ininterrotta striscia mediterranea che dalla Tunisia attraversa l’Egitto e il mar Rosso e raggiunge il Sinai e la Fenicia e l’Asia minore preislamica, e dalla civilizzazione pagana di Roma ribalta al nostro culto la testimonianza delle vittime. Anche di Santa Barbara martire giovinetta venerata a Villacidro e nella mezza Sardegna del sud, e celebrata nei secoli con panegirici come quello, tutto nella lingua dei nostri padri e delle nostre madri, che abbiamo ritrovato di recente e fu letto nel 1823 ai paesani di Norbio radunati nella spoglia navata parrocchiale.
Nelle sue identificazioni con altre figure umane e spirituali, e nei passaggi (anche liturgici) delle ore del giorno – dall’alba alla sera, tarda sera – il poeta confida quel che lo scuote e soprattutto confessa la sua fede: «anch’io desidero / un’aria leggera / un alito vivo», «ti dico di me / sono stanco, / per il mio correre / è arrivato l’affanno, / il respiro pesante / tutto è fatica / e c’è da fare ancora tanta strada», «io sogno / di camminare insieme / ma ho paura / non di te, di me / non voglio darti un peso / il mio peso… vorrei non avere paura / di darmi», «mi accorgo che ho chiuso / un lungo cammino / e ne ho incominciato un altro / tutto nuovo / ripercorrere i passi è tornare indietro / con me camminano / tanti / molti ancora non hanno nome, / non hanno volto / non sono solo… / un volto sei tu, un nome / ti chiamo per nome / bisogna costruire comunità / corteo, popolo / e andare / in un nuovo cammino / verso l’unica meta / verso Te o Signore». Versi contemplativi di Hammameth, «il mare la sabbia abbagliante / il bianco della città all’orizzonte / e le palme alte / svettanti».
Monte Omu, Giappone ed Africa. Sono descrittive di luoghi naturali e civili e insieme di spazi dell’anima le parole scelte per raccontare originalità e universalità del Giappone buddista o di tradizione scintoista, la patria elettiva dell’amato e sempre presente fratello primogenito: «Giuseppe / i tuoi occhi / sono stanchi di contemplare / la sabbia e le rocce / immutevoli / le onde del mare / effimere / ti ritiri nella veranda del tempio / ora parli con Dio / tu contempli i petali dei ciliegi…». I ciliegi – Sakura –, gli stessi forse del suo paese sardo.
I colori mutevoli del cielo, le fissità degli ambienti umani, le fughe delle masse disanimate, i rovesci di una civiltà di «violenza metallizzata» sono cento flash di memoria contenta e spaventata, rilasciati come appunti di diario: «è silenzio / nei vicoli dell’antica città / abitata da nobili famiglie / immobili nelle loro case antiche / ad aspettare / lo scorrere del tempo… / più in là è il correre / di macchine e treni / di uomini e donne / tutti corrono / non ci sono vicoli ma corsie / di autostrade, sopraelevate / binari monorotaie / metropolitane / uffici fabbriche ipermercati / scuole templi biblioteche… qui l’oriente e l’ovest / s’incontrano / i grattacieli forano il cielo… / A Tokyo il sole / prima illumina le cime dei grattacieli… / il giardino aspetta / un raggio di sole riflesso / dagli specchi dei grattacieli… / le luci dei grattacieli / spengono le luci / la notte è un arcobaleno schizoide… ». E’ seduttiva e insieme paurosa la città, Tokio, resa in versi che sono pennellate rapide di un quadro impressionistico.
Lo sguardo punta in alto, alle montagne od ai ponti, immaginando presenze chissà se sempre amiche: «i giapponesi guardano in cielo / al sole rosso che sorge / al bianco delle nevi / alla vita degli dei… / nell’infanzia la sera guardavo / monte Omu / e le stelle alte ad indicarlo / nel mio andare a Torino / guardavo le Alpi innevate / in Vietnam a Dalat / negli altopiani annamiti / guardavo il Long Bian / abitato da uomini venuti dal mare». Biografia e sogno giocano fra loro, ballano le suggestioni fra Kamakura e Parte d’Ispi, fra Kilimangiaro e monte Nemo di Tanzania, si materializzano infine le rese, forse necessarie, del «cuore gonfio» alle chiamate d’ordinaria prosa quotidiana ed a quelle del nuovo dovere: finis della «leggera sorridente / nuvola di stoffe colorate», perché «è ora d’andare per i treni veloci / per le città / e ricominciare».
Ciliegi o dici Sakura. Ricordano quelli di Norbio, magari per San Sisinnio, nei campi di San Giuseppe e Villascema, i ciliegi in fiore che sono «nuvole rosa bianche / posate / nel verde delle colline / nei giardini delle pagode / nei templi zen»: sì, fanno ripensare a Parte d’Ispi e a una silloge dello stesso poeta osservatore tornato nella sua terra, per una più lunga sosta, trenta e passa anni fa: «I ciliegi all’improvviso scoppiano in una nuvola bianca / in un giorno / i rami si piegano al vento / perdono i fiori e domani avranno i frutti»…
Tutto diverso e tutto uguale nei dischi planetari, forse così nelle dimensioni del pluriverso mondo. Petali, farfalle, nuvole, illuminazione e sogno: sono parole, ma più che parole. Al pari di altre, che ti rimandano ad Abramo e Mosè e al popolo eletto: rugiada, goccia, rivolo d’acqua, conche delle rocce … che prendono la scena del Sinai, dove le gazzelle «saltellano / di roccia in roccia / a brucare l’acqua fatta rivolo / nella roccia». Parole che descrivono e ad un tempo evocano relazioni, relazioni mistiche: «Di te Signore / ha sete l’anima mia / in eterno / danzo e canto». Ancora: «sono in te tutte le mie sorgenti». Scene censite fra i preannunci veterotestamentari – Sinai –, inseparabili da quelle altre del compimento, evocate dal nome, il solo nome, che mutuamente affilia l’antico e il nuovo Patto, Gerusalemme: «per i rivoli della vita / della tua volontà d’amore / di perdono / il tuo sangue o Cristo / raggiunga me / lavami Signore dai miei peccati / salvami Signore / salva me Domine».
Passano i misteri salvifici di Sion, passano le meraviglie di Ngorongoro tra il tropico e l’equatore – dove «Dio creò l’uomo / e l’uomo s’eresse / calcò la sua orma nell’argilla / e si mise in cammino / cercando il paradiso» –, passano le pene della siccità a Sabuki per le preghiere del vescovo «grande sacerdote della terra e del cielo / e delle nuvole», passano a Rombo le fantasie oniriche che «sono illuminazione / per il futuro» e «spengono i volti / e i brividi / del presente», passano «gli dei del passato [che] ancora corrono e s’affacciano» nella montagna sopra Moshi dove è perenne, quotidiana turnazione fra il sole che scalda e la nebbia che intristisce…
Passano nella memoria affollata del poeta i quadri di vita dei suoi giorni africani, dopo quelli orientali… Qualche insistenza la merita il Ciad – terra povera quanto cinquanta Sardegne, gente povera quanto dieci Sardegne – , terra e gente prese in adozione di fraternità come una seconda Sardegna: «i tamarindi dominano la savana / il sole diventa rosso / l’orizzonte s’infiamma / le ombre s’allungano / le capre corrono ai ripari / e scende la sera» fra N’Djamena e Bongor, dove la notte «corrono come guerrieri gli spiriti dei leoni… / e nelle radure si riuniscono gli spiriti degli elefanti / in saggi consigli».
Anche Seikè è in Ciad, villaggio bagnato dalle acque del Logone fra le dune del deserto. E’ la sede di una libera università agro-zootecnica, scommessa di civile lavoro e forse di benessere avvenire, dopo la conquista dell’acqua e delle scuole: «io sono qui a Seikè / per risvegliare i sogni della mia infanzia / brividi della mia giovinezza / fremiti della mia maturità / io sono qui per rivivere / vivere / la passione fatta missione / perché tutti ti amino / o Signore».
Il tormento della malattia. Seikè o del riscatto, come Bongor o della pietà: «E’ morta Jaqueline / la catecumena vedova / Jaqueline è morta / quindici giorni dopo il giovane marito / malato di aids / in questo angolo d’Africa… / non aveva soldi per il ricovero / il missionario l’ha battezzata in articulo mortis / la domenica alla grande Messa del popolo dei Masa / a Bongor / la comunità ha pregato e danzato / per Jaqueline catecumena battezzata in articulo mortis / morta giovane di aids / come lo sposo giovane morto di aids», sì a Bongor come a Villacidro e Monserrato e Samassi…
Nel ritmo dei versi più dolenti di Angelo Pittau sembra ritornare quello stesso delle pagine del maggior poeta sardo del Novecento moderno, Cicito Masala. Ma se in questi è la condizione sociale degli isolani a costituire un tormento, perché essa rappresenta evidenza permanente di subita aggressione colonialista, e forse specchio malefico di una marginalità imposta, nella poetica di Angelo Pittau è la fitta dell’anima perduta e senza speranza di recuperi a dettare al verso le sue cadenze e i suoi ritorni.
Sovvengono alcune fra le più dense composizioni di Le stelle di terra, l’ultima – penultima – e matura, preziosa produzione editoriale del poeta: “Venite alle sorgenti”, “Muore Ismaele”, “La nostra forza”… «La pelle si è rinsecchita, indurita / la lingua è una spugna bianca / che si perde nella gola bianca / le viscere si sciolgono in acqua / e il corpo si svuota / le ossa fragili tendono la pelle / gli occhi si perdono e si spengono…». E’ forse proprio questo dei gravosi, insistiti tentativi di recupero comunitario – recupero di personalità e vocazione –, ed anche però dei suoi fallimenti irrimediabili sui letti d’ospedale, il vissuto più duro e autentico di chi, con sentimento e matita, rende onore agli sconfitti, e li piange come figli e fratelli di sangue.
Della religione e della Sardegna. Il mondo è piccolo ma sembra essere grande, ogni luogo evocato in questa silloge ariosa è come una pagina della geografia umana entrata nella vita del poeta. Ancora ogni scena è annotata in agenda – l’agenda di Leggére – con il titolo della sosta, lunga sosta di vita: a Roma si andrà «per le strade della giovinezza / nei luoghi dell’incontro… / per le strade del 500… / e poi a Trastevere / nei vicoli», megalopoli chissà quanto fedele o quanto mutata nel tempo ormai trascorso; ma a Torino si andrà a censire senz’altro soltanto smarrimenti e perdite: «tutto sembra / come un sepolcro vuoto / senza angeli e pie donne / senza il sepolto risorto»… Chissà, vien da pensare agli stati di cassa integrazione dei figli o dei figli dei figli di quegli emigrati sardi di mezzo secolo fa, accompagnati dal giovane prete all’opera mattina e sera, quando la Chiesa piemontese s’illuminava del genio pastorale del cardinale Michele Pellegrino.
Non è lontana Bose, centrale monastica ed ecumenica con «la lampada del Santissimo» e la «segreta stanza / delle icone» in cui la contemplazione si fa «immagine / rivelazione» ed è «lode perenne» da ogni ora «Tertia» per ogni domani che verrà… Neppure sono lontane – a seguire il filo suggerito dai primi versi della raccolta Le stelle di terra («dall’alba della giovinezza / nelle miniere di Bindua / a Marsiglia a Lione / tra gli immigrati del meridione / a Torino / nei quartieri ghetto») –, neppure sono lontane le vallate e le alture di Leni tutte mandorli, mimose e margheritine, e quelle di Guspini e Montevecchio, dov’è sapienza di pozzi e gallerie tanto più nei Natali che sono venuti nei lunghi anni del ministero di Antonio vescovo, e prima ancora, Natali rischiarati dalle lampade di carburo «nel freddo delle viscere della terra / nello stillicidio delle acque delle pareti».
Risenti un’eco di san Tonino Bello a Santa Maria di Guspini, la stessa che era/è di Efeso, quella della dormizione e della scomparsa, e della festa fra gli angeli che «salutano [l’] / Assunta in cielo» quando «sorridono gli Apostoli / venuti da lontano».
E’ ancora festa a Guspini e in ogni Guspini per il Natale, il presepio vero è una scena leggera e serena per i bambini: «l’Egitto è lontano / e il Golgota è nascosto / da Gerusalemme». Materia, quel compimento terribile, da grandi.
Distribuite qua e là nell’anno, sono celebrate qua e là in comunione grazie al ricordo le feste del calendario liturgico: «Io ricordo / una gioiosa Pasqua / a Taizè / mille e mille giovani… / ed io danzavo / e gridavo e abbracciavo / i mille fratelli del mondo… / ora / dopo tante primavere / in questa mia / nuova primavera / in questa gioiosa roccia / dove s’eleva / il tempio di San Nicolò / gioioso grido / e danzo e abbraccio voi… ». Così i versi di Danzo.
La patria d’una certa stagione di vita che ancora non conosce serrande è, per il poeta-e-prete, San Nicolò, comunità certo, ma anche monumento antico e meraviglioso dal cui rosone filtra «la luce del mattino» e sotto la cui volta «ogni giorno sempre di più / stelle e cielo / si riflettono / nella patena offerta».
Ventinove stazioni per arrivare alla messa. Anzi, alle cinque messe, o ai cinque modi dell’unica messa. Come ad ordinarli, questi modi, l’uno di fianco all’altro, saldando la verticalità della metastoria, della trascendenza, dell’alfa e dell’omega, allo stadio orizzontale dei più, dei tutti anzi, s’affanna il poeta quando mette la stola: pane e vino, fiori e dolci, la corona del rosario e il braciere. «Ho offerto la mia pochezza / e il fuoco è sceso / e sono diventato fiamma / fiore di fiamma… / Non siamo più uno, due, mille / siamo un unico fuoco nel mondo / Il fuoco è venuto / e di noi ha fatto un incendio»: miracolo d’amore, del fare partecipato, dell’essere e voler essere “insieme”.
Il pane e il vino sull’altare, e i fiori e la luce, e le lampade delle vergini «luce ai loro passi / per correre a te Signore»: lampade rosse e verdi, lampade azzurre e viola e bianche, ognuna con un suo motivo, un suo perché affidato alla lezione di chi è competente, esperto dell’altare e della vita. C’è la fatica della terra e dell’acqua, degli uomini e delle donne – le nostre campidanesi, del Linas e di ogni Linas – per il pane della mensa, c’è la fatica gioiosa di tutti alla vendemmia per il vino della mensa, c’è la fantasia e il talento delle stagioni per donare fiori e frutti alla mensa, e quella varietà delle lampade della preghiera che altro non sono se non rappresentazioni autentiche della vita mirate all’offertorio: al miracolo che pareggia la creatura al creatore.
Va in crescendo il poeta-viandante, l’uomo dei sentieri che ha fatto testamento firmando versi della misura giusta dei suoi pensieri. Il pensiero di un prete è mistico: «ti incontro Signore / in lungo ascolto / di pace». Perché tutto il giorno è un pregare facendo – «è un incontrare i volti / anziani, nonne, mamme, padri / giovani / un alice di sofferenze d’ansie di paure / di poche speranze» – per concentrare alla sera, sotto il «peso delle ore», nel ritiro del «deserto», le energie dell’attesa. L’attesa – spiega il poeta nei toccanti versi de Il giorno del prete – che tutto riscatta e tutto compensa.
Preghiere che usa chiamarsi poesie, ma preghiere sono perché i pensieri dei preti sono mistici ed esperti, esperti di senso orientatore. «Leggére / le mie parole / immagini che scivolano / nel sonno /da sogno a sogno», confessa il poeta. Trae dal mondo e dall’umano le comparazioni: fiocchi di neve, petali di mandorli, nuvole e lagrime, palpiti di ciglia e tremori di labbra, carezze di dita e veli di danza… «come l’arrivo della morte / sul far della sera».