Lettera sui referendum … di don Aldo Antonelli

CAGLIARI, piazza del Carmine, 10 giugno 2011,ore 19,12: i manifesti attendono i cortei dell'ultima sera di mobilitazione popolare per i quattro referendum.

 

di don Aldo Antonelli (parroco di Avezzano, L’Aquila) e di Ettore Masina

Carissime, carissimi,
vorrei denunciare la disinformazione che i contrari ai referendum danno: dicono di non andare a votare perché … l’acqua è pubblica, ma non dicono che la gestione sarebbe privata. Che il referendum sul nucleare comporterebbe la cessazione della ricerca. Falso: la ricerca non viene fatta nella costruzione o nell’operatività delle centrali, ma nei centri di ricerca; QUEI CENTRI CHE IL GOVRNO HA RESI INOPEROSI TAGLIANDO I CONTRIBUTI, tanto è vero che la fuga di cervelli viene denunciata quotidianamente dalle voci libere (quelle poche che sono rimaste) e, vedi Report scorso della Gabanelli, lavorano nei vari laboratori di nazioni che veramente credono nella ricerca e non negli affari a breve risultato, ma che fanno sì che l’Italia sia sempre più il fanalino di coda d’Europa.
Durante la raccolta di firme per indire i referendum, mi è capitato di raccoglierle da cittadine, cittadini di tutti gli schieramenti, se non vogliamo che imprenditori senza scrupoli, menager che guardano solo ai dividendi dei loro azionisti, si arricchiscano sulle spalle di noi tutti, domani o lunedì, andiamo a votare e votiamo 4 SI.

Vi inoltro quanto scrive Ettore Masina nella sua odierna LETTERA:
vale la pena, come sempre, di leggerla con attenzione e meditarla, fatelo prima di recarvi alle urne.
Che la democrazia, le scelte dei cittadini, possano vedersi riconosciute.
Paolo Bertagnolli

LETTERA 150

marzo-giugno 2011

Raccontini a margine dei referendum

1

Fu nella gelida primavera del 1987 che conobbi, a Kiev, un uomo che era stato a Chernobyl, aveva visto l’Inferno e tuttavia era di  nuovo felice. Non ricordo il suo nome; era il ministro della Ricerca scientifica della repubblica sovietica ucraina. Raccontò di essere andato “sul posto” non appena avuta notizia del disastro e di esservi rimasto tre settimane per coordinare gli interventi. Dopo i primi giorni, radiatori geiger più sensibili avevano rilevato che le protezioni usate fino a quel momento dai soccorritori, non erano sufficienti.  I medici avevano tetramente scosso il capo. Il ministro ci confidò che non gli era sembrata condanna troppo grave, lui non aveva più voglia di vivere Aveva saputo che sua figlia, abitante a pochi chilometri dalla dannata centrale, era incinta. Da Kiev il governo premeva perché le gestanti abortissero i feti irradiati; la figlia del ministro si era rifiutata di farlo.

Rientrato nella capitale, l’uomo aveva completamente perso la voce per quindici giorni, poi la voce era tornata e se n’era andata la sensazione di debolezza che lo aveva afflitto. Si sentiva giovane e forte, dichiarò. Ma  era felice, soprattutto perché gli era nata una nipotina “perfetta”, niente a che vedere con certi poveri piccoli mostri. Due mesi più tardi telefonai per avere sue notizie. “Il compagno ministro è morto – mi rispose un funzionario. -La nipotina? Non so niente di nipotine”.

2

Era una favela grande, nello splendore della Bahia. Arrivò un vecchio Prete-Manager italiano e decise che avrebbe beneficato i poveri, costruendo un ospedale; e costruendolo proprio lì, dove stava la favela. Tra il Vecchio e i favelados cominciò allora una guerra fatta di avvocati, carte bollate e polizia, da una parte, e, dall’altra, gli analfabeti e i loro bambini. Il primo round fu vinto dai testardi baraccati  e allora qualcuno arruolò un gruppo di jaçungos per le necessarie pulizie. Gli jaçungos sono piccoli e grandi delinquenti, non costano neppure tanto e lavorano bene. Visitarono di notte la favela, spararono in alto, distrussero i piccoli orti, diedero qualche spallata alle baracche. I bambini piansero, gli uomini e le donne no. Gli imprenditori domandarono ai teppisti se fossero rincoglioniti, si dessero da fare. Allora gli jaçungos dinamitarono una fonte intorno alla quale la faavela era sorta – e la storia finì. Senza libera acqua i poveri non vivono. Il prete-manager diventò ancora più santo. (Interrogazione del deputato Masina al ministro degli esteri, X legislatura, 1989).

3

Simòn Perez Mocilla aveva sedici anni quando, nell’aprile del 2000, marciò verso Cochabamba, la terza città della Bolivia. con tutti gli abitanti del suo villaggio. Sulla strada nazionale, quando vi entrarono, c’era già una folla fittissima di campesinos e minatori di altri paesi; e c’erano le donne con i loro cappelli duri che i turisti italiani definiscono ridendo “bombette” e gli abiti verdi e rossi, e le bambine con grandi trecce nere, e i maschietti che cercavano di imparare le canzoni dei padri. Simòn e i suoi compagni gridavano: “L’acqua è nostra, l’acqua è nostra”: L’anno prima il governo aveva venduto la distribuzione dell’acqua a una multinazionale. Subito le tariffe erano state più che quadruplicate e poco dopo ancora quadruplicate. Persino per raccogliere l’acqua piovana ci voleva un permesso. Ogni  famiglia doveva pagare per l’acqua almeno 2 dollari al giorno, cioè un quarto della spesa per il vitto. Gli ufficiali giudiziari correvano da una all’altra capanna per estorcere i balzelli. Inutilmente i vecchi avevano raccontato che l‘acqua era un dono della Pacha Mama, la grande Madre Terra. Quando il popolo boliviano decise che né acqua né aria potevano  essere vendute, le multinazionali inferocirono: non soltanto quegli straccioni si permettevano di protestare, ma se avessero avuto successo avrebbero certamente finito per sostenere che anche il petrolio e il gas erano doni di quella loro genitrice  del c… Allora i gringos misero sull’attenti i loro complici boliviani e questi inviarono la polizia con l’ordine di reprimere la protesta. Vi furono 6 morti e 175 feriti. Simòn fu ucciso mentre cercava di portare in salvo un bambino accecato dai lacrimogeni. Il governo si rimangiò l’accordo con la multinazionale.

4

Mentre la visagista gli rifaceva il tatuaggio sul cranio, la segretaria gli ricordò con qualche imbarazzo che il giorno dopo ci sarebbe stata “quell’udienza” in tribunale. Lui la guardò sorridendo, disse: “Mi consenta” e fece il gesto dell’ombrello.

Una constatazione (Centro Ricerca Pace, Viterbo)

Perdere i referendum, ovvero non raggiungere il quorum avrebbe conseguenze disastrose: la sconfitta rafforzerebbe enormemente le norme di legge che i referendum propongono di abrogare. In dettaglio: non raggiungere il quorum nel referendum per fermare il nucleare avrebbe come risultato un fortissimo sostegno alla follia nucleare; non raggiungere il quorum nei due referendum in difesa dell’acqua avrebbe come risultato un fortissimo sostegno alla mercificazione dell’acqua; non raggiungere il quorum nel referendum sul principio dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge avrebbe come risultato un fortissimo sostegno all’eversione dall’alto neofeudale.

Passaparola

Attenzione!

Le schede dei referendum sono di tipo “carta copiativa” ; se le sovrapponi, si segnano anche quelle sotto, che poi vengono annullate.

 

 

 

 

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