RIPENSARE L’OMBRA DELLA SCONFITTA ALLA LUCE DELLE CONQUISTE DEI MOVIMENTI*, di Federico Francioni

La sconfitta subita dalle lotte degli anni settanta va ripensata, problematizzata, ridefinita, alla luce delle conquiste di quegli anni: la relazione del convegno di Sassari del 29 e 30 novembre 2014.


Sommario: Premessa – Un esempio: il movimento dei soldati – I cambiamenti nel mondo della scuola – Nello specifico contesto sardo – Per una biografia di Riccardo Lai (nella foto, alla guida della manifestazione): alcuni flash – Conclusioni.


*Nei giorni 29 e 30 novembre si è svolto a Sassari, nell’aula magna del Dipartimento di Chimica e Farmacia dell’Università, un convegno sul tema: “Dai movimenti  degli anni settanta alla Sardegna di oggi. Ricordando Riccardo Lai”. L’iniziativa è stata promossa ed organizzata dalla Fondazione “Sardinia”, da Legacoop del Nord Sardegna, nonché da quattro cooperative: Airone, Melis & C., Coopas e Ostricola. Queste ultime hanno garantito all’iniziativa un finanziamento – negato invece dalla Fondazione Banco di Sardegna – che ha permesso almeno di pagare locandine, il pieghevole col programma e la ripresa integrale dei lavori da parte di Telesassari.

Sono intervenuti: Salvatore Cubeddu, direttore della Fondazione “Sardinia”, Benedetto Sechi di Legacoop (entrambi hanno svolto anche il ruolo di moderatori),  il sindaco di Sassari Nicola Sanna, Loredana Rosenkranz (senza il suo impegno il convegno non avrebbe mai avuto luogo), Gianni Loy (Università di Cagliari), Marcello Truddaiu con un video, Carmen Anolfo, Nora Racugno, Angelo Marras, Giada Bonu, Piero Marcialis, Bruno Pallavisini, Sandro Ruju, Maria Antonietta Mazzette (Università di Sassari), Franca Chessa, Gigi Olla, Alba Canu, Tonino Budruni, Piero Carta, Bruno Canu, Franco Meloni e Gianni Piu. Nel dibattito hanno preso la parola; Giuseppe Doneddu (Università di Sassari), Bainzu Piliu, Giancarlo Casalini ed altri. Qui di seguito una versione più ampia della breve relazione introduttiva presentata al convegno da Federico Francioni.

Dedico questo intervento ad un amico di Riccardo Lai: a Salvatore Tilocca, da poco scomparso, manifestando la mia più sincera partecipazione al dolore di Annamari Nieddu, valente studiosa e storica dell’Università di Sassari. Ci siamo trovati in molti, nella Cattedrale, per porgere l’estremo saluto a questo nostro caro compagno.

Sommario: Premessa – Un esempio: il movimento dei soldati – I cambiamenti nel mondo della scuola – Nello specifico contesto sardo – Per una biografia di Riccardo Lai: alcuni flash – Conclusioni.

Premessa. Nei Quaderni del carcere Antonio Gramsci sviluppa il concetto di “rivoluzione passiva”, che si verifica quando l’iniziativa è saldamente in mano ai ceti dominanti e in assenza di risposte da parte dei movimenti popolari. La controrivoluzione globale è invece una raccolta di saggi (pubblicata in italiano da Einaudi nel 1968), che si deve a Leo Huberman e a Paul M. Sweezy, animatori della “Monthly Review” (con Paul Baran): essi argomentavano soprattutto sull’imperialismo americano; ma qui vogliamo collegare il concetto gramsciano ed il titolo di quel libro soprattutto ad un processo, che poi prese corpo specialmente negli anni ottanta del secolo scorso, con le politiche di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, ben decisi a smantellare ogni forma di Welfare State, la sanità e la scuola pubblica, per il trionfo delle privatizzazioni e del liberismo più sfrenato e selvaggio. In Italia, la marcia dei 40.000, fra tecnici ed impiegati della Fiat, costituì una linea spartiacque – in negativo, s’intende – e non solo per il movimento operaio e sindacale.

Tuttavia la sconfitta subita dalle lotte degli anni settanta va ripensata, problematizzata, ridefinita, alla luce delle conquiste di quegli anni. Sarebbe infatti ben difficile, o addirittura assurdo, negare i profondi mutamenti intervenuti – anche sul piano, diciamo così, “molecolare” – nei rapporti fra uomo e donna, dovuti soprattutto alle battaglie del femminismo. S’intende che minacce e pericoli di restaurazione sono sempre dietro l’angolo. Ma, rispetto ai grandi passi avanti di quegli anni, non si è certo verificato, nel rapporto uomo-donna, il ritorno ad una situazione pre-sessantottesca.

Sia inoltre consentito ad un docente di Storia e Filosofia porre in risalto che quella cesura, oltre la crisi del marxismo – di cui, si badi bene, si parlava già all’inizio degli anni settanta – ha lasciato una traccia profonda e persistente anche nella storia del pensiero, se appena ricordiamo la critica mossa alla tradizione occidentale da autrici come la francese Luce Irigaray, nonché dalle italiane Rosi Braidotti, Adriana Cavarero ed altre. Determinanti anche le ricerche ed il dibattito storiografico animato, fra le altre, dalla sassarese Michela De Giorgio, studiosa di grande finezza.

 

Un esempio: il movimento dei soldati. Questa riflessione non riguarda solo le svolte che dobbiamo alle donne. Vorrei infatti soffermarmi, in particolare, su un mondo rigorosamente e inevitabilmente popolato di soli maschi, su un’esperienza che ho vissuto in prima persona: il Movimento dei soldati democratici della metà degli anni settanta, che non è da identificare, almeno in blocco, con i Pid, Proletari in divisa, legati soprattutto a Lotta continua. Bisogna tuttavia doverosamente riconoscere a questa organizzazione il merito di aver stimolato, avviato e sostenuto una riflessione ed un’attività anti-militarista all’interno delle Forze armate: contro le gerarchie, l’autoritarismo, il nonnismo, per migliori condizioni di vita all’interno delle caserme. In proposito va detto che, nell’Esercito, l’impegno dei militanti della Nuova Sinistra era, da una parte, chiaramente illegale: era severamente vietato, s’intende, svolgere un lavoro di agitazione politica, presentare proteste e reclami collettivi, verbali e/o scritti; d’altra parte questa attività si poneva anche un obiettivo profondamente legale, democratico, costituzionale, cioè la riforma e l’armonizzazione del Codice militare di pace col dettato della Costituzione repubblicana. Stiamo parlando evidentemente di vicende interne al sistema della vecchia coscrizione obbligatoria. Non vorrei poi che si sottovalutasse una conquista di quegli anni, rappresentata dalla possibilità della libera uscita non in divisa, ma in borghese.

Durante il servizio militare fui assegnato al “Gruppo selettori” (per le visite di leva) nella caserma “Ederle” di Calamosca, a Cagliari; ebbi, allora, più che una sensazione, una certezza: masse sempre più consistenti di giovani mettevano in discussione l’assetto socioeconomico e politico dominante, si spostavano su posizioni di sinistra avanzata, si mostravano sempre meno passivi e sempre più ricettivi verso l’antimilitarismo, sempre più disponibili a pratiche e comportamenti oppositivi. Si trattò di una vicenda in gran parte generazionale, perché in seguito non è stato più possibile assistere ad un fenomeno di tale portata. L’appartenenza a quella generazione, che ha lanciato contro il potere una sfida, diciamo pure, superba, rappresenta per me un motivo di grande orgoglio.

Nel 1975-76 anche a Cagliari la nostra iniziativa – nell’ambito, ripeto, di quella promossa ovunque dal Movimento dei soldati democratici – sfociò, dopo una fase di accurata preparazione, in uno sciopero dello spaccio nella caserma “Ederle”, con un’astensione, certamente non totale, ma comunque significativa, della truppa. Agli occhi delle gerarchie l’iniziativa non passò di certo inosservata. Pensammo tuttavia che qualche ufficiale potesse ritenere in parte casuale quell’assenza dei soldati di leva dal bar della caserma. Decidemmo pertanto di passare ad un’azione più rischiosa: lo sciopero del rancio. Tralasciamo in questa sede le battute che eravamo soliti fare sulla qualità dei pasti che ci venivano ammanniti. In ogni caso, astenersi in massa all’ora di pranzo comportava un pericolo evidente, perché era espressamente vietato dai regolamenti. Per parare i colpi di una repressione inevitabile, ci sembrò opportuno e più vantaggioso, onde spingere in avanti la lotta e non pagare prezzi troppo elevati, promuovere l’astensione della truppa dal pasto serale. In quel caso la presenza in sala mensa non era considerata tassativa; era consentito anche anticipare la libera uscita; coloro che se lo potevano permettere preferivano andare in pizzeria. Tuttavia il gruppo che animava la lotta all’interno della caserma era convinto che la decisione di astenersi dal rancio serale avrebbe comunque lasciato un segno, che le gerarchie non avrebbero potuto trascurare. La nostra scelta fu coronata dal successo: solo due o tre militari si presentarono in sala mensa.

Avvicinandosi la fine del 1975 preparammo un bollettino ciclostilato rivolto ai soldati che prestavano il servizio di leva a Cagliari. Fummo aiutati dall’esterno: io frequentavo la sede di Avanguardia operaia, poi confluita in Democrazia proletaria. Dopo che il bollettino fu diffuso, un ufficiale ebbe l’idea (ma forse aveva ricevuto un ordine in questo senso) di leggere, durante l’adunata mattutina, alcuni brani degli articoli in esso contenuti. In tal modo riuscì a conseguire l’effetto, certamente da lui indesiderato, non di incutere timore, ma di fare una pubblicità insperata alla nostra lotta. Ciò, indubbiamente, contribuì a galvanizzare la truppa, non a deprimerla. Ricordo infine una sorta di assemblea, che tenemmo nella camerata della “Ederle”, prima di andare a dormire, nella notte fra l’11 ed il 12 dicembre, sulla “Strage di Stato”.

L’opuscolo dall’omonimo titolo era frutto di un certosino lavoro di controinformazione – svolto da militanti della Nuova Sinistra – che fu poi pubblicato dalla casa editrice Samonà e Savelli.

Sarebbe ovviamente sbagliato enfatizzare la portata di quanto successe alla “Ederle”, che riguardò, a ben vedere, non oltre cento soldati. In ogni caso questa vicenda va inserita in un ambito più vasto, in cui maturavano decisivi cambiamenti. Nasceva in quegli anni il movimento dei sottufficiali democratici dell’Aeronautica, che si sviluppò anche a Cagliari. Nel capoluogo partecipai ad un incontro: fui colpito in particolare dalla serietà di alcuni fra questi sottufficiali, i più qualificati professionalmente fra tutti quelli delle Forze armate. Anche per questo motivo essi chiedevano fermamente una rappresentanza. Tale istanza era stata già formulata negli anni precedenti, peraltro attraverso organismi di stampo corporativo e conservatore.

Un fermo e implacabile rigetto di ogni tipo di attività politico-sindacale condotta all’interno dell’Esercito fu espresso non solo, ovviamente, dai partiti di governo – fra questi il Psdi di Giuseppe Saragat era, com’è noto, il sostenitore più oltranzista dell’alleanza atlantica e degli Stati Uniti in particolare – ma anche dal Pci. All’interno delle caserme i militanti del partito di Luigi Longo e di Enrico Berlinguer furono sempre risolutamente contrari ad ogni nostra iniziativa; i più benevoli ci raccomandavano di lasciar perdere o di procedere con cautela per non finire a Gaeta, a Forte Boccea o in qualche altro carcere militare. Nella “Ederle” prestavano servizio dei militari che erano stati in precedenza detenuti per reati comuni, ma anche per motivi politici; a me andò meglio perché fui solo “punito”; dopo il congedo di tutti i miei commilitoni dovetti aspettare un mese circa prima di essere congedato a mia volta.

Ora, senza il Movimento dei soldati degli anni settanta e, più in generale, senza le lotte di quel cruciale ciclo storico-politico, non si sarebbero mai verificate la sindacalizzazione della Polizia e la creazione di forme di rappresentanza nelle Forze armate.

Insomma, il senso di queste pagine è che la sconfitta dei movimenti cresciuti impetuosamente negli anni settanta di sicuro c’è stata, ma, allo stesso tempo, non tutto è andato perduto.

Grazie al Movimento dei soldati democratici – e non solo – cambiamenti decisivi si sono verificati in un paese che ha conosciuto la strategia della tensione, il coinvolgimento delle più alte cariche dello Stato e dei servizi segreti in disegni golpisti: dal Piano Solo – del 1964 – agli attentati del decennio successivo. Ciò suona conferma dell’analisi gramsciana, che aveva colto una costante ed una vocazione sostanzialmente eversiva nella storia delle classi dirigenti italiane.

I cambiamenti nel mondo della scuola. Altra esperienza per me molto bella e significativa, articolata con diverse modalità, a seconda delle sedi, fu il movimento dei Corsi abilitanti: anche da lì ebbe avvio un’attività che contribuì a formare un nuovo personale scolastico, assai sensibile alle critiche verso quei meccanismi della selezione economica e meritocratica, in grado di perpetuare  quel tipo di istituzione già duramente condannata da don Lorenzo Milani. Si formò allora una nuova generazione di insegnanti, particolarmente attenti a didattiche, se non alternative, certo diverse, non tradizionali, lontane comunque dalla  concezione dominante.

Penso si possa rivendicare – con orgoglio ed anche con buon fondamento – alla generazione del Sessantotto l’aver portato nella scuola una forte volontà di lotta, di innovazione, anche nelle tecniche di insegnamento e di aver contribuito, non superficialmente, ad un processo di cambiamento del modello di istruzione, una conquista che oggi viene messa sempre più radicalmente in discussione dalle logiche e dalle linee del liberismo selvaggio, dalle tendenze sempre più marcate verso il netto ridimensionamento del settore pubblico, i tagli degli investimenti nella cultura e nella ricerca, sempre in favore dei processi di privatizzazione. In quegli anni, con tanti altri colleghi insegnanti, cominciai a maturare sempre più la consapevolezza della necessità di una scuola sarda, non alienante, non sradicante, bensì in grado di legare docenti e alunni al tessuto socioeconomico, linguistico e culturale della Sardegna.

Dai corsi abilitanti in poi e da tante altre esperienze prese corpo l’impegno sindacale, che portò la minoranza, aggregatasi intorno alle forze della Nuova sinistra, a presentare una mozione che, nel Congresso provinciale della Cgil (1977) – tenutosi nell’aula magna del Liceo “Canopoleno” di Sassari – conseguì un risultato di tutto rispetto (il 33%) contro la maggioranza. Diversi compagni furono eletti nel direttivo del Sindacato e si batterono contro politiche compromissorie e di cedimento.

Esaminiamo meglio, allora, il contesto nel quale presero corpo determinate esperienze.

 

Nello specifico contesto sardo. Senza risalire alla decisiva rottura del Sessantotto e degli anni settanta, oggi non saremmo assolutamente in grado di cogliere, capire ed interpretare quei fermenti che condussero alla nascita di un’organizzazione come “Su Populu Sardu – Moimentu contra a su colonialismu”, una formazione nuova, davvero originale, per la netta impostazione di sinistra – molto attenta ai conflitti sociali ed alle lotte dei lavoratori – per il respiro internazionalista, che era stato proprio, in precedenza, di Antonio Simon Mossa (1916-1971), geniale architetto e intellettuale poliedrico, sardista e indipendentista: un internazionalismo che, purtroppo, andò ridimensionandosi nelle successive esperienze dell’indipendentismo politico organizzato. I militanti di “Su Pòpulu Sardu” venivano accusati di non essere indipendentisti da altri schieramenti: in effetti SPS teneva in modo particolare a “smarcarsi” da una vecchia matrice sardista / indipendentista, verso la quale veniva espressa una forte critica, tipica di quegli anni. In ogni caso lo slogan Contra s’autonomia de sos isfrutadores, Repùblica sarda de sos traballadores, lasciava adito a ben pochi dubbi sulla collocazione – indipendentista ed allo stesso tempo di sinistra – di quello che, propriamente, non era un movimento, ma un gruppo politico organizzato. Chi scrive ne fu assai influenzato. Dal suo canto, significativamente, proprio Guido Melis, assai lontano da quelle posizioni – sul piano psicologico, prima ancora che politico  – scrisse su “L’Unione Sarda”, dopo lo scioglimento di SPS (solo una componente confluì nel Partito sardo d’azione) che, purtroppo, era mancata una riflessione approfondita ed adeguata all’originalità ed alla novità di quell’esperienza. In ogni caso il Sessantotto e gli anni settanta diedero linfa vitale, nei decenni successivi, ad un indipendentismo di tipo nuovo, senza il quale la ripresa elettorale del vecchio Psd’az e  il c. d. “vento sardista”,  non si sarebbero mai verificati.

Democrazia proletaria, cui Riccardo apparteneva, assunse ben presto consapevolezza della necessità di una strategia adatta allo specifico, originale profilo della questione sarda e si impegnò per  agire il più possibile coerentemente e conseguentemente: ricordo il seminario di Sant’Andrea Frius, quello tenutosi a Tonara, da cui scaturiva l’esigenza di elaborare una “Carta rivendicativa del Popolo Sardo”; il Congresso di Dp sarda (tenutosi a Cagliari), ma soprattutto il Convegno internazionale “Nazionalità, minoranze, lotta di classe in Europa oggi”, tenutosi nel 1979 presso la Fiera campionaria di Cagliari, alla presenza di dirigenti politici e militanti provenienti, fra l’altro, dall’Irlanda e dalla Catalogna. I lavori furono seguiti anche da Sebastiano Dessanay, allora vicepresidente del Consiglio regionale. Sergio Salvi, autore de Le lingue tagliate, fu presente ed ebbe parole di sostegno e di viva approvazione per l’iniziativa.

Nel 1983, un anno dopo la morte di Riccardo, Dp candidò come capolista alle elezioni politiche l’indipendentista Bainzu Piliu – coinvolto nel cosiddetto “complotto separatista” – che non fu eletto, ma ebbe 4.816 suffragi, una risultato non indifferente (si veda l’autobiografia di Piliu, Cella n. 21. Il lungo cammino verso la dignità, pubblicata nel 2014).

Dp partecipò, fra l’altro, alla raccolta delle firme in sostegno della proposta di legge regionale di iniziativa popolare per l’introduzione del bilinguismo giuridico.

Da quell’approccio alle tematiche isolane prese l’avvio la costituzione di Democrazia proletaria sarda, di cui fu segretario nazionale Paolo Pisu, già consigliere regionale ed oggi sindaco di Laconi, nonché attuale vicepresidente della Consulta dei piccoli Comuni in lotta contro la minaccia di spopolamento.

 

Per una biografia di Riccardo Lai: alcuni flash. Vengo ora all’amicizia ed all’impegno di lotta che ho coltivato con Riccardo, che fu dapprima studente nel Liceo classico “D. A. Azuni” (tra i suoi docenti ricordo l’amico e collega Gavino Demontis); in seguito si iscrisse all’Università di Sassari, dove, al termine dei corsi, avrebbe dovuto sostenere, con lo storico Manlio Brigaglia, una tesi di laurea – sulla Consulta regionale, nella Sardegna del secondo dopoguerra – per la quale aveva raccolto una mole notevole di materiale archivistico inedito. Suo padre Pietro aveva fatto parte della Consulta come rappresentante del Partito socialista italiano: presentatosi poi candidato alle elezioni del primo Consiglio regionale non era riuscito per una manciata di voti.

Solo alcuni flash. In particolare sul 1978, l’anno di una svolta decisiva, ancora in negativo, s’intende.

Il giorno del rapimento di Aldo Moro mi trovavo al Liceo scientifico “Giovanni Spano” di via Monte Grappa, dove insegnava anche mio padre Sergio e dove in seguito sono stato docente di Storia e Filosofia. Il preside era allora Franco Dessì Fulgheri – poeta ed intellettuale, fratello di Giuseppe, l’autore di Paese d’ombre (Premio Strega 1972) -  che mi apparve subito molto serio e teso. Era prevista un’assemblea con studenti anche di altri istituti e Riccardo, ovviamente, non mancava. In quel Liceo aveva studiato anche il caro e compianto Alessandro Fiori. Il movimento degli studenti manifestava ancora vitalità. Ben presto si diffuse la notizia di quanto era accaduto in via Fani. Nell’atrio dell’istituto, uno studente, Andrea Marras, mi disse, in preda allo sconforto: «Così finiscono dieci anni di lotte!». Non dimenticherò mai quelle parole, quella frase in cui era colto, sintetizzato, scolpito, direi, il significato del gesto delle Brigate Rosse, che era diretto, in realtà, contro i movimenti.

I volumi di Sergio Flamigni, di Giorgio Galli – che, fra l’altro, ridimensiona il presunto radicamento delle Br nelle grandi fabbriche del Nord, pur strombazzato da alcuni mass media – e, più di recente, un libro di Ferdinando Imposimato hanno fatto progressivamente chiarezza sulle Br, spronate, incoraggiate, in parte usate e teleguidate dai servizi segreti italiani: è emerso in modo sempre più chiaro che in via Fani era presente un agente della Cia. Ciò non può certo sminuire la responsabilità e l’ignominia dell’assassinio di Moro, che ricadono primariamente sulle Br.

Dal suo canto Riccardo – sempre lucido, perfino tagliente nei giudizi, (accompagnati, in determinate occasioni, anche da bonarietà ed ironia) – non ebbe mai dubbi nel prendere posizione contro il terrorismo. Va ricordata la sua partecipazione al convegno di Bologna, quando era sindaco Renato Zangheri, su cui preparò un accurato resoconto, che fece nella sede sassarese di Dp, in via Duomo. Dalle sue parole emergeva, come verificammo anche in seguito, una netta, drastica contrapposizione verso la c. d. Autonomia Operaia.

La lucidità di Riccardo (che io sinceramente gli invidiavo), la sua capacità di farsi subito un’idea della situazione, l’intuito su come muoversi politicamente ed operare, anche nell’immediato, si esplicitò in varie occasioni ed in particolare durante una manifestazione sindacale in piazza d’Italia, sempre in quel 1978, così arduo, se non improbo, da attraversare e superare. Lo spezzone di corteo di Dp si trovava presso il Palazzo Giordano, allora sede del Banco di Napoli. Dietro di noi i militanti di Autonomia Operaia lanciavano insulti ed epiteti, i più sanguinosi – “Via, via, la nuova polizia!” era lo slogan più delicato – contro il Pci, che era invece davanti a noi. La situazione stava per degenerare. Chiesi preoccupato a Riccardo: «Cosa dobbiamo fare?». Mi rispose freddamente: «Federico, non possiamo farci proprio nulla. Fra un po’ tutti questi se le daranno di santa ragione; dobbiamo toglierci di mezzo o saremo coinvolti nella rissa!». Ci spostammo subito verso via Carlo Alberto: un attimo dopo partiva la carica del servizio d’ordine del Pci; quelli di Autonomia ebbero la peggio; alcuni di loro, in particolare, vennero colpiti sena piedade peruna.

In quei mesi si moltiplicarono le aggressioni, contro militanti della Nuova sinistra,  ad opera di elementi della c. d. Autonomia che arrivarono al punto di minacciare anche Riccardo, dimostrando così inequivocabilmente di avere un “cuore di tenebra”.

Per meglio ricostruire quegli anni sarà doveroso fare riferimento a fonti in gran parte inedite, come la documentazione donata da Antonello Mattone, dell’Università di Sassari, all’Archivio di Stato dello stesso capoluogo; va “sondato” e valorizzato anche il materiale giacente presso la sede sassarese dell’Istituto sardo per la storia della Resistenza e dell’Autonomia in Sardegna. Notevole anche la mole di documenti raccolti e conservati da Paolo Pisu, in parte utilizzati da Gigi Olla per la sua ricostruzione della storia di Dps.

All’impegno nel movimento degli studenti, Riccardò abbinò l’interesse e la partecipazione alle lotte delle ali più combattive del movimento operaio e sindacale.

Ricordo un blitz che Riccardo fece a Cagliari, dove raggiunse Giorgio Benvenuto, allora segretario generale della Uil, che si trovava in un albergo del capoluogo. Benvenuto accettò di farsi intervistare da questo giovane così vivace e dalla battuta pronta, talvolta fulminante, facendolo accomodare in macchina e rispondendo alle domande, nel tragitto che lo portava dall’hotel ad un’iniziativa confederale. Riccardo, in particolare, riuscì a strappargli una dichiarazione sulla necessità di autonomia delle Confederazioni sindacali rispetto alla logica del compromesso storico. Con emozione ascoltai da un piccolo registratore la viva voce di Benvenuto e di Riccardo.

 

Conclusioni. L’impegno, i sacrifici ed anche l’entusiasmo, la voglia di cambiare, che hanno animato negli anni settanta i giovani, le donne, gli studenti, i lavoratori, i tecnici e gli insegnanti, lungi dall’essere stati vani, hanno lasciato invece un’orma profonda, nell’economia, nella società, nei rapporti personali. Contro determinati, decisivi cambiamenti è partito l’attacco di quella “rivoluzione passiva” (Gramsci), cioè di quella “controrivoluzione globale” (Baran e Sweezy), che ha prodotto, con una deindustrializzazione più o meno marcata, secondo i contesti economici e geopolitici, il trionfo della banca e della finanza internazionale, la creazione di denaro ex-nihilo (si vedano al riguardo le lucide analisi del sociologo Luciano Gallino), il formarsi e l’esplodere delle bolle speculative, le politiche di austerity, che stanno contribuendo anche alla desertificazione, in tutti i sensi, della Sardegna.

Ma le conquiste promosse ed in parte realizzate negli anni settanta dai movimenti di lotta non sono andate completamente perdute. Di recente in Europa un segnale incoraggiante è venuto dalle nazioni senza Stato, più precisamente dai recenti referendum per l’indipendenza in Scozia ed in Catalogna, imperniati su ampi ed articolati progetti alternativi alle infauste politiche di matrice reaganiana e thatcheriana. Caduto il socialismo reale, venuto meno anche uno straccio di riformismo serio, di stampo socialdemocratico, l’unica critica spiazzante alle oligarchie autoreferenziali dominanti, centraliste e centralizzatrici, è venuta dai movimenti nazionalitari scozzese e catalano.

Degli anni settanta ed anche del decennio successivo tanti altri problemi, momenti ed episodi si potrebbero focalizzare, ma voglio chiudere qui, dicendo: Riccardo, ti ringrazio – dal profondo del cuore – per tutto quello che mi hai dato, che mi hai insegnato, per essermi stato vicino, anche nei momenti più difficili, per avermi voluto bene, per averci voluto bene.

 

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