Un tango per don Cannavera. Settant’anni e la risposta negatagli dagli impiegati del sacro. Divagazioni non per caso. di Gianfranco Murtas

Tutti quanti abbiamo qualche amico settantenne, qualcuno che è in volenterosa marcia verso quell’età e che, noi che siamo tutti quanti del partito di Gigi Riva – nel cui nome e nella cui immagine sfogano le nostre emozioni di ex giovani, e risanano le malinconie e anche le malattie –, abbiamo piacere di salutare, festeggiare, onorare.

E’ cosa che vale nel privato delle relazioni amicali, ma è cosa che talvolta associa al range di un rapporto personale che ha galoppato lungo i decenni, più larghe coordinate sociali, un taglio pubblico per la notorietà, e io direi di più, la benemerenza umanitaria, sociale e civica del personaggio. Dico di don Ettore Cannavera il quale compie oggi l’età bella che san Luigi Riva ha compiuto, fra tanti urrah! (ma discreti, come l’uomo merita), ora è soltanto qualche settimana.

Anche a lui noi offriamo un urrah! e uno spettacolo. Sobrio e vitalista insieme, sul modello vaticano. Un tango. Anche noi, sulle terrazze della Collina di Serdiana, un tango collettivo, tutto argentino – dell’Argentina gemellata con la nostra capitale di Bonaria, dell’Argentina terra di emigrazione anche nostra un secolo fa –, un tango come a papa Francesco in piazza San Pietro l’altro giorno. Un tango. Sembrerebbe una bizzarria, ma Cannavera che pure è uomo di studi, e di studi seri, questo tango lo gradirà forse più d’un libro, e c’è un perché.

Perché, a Cagliari, questo stesso Anno Domini 2014 che segna il suo settantesimo e sempre giovane genetliaco (21 dicembre, solstizio d’inverno), è per combinazione anche anno di ricorrenza centenaria non soltanto della visita sarda di Cesare Battisti, socialista mazziniano e patriota nostro, prossimo all’impiccagione da parte degli austriaci, ma anche di una lettera circolare dell’arcivescovo Francesco Rossi che condannava il tango – evidentemente urgenza somma nell’anno di scoppio della grande guerra – e vietava ai suoi bravi militanti cattolici di ballarlo (cf. “Il Monitore Ufficiale dell’Episcopato Sardo”, 30 gennaio 1914).

E dunque? Il pensiero corre al tempismo perfetto di certi uomini di Chiesa. L’arcivescovo Rossi, che governò non male l’archidiocesi antica e cara di Cagliari negli anni drammatici del conflitto mondiale, raccogliendo l’eredità del conventuale fra Pietro Balestra e portandola verso il più lungo episcopato di monsignor Piovella, lui avvertì quella urgenza, alla vigilia della grande guerra, alla vigilia dell’inutile strage. Niente tango, «danza immorale e lasciva»: danza invece gradita a papa Francesco e, modestamente, anche a me. Il predecessore di Rossi aveva chiuso d’autorità il giornale “il lavoratore” dei democratici cristiani di don Virgilio Angioni – prossimo beato per meriti di “Buon Pastore” –, al fine di placare la protesta della nobiltà nera cittadina (Sanjust, Amat, Quesada ecc.), il suo successore avrebbe accompagnato la Chiesa locale negli anni della dittatura, sempre invocando le benedizioni del Cielo sopra il re e sopra il duce.

«Noi ordiniamo pertanto a tutti i molto Rev. Sacerdoti della Città che con i fedeli alzino ripetutamente la loro voce, dal pergamo, dall’altare e nella stessa direzione spirituale per inculcare loro il dovere gravissimo che hanno non solo di non prendere parte, ma anche di non assistere, sia pure passivamente, a questo licenzioso divertimento.

«Nutriamo fiducia che Cagliari, che ha sempre mostrato un vero e fedele attaccamento alla Religione di Gesù Cristo e che in questi giorni fu fatta segno di un atto speciale di visibile protezione da parte di Maria saprà anche questa volta dare esempio di cristiana onestà».

Tutto passa nella storia, che è il luogo che traduce l’assoluto in relativo e consiglia l’umiltà e la prudenza, e insieme lo sguardo lungo. Ma da parte di molti uomini di Chiesa che vivono il presente come fosse il sempre, il perenne, si mantengono, nonostante le scivolate, le categorie dell’assolutezza nelle loro rampogne e nelle loro raccomandazioni, perfino nei loro ordini: «Dio lo vuole», come alle crociate anche nel Duemila, quando un cardinale ateo consigliava di disertare il referendum sulla legge 40. Dio voleva anche il potere temporale, da Costantino in qua. Voleva anche la ghigliottina azionata dai boia fedeli esecutori dei deliberati dei sacri tribunali, mano giudiziaria dei teocrati suoi vicari, fino a Pio IX beatificato qualche anno fa. Sì, Pio IX beatificato senza spiegare in che modo la sua eroica spiritualità fosse davvero esemplare o “significativa” per l’uomo al quale essa era proposta come modello, cioè a noi gente del Duemila che contrastiamo i fondamentali stessi del pontefice che fece rapire un bimbo ebreo di Bologna soltanto perché era stato battezzato e non concesse la grazia a Monti e Tognetti, 33 e 23 anni di vita, misurati dal loro battesimo fino alla lama del patibolo romano in via dei Cerchi.

Certo la storia sa essere ironica e dolcemente vendicativa. Perché non è soltanto questione di tango, è anche questione dell’inno nazionale che la banda militare offre, per omaggiarlo, al pontefice. L’inno italiano, le cui parole erano di quel ventenne che aveva sangue cagliaritano nelle sue vene, e che fu ucciso, con fuoco e cancrena disperata d’un mese intero, dagli alleati del papa, in quel ’49 che aveva segnato l’abolizione, per statuto della Repubblica Romana, del capestro e la sua rapida reintroduzione, per statuto del papa-re risalito sul controCalvario d’un trono umano. Eppure si dice che la vita umana sia un principio non negoziabile, dal concepimento alla morte naturale e si fa beato chi contraddice quel principio bellamente chiamandolo virtuoso.

Cannavera è un amico che sa cogliere il senso dei rimproveri, disponendosi a prenderseli, lui come tutti gli uomini di buon volere. Il rimprovero che mi sento di rivolgere a don Cannavera, ma anche a don Ciotti, che è della sua stessa famiglia, è di non aver celebrato funerali solenni, sulla terrazza della Collina, per Piergiorgio Welby quando un altro viceDio, tale Ruini cardinale della categoria degli atei, impose la piazza invece delle navate parrocchiali di San Giovanni Bosco per il congedo cristiano e umano a chi aveva patito le pene indicibili,e (per quanti anni!) della sla.

I signori del Sinedrio restano un pericolo, se ne sono visti anche al recente sinodo. E’ la mia eccentrica opinione. Sgangherata, dirà qualcuno. Battutaccia degna di un anticlericalismo o di un massonismo ottocentesco, dice e dirà chi non sa né di Mortara né di Monti e Tognetti, e ignora che i massoni la pena di morte avevano chiesto di abolirla fin dai tempi dell’unità d’Italia, depositando loggia dopo loggia, anche della Sardegna, al banco della presidenza della Camera, tramite Giorgio Asproni, le petizioni con decine e decine di firme, fino a che poi il massone Zanardelli provvide, quando a lui toccò il ministero di Grazia e giustizia e poté promuovere il nuovo codice penale. Sì, protesterà chi non sa nulla né di Welby né del vescovo Gaillot, mandato a Partenia per punizione vaticana (del Vaticano che ancora non sapeva se onorare o biasimare insistendo col silenzio, a tanti anni dal sacrificio, la memoria di san Romero). Sì, protesterà anche chi non sa nulla né dei tempi lontani né di quelli recenti, e neppure dei saliscendi pur modesti, da noi, di don Cannavera il quale appartiene alla categoria di coloro che, dopo esser stati additati e rimproverati come presuntuosi “primi della classe” – avvenne dal giornale dell’archidiocesi che si chiamava “nuovOrientamenti” ed era tutto democristiano e arrogante con i dissenzienti –, sono presto riabilitati come anticipatori, come nobiluomini del genere «è uno dei nostri!».

Joyce Lussu ce l’aveva con don Cannavera, protestò con me una volta agli Amici del libro, noi rintanati nell’ultima fila ad ascoltare Ettore Masina e, appunto, il don. «Uno così fa il male dei poveri, perché dà credibilità alla Chiesa che è reazionaria», aveva detto Joyce. Naturalmente non potevo condividere, né molto né poco. Don Angioni e il vescovo Gaillot, e san Romero, e dico padre Arrupe e padre Martini – gli ispiratori veri del presente pontificato – sono Chiesa non meno dei viceDio con la porpora di scena.

Un tango per don Cannavera, alla Collina e a Santa Margherita di Pula, a Sarroch e in via Tevere o in via Friuli, e a Quartucciu naturalmente, e dove altro si voglia, liberamente. Magari anche a Nuoro dove una volta, mi pare all’istituto magistrale, nel mezzo di una conversazione e di uno scambio di informazioni e di riflessioni, in comunità d’interclasse, fra il don che veniva da Cagliari e gli studenti, un ragazzo visibilmente sofferente si lanciò in grida d’improperi contro noi tutti e contro l’ospite, accusandoci e accusandolo di ipocrisia, perché davanti al disagio e all’abbandono vero o presunto non c’era offerta di cura ma soltanto partenza di parole senza senso, di bla bla insopportabili. E lui, il don, fra l’imbarazzo o la reazione stizzita di preside e alunni, di professori e genitori, lui era rimasto – con il callo della esperienza – il solo non insanguinato, perché conosceva quella umanità dolente, e s’era spinto a cercare non soltanto di recuperare quel rapporto fiduciario, ma di portare l’uditorio a un livello più alto che non fosse allora il dispetto: a capire, a entrare nei perché, fuori dalla tavola dei giudizi assoluti e dentro invece un range di condivisione problematica, nell’impegno anzi a darsi nella conoscenza personale e nell’affiancamento secondo moduli di fraternità, secondo lo stile di don Tonino Bello, senza ombra di paternalismo odioso.

Dolianovese di San Pantaleo, don Ettore è prete dal 1968. Mi pare dell’ultima o penultima sacra “infornata” di monsignor Paolo Botto, nell’estate di quell’anno. In quel di San Lucifero, la parrocchia dominata dalla solenne presenza ed autorità di monsignor Giuseppe Lepori, amato da molti pur nella dialettica o nella opposizione ai suoi portati e alle sue propensioni. In una chiesa che era ed è uno splendore in città, covata con amore da don Mosè dal 1920 e anche sotto i bombardamenti – quando lui dormiva in un cassettone della sacrestia –, impreziosita d’arte da don Giuseppe in quegli anni ’60. C’ero anch’io, ragazzino, alla festa, che allora, domenica 14 luglio, aveva protagonisti, sull’altare, i sette giovani candidati (c’erano, con don Ettore, anche don Efisio Zara e don Antonio Pisano, don Paolo Alamanni e don Francesco Frau, don Giuseppe Pes e il compianto don Gesuino Prost). Candidati alla missione, non al comando, all’affiancamento, non al leaderismo. Nella stagione postconciliare che era stagione di ricerca di equilibri nuovi, con preti all’esordio che da soli valevano un seminario intero, da don Luciano Vacca a don Efisio Spettu, e altri con loro, tanti altri come loro che conoscevano l’esperienza di fratel Arturo Paoli, di fratel Gerardo Fabert, di Bindua e anche di Taizé e di Sant’Elia, tutti quartieri della città-mondo in cui avevano preso a muoversi i ragazzi della Lega missionaria studenti e anche i Franco Oliverio della Congregazione mariana per socializzare medicina e umanità nella preferita peggior periferia di Cagliari.

Cannavera è di quella scuola. Attraverso i libri si è formato per mettersi a disposizione, non per innalzarsi nella vana nicchia dei dotti, e i libri – come anche ha fatto padre Morittu nelle sue comunità e quanti altri come lui nelle comunità belle della Sardegna, come don Angelo Pittau poeta e mistico glocalista – i libri li ha messi a disposizione di tutti, facendone una delle biblioteche di fruizione pubblica più fornite dell’Isola. Poi ne ha fatto di cose don Cannavera, e quelle che si sono viste, professionali e civili, per l’emancipazione dei soli, dei dispersi ma anche delle classi all’angolo, sono forse poca cosa rispetto a quelle più riservate che attengono alla sfera della coscienza e della relazione privata. Cose che restano nella intimità e danno risultati impensati. Come è stato quando me la sono dovuta sbrogliare anche io (ma con i suoi consigli di orientamento) nelle complicazioni di questo e quello, amici miei di Buoncammino, ora perduti per colpa dell’aids. Come è stato per-e-con Antonio Zinzula, grande-grandissimo e indimenticato uomo della Collina, il campione anche della mia testimonianza di lunghi anni cocenti, fra i tratturi e i viottoli della città di Partenia, fra assassini e malati terminali, detenuti e disperati costretti oppure vogliosi di faticose risalite.

Quello che doveva lo ha fatto e lo sta facendo, senza medaglie d’eroe, il don, con una fascia di collaboratori di gran valore e pari signorile modestia, a cominciare da Carla Cabras. Con metodo e disciplina, associando la cultura e la socialità, la socialità – la partecipazione e la responsabilità sociale cioè, l’impegno nel civile cioè – a quei dati di orientamento generale  e consapevolezza che usiamo chiamare cultura. Non tutto condivido del suo, evidentemente, non quelle frequentazioni insidiose degli uomini della politica, ad esempio: quelle dei pd-mignon che gli han proposto candidature senza capo né coda (fuori dal mucchio in udienza restando, è ovvio, i gridaioli alle stelle e quegli altri paggi del re mascarato, fascisti al deodorante). Non perché lui non abbia la statura per presiedere un governo regionale, no, è per il contesto lacrimevole che lo mortificherebbe ogni giorno. Ha docenza in facoltà teologica, ha chiamate nelle comunità o nelle scuole, e nelle parrocchie. Ha parte nella rete del CNCA, che da Capodarco è arrivata già quarant’anni fa, anzi più, in Sardegna, a Sestu, portando la rivoluzione nella concezione delle abilità e della partecipazione sociale, con Franca e Dionisio Pinna liberi muratori anch’essi nel cantiere di casa ed officina, e più ancora nell’agenda del fare ordinario e giornaliero, secondo le gerarchie che erano di padre Balducci – che incontrai proprio lì – e anche di padre Turoldo, e già del nostro don Milani e magari di don Mazzolari. Il mondo di Cannavera è quello: è un mondo d’ideali e di lavoro, bello, più bello ancora dopo che gli hanno incendiato, al don, la cappella dei lumini davanti alle icone bizantine e lui è ripartito daccapo, senza annotare né crediti né debiti. Più bello ancora quando a San Rocco s’è dato disponibile, in alternanza con don Nino Onnis e don Marco Lai, a tenere viva e coesa, attorno all’altare, la comunità nella eredità ideale del fratello maggiore scomparso fra lo sgomento addolorato e insanato di tutti.

Egli è stato in più momenti con il pontefice, a Cagliari, mesi fa. E già quando gli avevan detto che poteva/doveva portare i ragazzi del Minorile di Quartucciu e quelli della Collina per la grande assemblea in cattedrale, assieme al popolo di Buoncammino e anche a quello della Caritas, aveva preparato gli elenchi e trasmesso entusiasmo, convinto della bontà pedagogica di quell’incontro. Ma i numeri si erano presto ridotti a poca cosa perché i banchi erano prenotati dal presidente Cellino e dagli impiegati, in servizio o in quiescenza, della amministrazione penitenziaria. Allora chi era stato cancellato dall’elenco s’era sentito cancellato anche dalla considerazione. Una domanda, per il tramite dell’addetto alla grande mobilitazione, l’aveva rivolta, il don, al suo vescovo, venuto a Cagliari con la presentazione nientemeno che di monsignor Bettazzi, che era stato padre conciliare, figlio e sostegno di Giacomo Lercaro – prete e cardinale credente –, e presidente di Pax Christi. Perché quelle cancellazioni dei nomi dei ragazzi detenuti per privilegiare invece gli impiegati dell’Amministrazione e un miliardario (senza inclinazioni a rivestirsi di Zaccheo il pubblicano)?

Ma quale risposta può dare un impiegato del sacro come è il vescovo di Cagliari, che non s’era peritato, mesi prima, di abbandonare i cinquecento convenuti nella cattedrale di Serdiana, nella sede permanente degli arcivescovi Saba e Carta, quel giorno che il Cagliari giocava a Is Arenas contro il Catania senza pubblico perché le tribune erano state interdette da prefettura e magistratura? Quei cinquecento erano rimasti nella cattedrale, alla messa presieduta da un vescovo ennuagenario, padre conciliare anche lui, di nazionalità francese e amicizie sarde, mentre il vescovo in fuga s’era piazzato, con la piccola corte, al centro delle tribune interdette. Si era all’indomani di uno sgarbo pubblico, soltanto per fare disordine, e illusoriamente coperto dal patron del Cagliari con la promessa blasfema di una pratica scaramantica, nel nome nientemeno che della Madonna Maria, fra gli applausi inconsapevoli del vescovo tifoso e di un cronistello al seguito.

Don Cannavera chiede spiegazioni delle esclusioni. Esclusioni diocesane dopo quelle penitenziarie. Non ha risposta. Una volta mi scrisse monsignor Cauli (cento anni anche lui – ora in benedizione –, in questo 2014!): è il metodo dei clericali, mi riferì don Ottavio, quello di non rispondere. Perché non si riconosce l’interlocutore. Il vangelo è messo sotto il più corposo codex canonico vademecum d’episcopio. Riabilitato il tango, riabilitato il nostro Welby (come sono stati riabilitati i suicidi, cantati da De Andrè ma respinti dal sinedrio che li confinava in terra non benedetta, anche a Cagliari), saranno riabilitati un giorno anche i ragazzi respinti dall’organizzazione vescovile per far spazio agli impiegati dell’Amministrazione?

Nati giovannei e cresciuti montiniani, meno miti dei maestri ma non senza fantasia, noi pensiamo a quanto si scriverà del vescovo Miglio fra cento anni. Cento anni dopo gli altri cento del suo predecessore Rossi che condannava il tango. Tutto sommato meglio lo svarione del tango che non l’esclusione dei ragazzi dall’incontro con il papa. Ma certo non va bene che questo vescovo non sia andato a chiedere scusa a ciascuno di loro, prima di essersi dimesso dal suo ufficio.

Don Cannavera, auguri belli!

 

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