Renzi e la sinistra, di Ezio Mauro e Matteo Renzi
Il confronto su La Repubblica del 21 e 22 novembre 2014.
La domanda: PAROLE SBAGLIATE (Ezio Mauro)
Un conflitto sull’articolo 18 è comprensibile, ed era anche prevedibile. Il linguaggio con cui il presidente del Consiglio tratta la Cgil è invece molto meno comprensibile.
È vero che Susanna Camusso lo considera un personaggio dell’Ottocento, subalterno ai padroni, abusivo a sinistra. Ma il premier — mentre annuncia a parole rispetto per chi dissente — dileggia il sindacato, banalizza le ragioni della protesta, svaluta insieme con lo sciopero una storia legata alla conquista e alla difesa di diritti che tutelando i più deboli contribuiscono alla cifra complessiva della democrazia di cui tutti usufruiamo.
La domanda è sempre la stessa: che idea ha il segretario del Pd della sinistra che guida? Un partito che voglia parlare all’intera nazione deve ospitare culture diverse al suo interno e tocca al leader — mentre decide — garantire loro spazio e legittimità. Sapendo che prima o poi si voterà, e i suoi avversari non saranno Camusso e Landini, ma Berlusconi e Verdini. Quando se ne accorgerà?
La risposta: Ecco la mia sinistra: sta con i più deboli e non ha bisogno di esami del sangue
Il premier scrive a Repubblica: “Ho rivendicato l’appartenenza del Pd alla famiglia socialista europea. Per me parlano i miei comportamenti”
di MATTEO RENZI
22 novembre 2014
Caro Direttore, Repubblica mi chiama in causa personalmente. Mi chiede quale sia la nostra idea di sinistra che rivendico, ad esempio, quando parlo della riforma del lavoro. Come lei sa, non da ora, sono tra quelli che hanno favorito e accelerato la fine dell’era del trattino. Quando non si poteva pronunciare la parola sinistra senza premettere qualche prefisso per attenuarla, quasi a prendere le distanze. Ho sempre rivendicato, con fierezza ed orgoglio, l’appartenenza del Partito democratico alla sinistra, alla sua storia, la sua identità plurale, le sue culture, le sue radici. Per questo ho spinto al massimo perché il Pd, dopo anni e anni di dibattito, fosse collocato in Europa dove è adesso, dentro la famiglia socialista della quale oggi, grazie al risultato delle ultime elezioni, è il primo partito con oltre 11 milioni di voti. Questo per dire che nei comportamenti concreti, nelle scelte strategiche, il Pd sa da che parte stare.
Dalla parte dei più deboli, dalla parte della speranza e della fiducia in un futuro che va costruito insieme. Non credo sia il caso qui e ora di discutere di pantheon e di storie, ognuno ha i suoi riferimenti, le persone che ci hanno ispirato nella azione politica. Dico solo che nel Partito democratico hanno tutti cittadinanza alla pari, così come le tradizioni, le esperienze, le parole che ognuno di noi porta dentro questo progetto che è collettivo e anche personale perché riguarda nel profondo ognuno di noi, e non perché come vorrebbe chi ci vuole male c’è un uomo solo al comando. Quella del Pd è una sfida plurale, un progetto condiviso da milioni di persone, non la tigna di un individuo. Ed è per questo, però, che non possiamo permetterci di restare fermi a un passato glorioso, ma rivitalizzarlo ogni giorno cambiando, trovando soluzioni concrete ed efficaci a problemi che si trasformano e che riguardano da vicino la vita delle persone.
So che Repubblica non vuole farci un esame del sangue, come invece pretenderebbe qualcuno anche dalle parti del sindacato. Lo dico per rispondere alla premessa del vostro editoriale, di una mancanza di rispetto nei confronti di una storia e di una rappresentanza. Non è la mia intenzione, ho un profondo rispetto per il lavoro e per i lavoratori che il sindacato rappresenta. E non sono parole formali. Penso, tuttavia, che altrettanto rispetto sia da chiedere anche nei confronti di un governo che sta cambiando il mondo del lavoro per evitare che alibi e tabù tengano fuori dal mercato milioni di lavoratori solo perché non hanno contratto o sono precari. Penso che il modo più utile per difendere i diritti dei lavoratori sia quello di estenderli a chi ancora non ce li ha, di aprire le porte di uno spazio rimasto troppo chiuso per troppi anni. Altrimenti qualcuno ci deve spiegare perché con tutto l’articolo 18 abbiamo una disoccupazione a doppia cifra che cresce in questo paese.
Sono pronto sempre al confronto, da mesi giro l’Italia in lungo e largo, visitando aziende, stringendo le mani di chi lavora, parlando del futuro del paese in una competizione sempre più dura nel mondo. Non siamo noi, non è il governo, non è il Partito democratico a cercare lo scontro. Siamo noi, però, a porre il tema di un mondo che cambia, nel quale non possiamo più permetterci di non dare tutele alle donne che non hanno garanzie se aspettano un figlio. Un mondo nel quale la selva di contratti precari e precarizzanti deve essere disboscata, semplificata. Un mondo nel quale esista una rete di strumenti di welfare che sostenga chi perde il lavoro e lo metta in condizione di trovarne un altro.
Se entriamo nel merito del Jobs Act vediamo che non c’è riforma più di sinistra. L’altra sera, al PalaDozza di Bologna, nel cuore di quella Emilia rossa fatta di tradizione e pragmatismo, di storia e senso pratico, il passaggio più sentito di un intervento che ho fatto per sostenere Stefano Bonaccini come presidente di Regione è stato quello sul sindacato che non ha manifestato contro la Legge Fornero e oggi manifesta contro il Jobs Act. E avevo davanti una platea di militanti e dirigenti, molti dei quali vengono proprio dalla storia profonda della sinistra italiana. Allora, io mi faccio molte domande, mi interrogo e sento la responsabilità del cambiamenti che stiamo portando, che è autentica e non di facciata. Ma vorrei che anche il sindacato e più in generale il mondo della sinistra si chiedesse se non ci sia una grande opportunità da cogliere. Per questo penso che la battuta su Berlusconi e Verdini che fa l’editoriale di Repubblica sbagli indirizzo e destinatario. Il Pd ha chiara la differenza tra maggioranza e opposizione così come ha chiaro che le regole del gioco si prova a cambiarle assieme per poi tornare a dividersi su tutto il resto.
L’alternativa all’Italicum è lo status quo proporzionalistico. Che convince chi ha in mente un disegno neocentrista che fino a qualche mese fa era sul tavolo e che noi abbiamo sparecchiato. Mi viene rimproverato anche di scherzare coi gufi e coi soloni. Penso che un po’ di ironia, Direttore, possa aiutare tutti a mettere a fuoco meglio le nostre posizioni, non per banalizzarle, ma per metterle in prospettiva. Per noi la sinistra è storia e valori, certo, è Berlinguer e Mandela, Dossetti e Langer, La Pira e Kennedy, Calamandrei e Gandhi. Ma è soprattutto un futuro su cui lavorare insieme per risolvere i problemi delle persone, per dare orizzonte e dignità, per sentirsi parte e avere orgoglio di essere non solo di sinistra, ma italiani.
Il mondo in questi mesi è cambiato, l’Italia in questi mesi è cambiata; l’Italia delle Istituzioni, del lavoro, della pubblica amministrazione, della giustizia. Una libertà ingiusta, una libertà per pochi, è la ragione sociale della destra. Ma una giustizia illiberale, una giustizia cioè che pretenda di essere per tutti ma senza rispetto per la libertà dei singoli, è la prigione ideologica di una sinistra che ha una visione odiosa delle cose. Tocca a noi recuperare questo ritardo, rivoluzionando come democratici questo meraviglioso paese. Ci sono due modi per cambiare l’Italia. Farlo noi da sinistra. O farlo fare ai mercati, da fuori. Sostenere che le ricette siano le stesse cozza contro la realtà. In ciò sta tutta la nostra idea di sinistra. Parole che producono fatti. Perché il tempo delle parole, giuste o sbagliate, slegate dai fatti, è un tempo che abbiamo deciso di lasciarci alle spalle per sempre.