Il caso di don Mario Cugusi quattro anni dopo, di Gianfranco Murtas

(Questo importante articolo – recepito dal sito di Enrico Lobina – è stato da noi pubblicato ieri senza titolo nè foto. Per una serie di motivi ce ne siamo accorti solo stamane. Ce ne scusiamo con l’Autore e con i lettori).

Il corsivo che Giorgio Pisano ha pubblicato su L’Unione Sarda di oggi 17 novembre a proposito della sorte operativa – o chiamala pastorale – di don Mario Cugusi, da alcuni anni amministratore parrocchiale al SS. Salvatore di Serdiana, merita, a mio avviso, una ripresa per alcune considerazioni, di dritto e di rovescio, sulla vicenda passata e sull’attuale.

Naturalmente non ho titolo speciale per dirne meglio di altri, se non quello di conoscere abbastanza dettagliatamente tutto il trascorso ed averne documentatamente scritto in privato a varie istanze diocesane e vaticane – pontefice incluso –, ed in pubblico in articoli di stampa e sulla rete, avendone infine tratto conclusioni anche in un libro di trecento e passa pagine schedato nell’Opac. Valga questo più di tutto a darmi credito nella riflessione e, se si vuole, nella critica che coinvolge bene non solo l’arcivescovo che è passato, ma anche quello che è venuto, il quale a me sembra, non meno del predecessore, rispondere a quella fisionomia che papa Francesco ha chiamato talvolta dell’“impiegato del sacro”.

Don Cugusi è un talento, non unico e forse neppure raro, nel presbiterio cagliaritano, con spirito insieme evangelico ed ecclesiale (e aggiungerei: anche con resa, al netto di qualche punta caratteriale, evangelica ed ecclesiale). Egli ha fatto, lungo tre intensissimi decenni, tante cose preziose per la comunità di Sant’Eulalia, per il quartiere sociale della Marina di Cagliari, per il capoluogo nel suo complesso, anzi, riscattando dall’oblio pagine importanti della sua storia e donandole, con gli strumenti della archeologia e della museistica, alla cittadinanza tutta; così ha fatto – sul piano culturale e sociale – con il teatro, così ha fatto con le scuole di alfabetizzazione e con quelle di studi in rilancio di molti nostri giovani ed ex giovani, così ha fatto con l’oratorio interetnico, così ha fatto con le iniziative inclusive degli exracomunitari d’Africa e d’Asia in sosta non passiva nell’angiporto, così ha fatto con la prossimità religiosa agli islamici e – come ha ben ricordato Pisano – con l’ecumenismo interconfessionale ospitato nella fraternità del Santo Sepolcro, dove anche ha portato orchestre e polifoniche e la novena popolare sarda del Natale.

Non è stato per caso che, ad iniziativa di consiglieri Enrico Lobina e Guido Portoghese, la gran parte dei colleghi consiglieri di palazzo Bacaredda a lui abbiano offerto, due anni fa, un pubblico riconoscimento, nella grande aula dei dibattiti civici. (Merita al riguardo un appunto: si negò ripetutamente, al tempo, il modesto sindaco della città, che intendeva essere autorizzato dal passato arcivescovo, non mostrando così l’orgoglio cittadino che mosse invece l’Amministrazione fiorentina quando, a fronte delle fastidiose ed insistite ed opache opposizioni curiali, conferì il Fiorino d’oro a don Enzo Mazzi capofila dell’Isolotto ed erede ideale di don Milani. Quando si dice “comunisti di sagrestia”! e per paradosso pieno, quando chi così si pronuncia, deluso ed amareggiato, ama i comunisti ed ama le sagrestie).

Il torto fatto in apparenza a don Cugusi dall’arcivescovo Mani non fece vittima, in realtà, il parroco ma la comunità che egli serviva, stroncando di brutto il piano pastorale allora in svolgimento. Il parroco è storicamente e nel diritto un delegato del vescovo; nel vescovo si radica la comunità credente e il vescovo – portatore del cosiddetto carisma della unità fra i diversi – ama, servendola, la comunità credente donando ad ogni porzione d’essa, in un impianto territoriale, l’affiancamento paterno e fraterno di un presbitero idoneo. Secondo questo schema – che è uno schema appunto – don Cugusi non aveva, e non ha avuto, nulla da recriminare. Si trattava di applicare una norma elementare di funzionalità ecclesiale. Né certo Serdiana vale meno della Marina di Cagliari o delle case attorno alla cattedrale di Santa Maria.

il corto circuito che fu attivato nel 2010 è stato nell’arroganza non apostolica dell’arcivescovo del tempo, che qui si era da subito presentato come un feudatario autoreferenziale, come un dominus. Toscano e simpatico, a me è sempre stato simpatico, con le sue forzature sintattiche che incrociavano bene la grande virtù della sintesi, del messaggio da passare a chi ascoltava. Simpatico perfino negli eccessi: quando da qualche zona povera della città o dai paesi dell’hinterland una fidente madre di famiglia andava da lui a chiedere soccorso per un marito o un figlio disoccupato, essa usciva dal colloquio immancabilmente un po’ confusa ma contenta per avere appena sottoscritto, su suggerimento dell’episcopus,  un nuovo abbonamento al giornale diocesano, e magari anche un altro per un vicino da convertire. Ma don Mani comandava, non serviva, non amava, non condivideva, non partecipava. Almeno così è stato vissuto allora da molti, direi dalla larga maggioranza di quelli che in un modo o nell’altro hanno avuto a che fare con lui.

Intelligente, stratega. Tolse ai mercedari la gestione vera della missione papale a Cagliari, nell’autunno 2008, e la acquisì alla curia. Si vide cosa allora ne venne: un pagano tutto mascarato che arrivò con suo aereo di stato un’ora prima di Benedetto XVI, tenendo le telecamere di Raiuno fisse sull’apparecchio e un  telecronista impalato sulla domanda “uscirà o non uscirà?”. Perché l’evento poi era già diventato quello – la presenza a Cagliari del presidente del Consiglio in pausa da Arcore, mica del papa –, in vista delle elezioni che ci sarebbero state pochi mesi dopo, con i pagani di Forza Italia ad insertare nel motivo di Cristo Re e Virgo Maria quello sacrilego di Per Fortuna Che Silvio C’è. E poi tutto all’incasso alle elezioni, e un assessore tecnico di fiducia episcopale in una giunta devastante, sotto molti profili, gli interessi regionali (ne ha istruttoria anche la Corte dei conti, e per quanto ho potuto ad essa ho pure concorso).

Padrone della chiesa di Santa Maria: chi si ricorda la sufficienza con cui si rispose agli storici dell’arte e a quant’altri alzarono il ciglio, quando fu manomesso, con atto d’imperio, l’altare barocco assumendo che quello pisano e le nobili ragioni liturgiche conciliari esigevano quel rifacimento?

Le questioni sollevate nelle comunicazioni alla Santa Sede da pochi che firmarono a nome di molti, sono numerose e non le richiamo qui, a valanga dopo la costosa ristrutturazione (con denaro pubblico) del seminario diocesano divenuto college, e la deportazione dei chierici del seminario regionale (valendo quest’ultimo, insieme con la facoltà del Sacro Cuore, per i candidati al sacerdozio di serie B, perché provenienti dalle diocesi gregarie). La presidenza CES in capo all’arcivescovo Mani ha umiliato, da Cagliari, la Chiesa regionale e la Chiesa regionale s’è fatta umiliare, non per virtù però.

Dov’erano i vescovi sardi in quel tempo buio? Allora non si pubblicavano neppure i verbali della Conferenza Episcopale Sarda! E chi ha mai protestato? E quale vescovo, per obbligo di coscienza e di responsabilità verso la propria Chiesa locale, ha presentato le dimissioni per la ferita insanata ad essa inferta, per derivazione di quella inferta alla comunione interdiocesana circa le questioni del seminario regionale, o ha solidarizzato con la voce solitaria di don Efisio Spettu – nobile, nobilissima figura del presbiterio cagliaritano e sardo – che da rettore e poi ex rettore denunciava quelle abnormità tanto a Cagliari quanto a Roma?

E quale vescovo ha fatto partecipe il popolo della sua Chiesa, anzi la sua Chiesa, degli inciampi o dei ritardi nell’applicazione dei deliberati conciliari? Non certo, fra i molti, l’arcivescovo di Oristano – dotto e simpatico anche lui, ma pauroso di tutto – censore come censore erano i clericali occhiuti dell’Ottocento (quelli che seppellirono Rosmini), quando si trattò di informare, soltanto informare, di un convegno che s’era convocato a Cagliari nel decennale della chiusura conciliare. Convegno sostituto di quello che i vescovi stessi s’erano impegnati, negli stessi atti conciliari, di tenere per verificare lo stato attuativo delle delibere. E chi, con l’arcivescovo  di Oristano, si faceva allora più realista del re e censore, scambiando il giornale che dirigeva per un conformista bollettino d’episcopio invece che una tribuna larga di partecipazione? Lui è stato poi promosso, in cattedra il nuovo don Arrigo Miglio, a direttore dell’informazione ecclesiale regionale! E al convegno – si aggiunga anche questo –, presente l’arcivescovo Tiddia, presente padre Turtas, presente don Pinna, presente don Spettu, presente don Ledda, era assente la bella sigla delle ACLI raggiunta da una telefonata che imponeva la diserzione, ed ufficialmente era assente anche l’Azione Cattolica, pure essa minacciata o convinta (infine rappresentata soltanto a titolo personale da una pur valida dirigente). Quando capita che il laicato – eccezione per il MEIC – sia noiosamente senza testa o dignità!

Nella Chiesa diocesana di Cagliari, dove certo non mancano le eccellenze virtuose, manca la comunione che è categoria che sublima la semplice dimensione comunitaria. Così sono state le riunioni del clero di stanca piatta, in replay tutt’oggi (mi riferiscono preti di paese e preti di città). Informarsi per credere. Fra i presbiteri diocesani, anche per antica formazione – ma qui evidentemente il discorso si fa generale e di necessità generico – vige una sensibilità particolaristica, non comunionale; e ad essa si accompagna sovente una impropria, perfino risibile, autoproposizione leaderistica. Dal che viene, appunto, l’interesse venale a non disturbare per non essere disturbati. E se volano colpi ingiustificati, peggio per chi se li prende. L’interrogazione rivolta a Caino qui non vale.

Le notifiche, ripetute e motivate, documentate, alla Santa Sede sono valse a ridurre al minimo tecnico i tempi di proroga dell’episcopato attivo a Cagliari di don Giuseppe Mani e ad accelerare l’arrivo di don Arrigo Miglio. Che qui veniva col suo pastorale di legno e il buon nome della precedente missione iglesiente (e di quella a seguire in Ivrea: la patria del nostro cardinale Fietta!) e l’accompagnamento fedele del vescovo Bettazzi, amato a Cagliari (io lo interrogai a lungo, e con gusto e ammirazione, per la televisione, nel 1981, circa il suo servizio in Pax Christi).

Ma don Miglio (che riceve doni senza mai ringraziare)non è mai entrato nel cuore nostro, rivelandosi da subito diverso da quel che pensavamo fosse e da quel di cui avevamo bisogno. Andò, quella volta che il suo vicario generale, non lui, risolse il caso Cugusi, a Serdiana. Cinquecento persone provenienti da Cagliari, da Siurgus, da Monserrato, da Senorbì, da Guasila… e naturalmente dalle case di Serdiana s’erano date convegno nella chiesa del SS. Salvatore per accogliere il nuovo parroco. Presente anche un ennuagenario vescovo conciliare francese e diversi preti di varie provenienze solidali. Parlò, don Arrigo, dieci minuti e se ne andò. Tutti pensammo si fosse recato ad insediare qualche altro parroco in territorio lontano della diocesi. E invece lo vedemmo, al telegiornale dell’ora di cena, seduto nella tribuna VIP interdetta da prefettura e magistratura, a Is Arenas, a gustarsi (?) Cagliari-Catania. Un vescovo che lascia cinquecento poveri cristiani per andare allo stadio e allo stadio interdetto, interdetto ancor più dopo l’abuso provocatore del presidente Cellino che una o due settimane prima era costata alla squadra del Cagliari la punizione dello 0-3 a vantaggio della Roma…

E poi capita che un siglante collaboratore del giornale diocesano pubblichi la foto dell’arcivescovo, con uno o due preti nel deserto degli altri posti a sedere (dico quei preti che, presumibilmente nostri compaesani, e conoscitori di uomini e cose, ben avrebbero dovuto evitargli la figuraccia) e stenda un bell’articolo a corredo in cui difende il presidente del Cagliari… perché lui fa, a differenza degli altri che criticano soltanto…  Scrive, il siglante collaboratore, certificando che Cellino farà intonare l’Ave Maria nello stadio di Quartu. Cellino, quello della poltroncina 16 ½  onde saltare il 17, quello della doppia mortadella propiziatrice dei gol o dell’amico che gli serra il fianco per la certezza della magia, quello della bandana e dei violacei sul cuore e sopra il cervello, lui che tratta l’Ave Maria come una pratica scaramantica, mentre il giornale diocesano si mostra giulivo ed issa il proposito come un virtuoso grido di fede e di riscatto… E quando un occasionale lettore coglie l’assurdo e ne fa segnale al direttore, viene censurato; e quando lui stesso ne gira allora al vescovo – quello del pastorale di legno –, informandolo della censura nel giornale della comunità diocesana e, ovviamente, degli argomenti sostenuti e tacitati, anch’egli, il vescovo successore degli apostoli, fa silenzio. Zitto come don Ignazio a Oristano, zitto come a dire allora al suo predecessore Pier Giuliano Tiddia, segretario generale del Concilio Plenario Sardo, che la sua era stata fatica sprecata, inutile. Bravo don Ignazio, bravo don Arrigo.

Poi il presidente Cellino lo abbiamo visto nel primo banco della cattedrale, il giorno in cui il papa è venuto a salutare i carcerati e i poveri assistiti dalla Caritas. Mi dicono che Cellino avesse prestato i tubi Innocenti per il palco di via Roma e questo gli era valso, per singolare permuta, un biglietto d’onore in platea. Senza onore e senza biglietto invece diversi ragazzi del carcere minorile, cassati dai primi elenchi per obiettiva insufficienza logistica. I posti in cattedrale quel pomeriggio erano occupati in buona misura da addetti in servizio o in quiescenza dell’amministrazione penitenziaria. Come se il papa avesse cambiato idea, parendogli più significativo incontrare gli impiegati prima e più che i detenuti di Buoncammino o di Quartucciu. Qualche chiarimento è stato chiesto a chi s’era occupato dell’organizzazione. Silenzio. Si parla di certi preti come in corsa permanente per una promozione, nella logica degli “impiegati del sacro”. Gli episcopati atei, quelli di chi non ha battuto ciglio quando a Welby è stato negato il funerale religioso richiesto dalla vedova e dalla madre – perché Ruini il vicario papale s’era arrampicato al posto di Dio stendendo e gridando lui la sentenza – e magari si è spellato le mani alla beatificazione, pochi anni prima, del papa-re che aveva applicato la ghigliottina per vent’anni ancora dopo averla motu proprio reintrodotta, superata la sbornia umanitaria di Mazzini che invece l’aveva abolita nella Repubblica Romana del 1849… gli episcopati atei sono sempre appetibili, anche in Sardegna.

La storia è sempre contemporanea si dice, e tutto si collega. C’è in proposito una bella pagina che sempre consiglio, di Benedetto Croce, contenuta nel suo “Teoria e storia della storiografia”. Niente deve dunque sembrare abusivo in queste riflessioni, all’apparenza sparse e invece tutte coese attorno a un sentimento di sconcerto per la capacità dei vescovi sbagliati di alimentare l’ateismo.  E il caso Cugusi, risollevato ora da Giorgio Pisano, si deve riportare allo stato colloso delle relazioni e delle responsabilità in ambito ecclesiale, da noi, dove dietro i grandi proclami – come quelli di oggi stesso, di solidarietà per i lavoratori privati della loro fonte primaria di sostentamento – si celano comportamenti talvolta caporaleschi altre volte omertosi. Come omertosi – lo dico con tutta schiettezza – sono stati quelli dei vertici vaticani che, di lato alle autorità di congregazione che hanno affrettato, per forza di cose, l’avvicendamento nelle funzioni apicali diocesane nella primavera 2012, hanno respinto i ricorsi fondati, fondatissimi, di don Cugusi. Ora le eminenze reverendissime che pur dovevano imitare in giustizia don Gesù, povero prete giudeo – dico i vari Piacenza, i vari Burke – stanno saltando dalla poltrona una dopo l’altra, impallinate dalla cara mitezza di papa Francesco, che non sopporta le zitelle di comando e meno ancora i funzionari del sacro.

Dal male può nascere il bene. Don Cugusi, amministratore parrocchiale – non ancora parroco – sta a Serdiana, e mi pare che per lui sia stata, al dunque, una bella promozione. Perché Serdiana è la città della potenza ancora inespressa, e lui saprà farla esprimere, tanto più crescendo dei ragazzini di valore prima mai curati. Serdiana è la città di due arcivescovi – Agostino Saba, il grandissimo dottore dell’Ambrosiana, l’assistente del cardinale Roncalli, il redattore del regolamento conciliare, lo storico prolifico e profondo , e Paolo Carta, il vescovo dantista e generoso come pochi, sepolti l’uno di fronte all’altro nella parrocchiale in cui erano stati battezzati – che in vario modo hanno onorato la Chiesa diocesana di Cagliari, quella sassarese – come prima quella calabrese e pugliese – e quella universale. Sarebbe bello che fra un anno, quando sarà inaugurato il nuovo teatro oratoriale intitolato all’indimenticato don Paolo, si possa dire che a Serdiana vedrà la luce anche un centro di studi storici della Chiesa sarda, meglio affratellando il Cagliaritano ed il Sassarese.

Sarebbe bello poter contare sulla feconda collaborazione – per competenza scientifica –, in una tale impresa, di don Tonino Cabizzosu, con il quale mi divisi le parti quando si trattò di onorare, nel seminario minore di Cagliari, il primo decennale della scomparsa dolorosa di don Paolo arcivescovo.  E quanta competenza potrebbe sostenerci, se don Cabizzosu – giubilato con i suoi studi che sono stati fra le cose migliori nel mezzo delle produzioni diocesane e regionali di questi anni – accettasse di tornare, o meglio, di accompagnare le permanenze cagliaritane in facoltà teologica con questa speciale, nuova applicazione di servizio umile e prezioso.

C’era stato, meno di dieci anni fa, quel libro bello – bello anche sul piano grafico – di don Cugusi sulle carte dell’archivio storico della congregazione del SS. Sacramento: la società religiosa che aveva animato un fecondo rapporto biunivoco con la parrocchia, lungo tre secoli e oltre. La presentazione di quel libro, che condivisi a suo tempo con Paolo Fadda, poteva dare l’occasione per ripensare in positivo una relazione nata per la Chiesa e per la città che s’incontravano nella famiglia territoriale di Sant’Eulalia. In quei termini, lontani da polemiche, si svilupparono le riflessioni di studio e si sviluppò anche la recensione passata a L’Unione Sarda, ma cassata dall’illuminato direttore Figus – illuminato per dire che la sua è stata la più conformista direzione del giornale, degna degli alalà di Forza Nazionale – per qualche riferimento alle negative interposizioni dell’arcivescovo Mani. Autorità alla quale non si poteva portare critica. Si disse, ma non ho elementi per confermare che così fosse veramente, per interessamenti svolti a favore della pubblicazione di Avvenire nel centro stampa cittadino. Ma il vangelo? ma la libertà di stampa? ma la ragione e la responsabilità?

Conclusione. Non concordo con la sollecitazione rivolta da Pisano a don Arrigo. Don Cugusi ha molto da fare, e molto da fare bene, a Serdiana. Cagliari impari a fare Cagliari mettendo in crisi le sue mediocrità, rovesciando da cima a fondo la cattedrale. Cominci chi è in alto ed ha maggiori responsabilità. Nella virtù troverà più seguaci di quelli che immagina. Reimpugni il suo pastorale di legno e ci creda davvero, in quel pastorale di legno. Ed entri nel cuore della gente: la cosa è meno difficile di quel che sembri. Deve soltanto cominciare. Se vuole utilizzarmi sono a disposizione con gli altri anticlericali che amano Manzoni e con lui (pur scomunicato latae sententiae) credono alla Provvidenza nella storia degli uomini.

 

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