Il dramma del lavoro che spacca l’identità della sinistra di EZIO MAURO
L’editoriale è stato pubblicato su La Repubblica del 05 novembre 2014
Dice il presidente del Consiglio che non bisogna usare il tema del lavoro per spaccare l’Italia. In realtà più che un tema è un dramma, con la disoccupazione al 12,6 per cento, e un ragazzo - quasi - su due che non ha un posto, nemmeno precario: l’Italia è in realtà già spaccata, e nel modo peggiore, tra chi è garantito e chi no. Dunque non possiamo permetterci strumentalizzazioni. Ma nemmeno ideologizzazioni. E invece ci sono state, in abbondanza. Anzi, per settimane abbiamo assistito ad una dichiarata trasformazione dell’articolo 18 in tabù, totem e simbolo per entrambe le parti in causa, governo e sindacati. Finché l’ideologia ha prevalso sulla sostanza. E nello scontro tra le opposte ideologie ha vinto quella dominante: perché anche i mercati e la Ue ne hanno una, capace di resistere persino all’evidenza della crisi che dovrebbe sconfessarla.
Bisogna dunque essere onesti, e dire che l’occasione ideologica è stata colta al volo da Renzi e dalla sinistra sindacale per un’evidente ragione identitaria, con obiettivi contrapposti. Per il Premier, un blairismo a portata di mano (in un Paese che però ha avuto vent’anni di Berlusconi, non di Thatcher: populismo demagogico invece di estremismo liberista), e soprattutto una carta da giocare sull’altare del rigore europeo, per provare a guadagnare credito da convertire in flessibilità per la crescita. Per la Cgil un plusvalore politico immediato, che richiama la tradizione, recupera la storia, costituisce l’identità, crea automaticamente un campo.
E infatti la minoranza interna del Pd si è immediatamente iscritta a quel campo, recuperando un significato generale per la sua battaglia particolare di resistenza al potere renziano.
Già qui, ci sarebbe da riflettere sull’importanza culturale della questione-lavoro, se nel 2014 è ancora capace di attribuire soggettività e dignità politica, di creare una piattaforma strategica, di costituire un perimetro identitario. Altro che Novecento, altro che post-fordismo, altro che stella morta. C’è un’evidente sostituzione tecnologica in atto con il capitale che tenta di farsi direttamente lavoro, c’è una lunga generazione che è diventata adulta restando precaria, c’è una nuova fascia di espulsi cinquantenni che perdendo il posto rischiano di perdere anche la fiducia nella democrazia materiale, sospettata in questi anni di crisi di far valere i suoi buoni principi soltanto per i garantiti. Ma la questione resta centrale per qualsiasi Paese, per qualunque governo: e per ogni sinistra contemporanea, di vecchio o nuovo conio.
Alla questione del lavoro si legano infatti i valori a cui la sinistra non può fare a meno di far riferimento, anche nel nuovo secolo, le opportunità, i bisogni, la nuovissima necessità - come dice il Premier francese Valls - di “orientare la modernità per accelerare l’emancipazione degli individui”. Infine e come sempre l’uguaglianza, questa volta in forma difensiva. Perché non c’è dubbio che le disuguaglianze stiano diventando la cifra dell’epoca. E se in passato la crescita e l’ascensore sociale di una società in espansione “scusavano” le disuguaglianze, oggi la crisi del lavoro le trasforma in vere e proprie esclusioni, che una democrazia molto semplicemente non può permettersi, perché non le contempla.
Questo significa che Renzi doveva fermarsi sull’articolo 18? No, ho già spiegato le ragioni del suo calcolo europeo, di cui non conosciamo ancora l’esito. Ma c’era e c’è ancora una modalità diversa di governare la questione, cioè una cultura e una consapevolezza che sono il segno distintivo di un leader di sinistra, e a mio giudizio non tolgono efficacia all’azione di cambiamento, anzi l’aumentano.
Il Premier poteva infatti spiegare al Pd che tocca alla sinistra di governo affrontare la riforma del lavoro perché altrimenti lo farà la crisi che non è un soggetto neutro, ma trasformando in politica il dogma della necessità mette i Paesi con le spalle al muro, tagliando a danno dei più deboli e non riformando nell’interesse generale. Nello stesso tempo poteva richiamare davanti ai suoi ministri il rischio che la crisi comprima soltanto i diritti del lavoro, come se fossero - unici tra tutti - variabili dipendenti, diritti nani, pretendendo quindi un’attenzione particolare alle tutele degli ammortizzatori sociali.
Poi poteva dire agli imprenditori che non ci sono pasti gratis neppure per loro, e che dopo la modifica dell’articolo 18 e il taglio dell’Irap dovevano fare la loro parte contribuendo a mantenere i costi della democrazia, quindi del welfare, di quella qualità complessiva del sistema sociale di cui tutti ci gioviamo, qualunque sia il nostro ruolo. Quindi doveva avvertire tutti i soggetti sociali del rischio che si rompa il vincolo tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, con i primi (abitanti degli spazi sovranazionali dove si muove il vero potere dei flussi informatici e finanziari) che non sentono più alcun legame di comune responsabilità con i secondi, segregati nello Stato-nazione che non ha più alcun potere di intervento e di controllo sulla crisi, salvo subirne tutti i contraccolpi. E infine, doveva avvertire il sistema politico e istituzionale, e addirittura l’Europa, del pericolo che attraverso il lavoro salti il nucleo stesso della civiltà occidentale, ciò che ha tenuto insieme per decenni capitalismo, democrazia rappresentativa e welfare state.
Di questo si tratta: e capisco che sia difficile comprimere la questione in un tweet. Ma in politica non tutto è istantaneo e non tutto è istintivo, se non vuole diventare tutto isterico, e alla fine instabile. Renzi è percepito come un politico capace di cambiare, e la sua spinta al cambiamento ha tagliato le gambe al populismo della vecchia destra berlusconiana e al furore anti-istituzionale della nuova destra grillina. Dunque il processo di riforma può essere utile al Paese e persino ad un sistema politico screditato ed estenuato, di cui il Pd oggi è nonostante tutto la spina dorsale. Ma qui nasce una seconda domanda: per Renzi il Pd è uno strumento opportunistico attraverso cui conquistare il potere o è una scelta culturale, politica, identitaria di responsabilità?
Io credo sia una scelta di convinzione, come dimostra anche il fatto che Renzi è il primo segretario democratico che ha portato il Pd nel Partito Socialista Europeo. Ma questa scelta comporta alcune conseguenze che possono sembrare obblighi, e a mio parere sono invece opportunità. Non mi spaventa l’idea di fare del Pd un partito-nazione, se questo significa non certo cambiare nome, natura e impianto, ma saper rappresentare l’interesse generale chiedendo un consenso maggioritario, nella scia del country-party contrapposto al court-party chiuso in sé. La sinistra italiana ha non solo il diritto, ma il dovere (come in altre democrazie) di parlare all’intero Paese. Ma a patto che lo faccia in nome e per conto della sua identità: questo è il punto. Un’identità certo risolta, compiuta, modernizzata, ma che si può testimoniare a testa alta senza camuffarla o renderla ambigua. Per intenderci: nel New Labour di Tony Blair c’è certo il new, inseguito da Renzi, ma c’è pur sempre il labour, che il Premier non vede.
Diventa dunque singolare che nella sua spinta al cambiamento il segretario del Pd non consigli al Premier di usare anche l’altra metà del partito, quella di non stretta osservanza renziana, e il suo deposito di valori, di passioni, di storia e di tradizione. Diventa incomprensibile che a questa metà regali addirittura la bandiera del lavoro, con tutti i riflessi - anche condizionati - che comporta, compresa la costituzione immediata di un’identità storico-culturale, dunque politica. Da anni il Pd attendeva un’occasione di allargamento della sua base elettorale, e se la leadership di Renzi la realizza (come testimonia la ricerca di Ilvo Diamanti sui ceti sociali e le professioni), questa è un’occasione per il partito, per la sinistra, per il Paese. A condizione di non cambiare la propria natura. Io credo, in sostanza, che la sinistra vada modernizzata in senso europeo, occidentale, riformista, intendendo con questo la capacità di assumersi le responsabilità che la sfida di governo comporta, compresi i compromessi, compresi gli strappi. Ma credo che la sinistra debba ricordarsi di sé cambiando, non smarrirsi. Anzi, più è cosciente di se stessa, e insieme della necessità di cambiare, più può spiegare al Paese che gli strumenti politici che ha nello zaino sono i più adatti a gestire questa lunga fase di crisi: non i manganelli di Alfano nei cortei degli operai che hanno perso il lavoro.
La sfida è tutta qui, e non è poco. D’altra parte lo ricordava proprio lunedì una vecchia lettera di un antifascista liberale come Franco Antonicelli riproposta da Repubblica: “Ci vuole molto, molto amore per distruggere a fondo, molto e tenace orgoglio del passato per rinnovarsi davvero”.