La vera storia di questo sinodo. Regista, esecutori, aiuti, di Sandro Magister
Nuovi paradigmi su divorzio e omosessualità sono ormai di casa ai vertici della Chiesa. Niente è stato deciso, ma papa Francesco è paziente. Un storico americano confuta le tesi de “La Civiltà Cattolica”.
ROMA, 17 ottobre 2014 – “È tornato a soffiare lo spirito del Concilio”, ha detto il cardinale filippino Luis Antonio G. Tagle, stella emergente nella gerarchia mondiale oltre che storico del Vaticano II. Ed è vero. Nel sinodo che sta per concludersi ci sono molti elementi in comune con ciò che accadde in quel grande evento.
La similitudine più appariscente è lo stacco tra il sinodo reale e il sinodo virtuale veicolato dai media.
Ma c’è una somiglianza ancor più sostanziale. Sia nel Concilio Vaticano II sia in questo sinodo i cambi di paradigma sono il prodotto di una accurata regia. Un protagonista del Vaticano II come don Giuseppe Dossetti – abilissimo stratega dei quattro cardinali moderatori che erano al comando della macchina conciliare – lo rivendicò con fierezza. Disse di “aver capovolto le sorti del Concilio” grazie alla propria capacità di pilotare l’assemblea, appresa nella sua precedente esperienza politica di leader del maggior partito italiano.
Anche in questo sinodo è avvenuto così. Sia le aperture alla comunione ai divorziati risposati – e quindi l’ammissione da parte della Chiesa delle seconde nozze – sia l’impressionante cambio di paradigma in tema di omosessualità infilato nella “Relatio post disceptationem” non sarebbero stati possibili senza una serie di passi abilmente calcolati da chi aveva e ha il controllo delle procedure.
Per capirlo, basta ripercorrere le tappe che hanno portato a questo risultato, anche se il provvisorio finale del sinodo – come si vedrà – non è stato pari alle aspettative dei suoi registi.
Il primo atto ha per protagonista papa Francesco in persona. Il 28 luglio 2013, nella conferenza stampa sull’aereo che lo riporta a Roma dopo il suo viaggio in Brasile, egli lancia due segnali che sull’opinione pubblica hanno un impatto fortissimo e duraturo.
Il primo sul trattamento degli omosessuali:
“Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarlo?”.
Il secondo sull’ammissione delle seconde nozze:
“Una parentesi: gli ortodossi seguono la teologia dell’economia, come la chiamano, e danno una seconda possibilità [di matrimonio], lo permettono. Credo che questo problema – chiudo la parentesi – si debba studiare nella cornice della pastorale matrimoniale”.
Segue nell’ottobre del 2013 la convocazione di un sinodo sulla famiglia, primo di una serie di due sinodi sullo stesso tema nell’arco di un anno, con decisioni rimandate a dopo il secondo. A segretario generale di questa sorta di sinodo permanente e prolungato il papa nomina un neocardinale con nessuna esperienza in proposito, ma a lui legatissimo, Lorenzo Baldisseri. Al quale affianca per l’occasione, come segretario speciale, il vescovo e teologo Bruno Forte, già esponente di spicco della linea teologica e pastorale che aveva avuto il suo faro nel cardinale gesuita Carlo Maria Martini e i suoi maggiori avversari prima in Giovanni Paolo II e poi in Benedetto XVI: una linea dichiaratamente aperta a un cambio dell’insegnamento della Chiesa in campo sessuale.
All’indizione del sinodo si associa il lancio di un questionario a raggio mondiale con domande specifiche sulle questioni più controverse, comprese la comunione ai risposati e le unioni omosessuali.
Anche grazie a questo questionario – cui seguirà l’intenzionale pubblicazione delle risposte da parte di alcuni episcopati di lingua tedesca – si ingenera nell’opinione pubblica l’idea che si tratti di questioni da ritenersi già “aperte” non solo in teoria ma anche in pratica.
Dà prova di questa fuga in avanti, ad esempio, l’arcidiocesi di Friburgo, in Germania, retta dal presidente della conferenza episcopale tedesca Robert Zollitsch, che in un documento di un suo ufficio pastorale incoraggia l’accesso alla comunione dei divorziati risposati sulla semplice base di “una decisione di coscienza”.
Da Roma il prefetto della congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Gerhard L. Müller, reagisce ripubblicando il 23 ottobre 2013 su “L’Osservatore Romano” una sua nota già uscita quattro mesi prima in Germania che riconferma e spiega il divieto della comunione.
A nulla vale però il suo richiamo affinché l’arcidiocesi di Friburgo ritiri quel documento. Anzi, sia il cardinale tedesco Reinhard Marx, sia con parole più grossolane il cardinale honduregno Óscar Rodríguez Maradiaga criticano Müller per la sua “pretesa” di troncare la discussione in materia. Sia Marx che Maradiaga fanno parte del consiglio degli otto cardinali chiamati da papa Francesco ad assisterlo nel governo della Chiesa universale. Il papa non interviene a sostegno di Müller.
Il 20 e il 21 febbraio 2014 i cardinali si riuniscono a Roma in concistoro. Papa Francesco chiede loro di dibattere sulla famiglia e delega a tenere la relazione introduttiva il cardinale Walter Kasper, già battagliero sostenitore nei primi anni Novanta di un superamento dei divieto della comunione ai risposati, ma sconfitto, all’epoca, da Giovanni Paolo II e da Joseph Ratzinger.
Nel concistoro, che è a porte chiuse, Kasper rilancia in pieno quelle sue tesi. Numerosi cardinali gli si oppongono, ma Francesco lo gratifica di altissimi elogi. In seguito, Kasper dirà di aver “concordato” col papa le sue proposte.
Inoltre, Kasper ha dal papa il privilegio di rompere il segreto sulle cose da lui dette nel concistoro, a differenza di tutti gli altri cardinali. Quando il 1 marzo la sua relazione esce a sorpresa sul quotidiano italiano “Il Foglio”, la stessa relazione è infatti già in corso di stampa presso l’editrice Queriniana. L’eco della pubblicazione è immensa.
All’inizio della primavera, per bilanciare l’impatto delle proposte di Kasper, la congregazione per la dottrina della fede programma la pubblicazione su “L’Osservatore Romano” di un intervento di segno opposto di un cardinale di primo piano. Ma contro la pubblicazione di questo testo scatta il veto del papa.
Le tesi di Kasper sono comunque oggetto di severe e argomentate critiche da parte di un buon numero di cardinali, che intervengono a più riprese su diversi organi di stampa. Alla vigilia del sinodo, cinque di questi cardinali ripubblicano in un libro i loro interventi precedenti, col corredo di saggi di altri studiosi e di un alto dirigente di curia, gesuita, arcivescovo, esperto della prassi matrimoniale delle Chiese orientali. Kasper, con vasto consenso nei media, deplora la pubblicazione del libro come un affronto mirato a colpire il papa.
Il 5 ottobre si apre il sinodo. Contrariamente al passato, gli interventi in aula non sono resi pubblici. Il cardinale Müller protesta contro questa censura. Ma invano. Una prova in più, dice, che “non faccio parte della regia”.
Compongono la centrale operativa del sinodo i segretari generale e speciale, Baldisseri e Forte. Ma ad essi il papa affianca, scelti da lui personalmente, coloro che si occuperanno della stesura del messaggio e della “Relatio” finali, tutti appartenenti al partito del cambiamento, con alla testa il suo fidato ghostwriter Víctor Manuel Fernández, arcivescovo e rettore dell’Università Cattolica di Buenos Aires.
Che questa sia la vera cabina di regia del sinodo diventa clamorosamente evidente lunedì 13 ottobre, quando davanti a duecento giornalisti di tutto il mondo il cardinale delegato che figura come l’autore formale della “Relatio post disceptationem”, l’ungherese Péter Erdõ, interrogato sui paragrafi riguardanti l’omosessualità, rifiuta di rispondere e cede la parola a Forte dicendo: “Quello che ha redatto il brano deve sapere lui cosa dire”.
Alla richiesta di chiarire se i paragrafi sull’omosessualità possano essere interpretati come un cambio radicale nell’insegnamento della Chiesa in materia, ancora il cardinale Erdõ risponde: “Certamente!”, marcando anche qui il suo disaccordo.
In effetti questi paragrafi riflettono non un orientamento espresso in aula da un consistente numero di padri – come ci si aspetta di leggere in una “Relatio” – ma le cose dette da non più di tre individui su quasi duecento. Uno dei tre è il gesuita Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”, nominato membro del sinodo personalmente da papa Francesco.
Martedì 14 ottobre, in conferenza stampa, il cardinale sudafricano Wilfrid Napier denuncia con parole taglienti l’effetto della prevaricazione operata da Forte con l’inserire nella “Relatio” quegli esplosivi paragrafi sull’omosessualità. Essi, dice, hanno messo la Chiesa in una posizione “irredeemable”, senza vie d’uscita. Perché ormai “il messaggio è partito: questo è ciò che dice il sinodo, questo è ciò che dice la Chiesa. A questo punto non c’è correzione che tenga, tutto quello che possiamo fare è solo tentare di limitare i danni”.
In realtà, nei dieci circoli linguistici in cui i padri sinodali proseguono la discussione, la “Relatio” va incontro a un massacro. A cominciare dal suo linguaggio “touffu, filandreux, excessivement verbeux et donc ennuyeux”, come denuncia impietoso il relatore ufficiale del gruppo “Gallicus B” di lingua francese, che pur comprende due campioni di tale linguaggio – e dei suoi contenuti altrettanto vaghi ed equivoci – come i cardinali Christoph Schönborn e Godfried Danneels.
Ripresi giovedì 16 ottobre i lavori in aula, il segretario generale Baldisseri, con a fianco il papa, dà l’avviso che i rapporti dei dieci gruppi non saranno resi pubblici. Esplode la protesta. Il cardinale australiano George Pell, fisico e temperamento da giocatore di rugby, è il più intransigente nell’esigere la pubblicazione dei testi. Anche il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin si associa. Baldisseri cede. Lo stesso giorno, papa Francesco si vede costretto a integrare il pool incaricato di scrivere la relazione finale, immettendovi l’arcivescovo di Melbourne Denis J. Hart e soprattutto il combattivo cardinale sudafricano Napier.
Il quale, però, aveva visto giusto. Perché qualunque sia lo sbocco di questo sinodo programmaticamente privo di una conclusione, l’effetto voluto dai suoi registi è in buona misura raggiunto.
Sull’omosessualità come sul divorzio e le seconde nozze, infatti, il nuovo verbo riformatore comunque immesso nel circuito mondiale dei media vale più del favore effettivamente raccolto tra i padri sinodali dalle proposte di Kasper o di Spadaro.
La partita potrà durare a lungo. Ma papa Francesco è paziente. Nella “Evangelii gaudium” ha scritto che “il tempo è superiore allo spazio”.
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Nel pilotare il sinodo verso l’ammissione alla comunione dei divorziati risposati si è mostrata particolarmente intraprendente “La Civiltà Cattolica”, con la pubblicazione di un articolo secondo cui già il Concilio di Trento avrebbe aperto un varco in questa direzione:
> Seconde nozze a Venezia per “La Civiltà Cattolica”
“La Civiltà Cattolica” è diretta dal gesuita Antonio Spadaro ed è ogni volta stampata con il previo esame e l’approvazione delle massime autorità vaticane, in questo caso è facile immaginare con il personale “placet” del papa, con cui padre Spadaro intrattiene un rapporto strettissimo e confidenziale.
Ma quanto è fondata, storicamente, la tesi che fa del Concilio di Trento un antesignano delle “aperture” del pontificato di Jorge Mario Bergoglio in materia di divorzio?
Ecco qui di seguito una confutazione dell’articolo de “La Civiltà Cattolica”. L’autore è professore di teologia morale nel St. John Vianney Theological Seminar di Denver, Stati Uniti, e ha studiato in profondità gli atti del Concilio di Trento in materia di matrimonio.
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DAMNATIO MEMORIÆ ?
di E. Christian Brugger
l padre gesuita Giancarlo Pani, docente di storia del cristianesimo presso l’Università di Roma “La Sapienza”, ha recentemente pubblicato un saggio su “La Civiltà Cattolica” del titolo “Matrimonio e ‘seconde nozze’ al Concilio di Trento”. In essa egli difende la pratica matrimoniale greca di “oikonomia” secondo la quale i matrimoni falliti possono essere sciolti e i coniugi hanno il permesso di risposarsi, o più spesso avere i loro “nuovi matrimoni dichiarati validi” dalla Chiesa “dopo un periodo di penitenza”. Egli si augura palesemente che questa “tradizione tollerante” possa fare strada anche nella Chiesa cattolica.
A conforto di tale aspirazione, egli rivendica nientemeno che l’autorità del Concilio di Trento, che ritiene abbia implicitamente sancito la pratica greca del divorzio nei suoi “canones de sacramento matrimonii”.
La sua tesi ha due difetti. Il primo e più serio qui semplicemente lo accenno. Nel suo saggio, egli non solo assume ma addirittura afferma più volte che questa forma di divorzio e di nuovo matrimonio non è in conflitto con la dottrina dell’indissolubilità, senza fornire nessun argomento a sostegno. L’affermazione è stata confutata da Germain Grisez, John Finnis e William E. May vent’anni fa nella loro risposta critica ai vescovi tedeschi Walter Kasper, Karl Lehmann e Oskar Saier, che avevano proposto una soluzione per permettere ai cattolici divorziati e risposati in Germania di accedere all’eucaristia.
Il secondo problema riguarda l’interpretazione di Pani del canone 7 di Trento sull’indissolubilità. Egli segue la fortunata interpretazione del gesuita fiammingo Piet Fransen (1913-1983), la cui ricostruzione, anche se ampiamente accolta, è gravemente difettosa (1). L’articolo di Pani riassume abbastanza gli eventi dell’agosto del 1563, per cui non è necessario ripeterli qui. Ma c’e una storia più ampia che esige delle osservazioni.
Anche se la Chiesa ortodossa orientale – scrive Pani – “ha affermato e riconosciuto rigorosamente l’indissolubilità del matrimonio”, tuttavia ha consentito il divorzio e le seconde nozze in alcuni casi. I padri e i teologi a Trento sapevano dell’antico “ritus” (costume) dell’Oriente e l’hanno rispettato. Molti padri conciliari avevano dubbi circa la “clausola d’eccezione” nel Vangelo di Matteo (“tranne nei casi di porneia”). Essi dubitavano che la rivelazione divina escludesse assolutamente un nuovo matrimonio in caso di adulterio. Dato il dubbio, decisero di “parlare chiaramente sulla indissolubilità del matrimonio, ma anche di dire che tale dottrina non può essere considerata come una parte costitutiva della [divina] rivelazione”. I loro dubbi hanno raggiunto il punto culminante nell’agosto del 1563 con il famoso intervento della delegazione veneziana, che ha esortato i padri conciliari, per il bene delle pratiche di divorzio dei Greci in terre cattoliche, a non condannare direttamente il divorzio e il nuovo matrimonio in caso di adulterio. La petizione ha avuto successo e alla fine il Concilio ha approvato una formulazione indiretta del canone 7. Questo ovviamente perché la grande maggioranza dei padri conciliari hanno preferito lasciare aperta la questione della legittimità delle pratiche greche di divorzio.
Pani lamenta che questa “pagina” nell’insegnamento di Trento sul matrimonio “sembra essere stata dimenticata dalla storia”. Ma come può essere stata dimenticata quando Walter Kasper (2), Charles Curran (3), Michael Lawler (4), Kenneth Himes (5), James Coriden (6), Theodore Mackin S.J. (7), Victor J. Pospishil (8), Francis A. Sullivan SJ (9), Karl Lehmann (10), e Piet Fransen S.J. (solo per citarne alcuni) l’hanno ripetuta continuamente nel corso degli ultimi cinquant’anni? In realtà questa ricostruzione risale al XVII secolo. Il teologo antiromano Paolo Sarpi e il giansenista Jean Launoy (12) hanno sostenuto che il Concilio intendeva lasciare aperta la questione se a volte fosse legittimo risposarsi dopo il divorzio (13).
Pani incolpa i segretari e i cronisti del Concilio per il loro “silenzio eloquente” su questa storia. Ma un’interpretazione alternativa del loro silenzio mi sembra più ovvia e corretta: la ricostruzione di Pani è una creazione postconciliare. Questo non vuol dire che gli eventi che egli cita, in particolare l’intervento di Venezia, non abbiano avuto luogo. Certo che hanno avuto luogo. Ma non vi è alcuna base storica per la sua affermazione secondo cui il Concilio – e con questo intendo la stragrande maggioranza dei vescovi votanti – avrebbe letto il canone 7 come se lasciasse curi le pratiche di divorzio dei Greci. Molti studiosi prima della metà del XX secolo hanno sostenuto che Trento intendeva definire l’assoluta indissolubilità [del matrimonio] come una verità “de fide”, per esempio Domenico Palmieri (14) e Giovanni Perrone (15), l’illustre autore e redattore del francese “Dictionnaire de Théologie Catholique” Alfred Vacant (16) e il teologo dogmatico George Hayward Joyce, S.J. (17). Più di recente la stessa tesi è stato difesa dal futuro papa Joseph Ratzinger (18) e dai teologi morali Germain Grisez e Peter Ryan, S.J. (19).
Per dimostrare a fondo la falsità dell’interpretazione di Pani-Fransen occorrerebbe un trattato della lunghezza di un libro. Ma molte cose si possono dire per dimostrare che essa è discutibile. Per capire le vere intenzioni dei padri a Trento, non dobbiamo guardare subito, come fa Pani, l’intervento della delegazione veneziana. Dobbiamo guardare per prima cosa il consenso solido come roccia dei padri e dei teologi in ogni precedente discussione sul matrimonio, dal 1547 fino all’agosto del 1563.
Quando il canone 6 (che divenne il canone 7) fu presentato ai padri il 20 luglio del 1563, dopo aver subito diverse riscritture fu formulato così:
“Se qualcuno dirà che a causa dell’adulterio di un coniuge il matrimonio può essere sciolto, e che è lecito per entrambi, o almeno per il coniuge innocente che non ha dato nessun motivo per l’adulterio, di risposarsi, e che non è un adultero colui che licenzia una adultera e ne sposa un’altra, né è un’adultera colei che licenzia un adultero e ne sposa un altro: sia anatema” (20).
Non vi è nulla di straordinario in questa formulazione, in quanto il suo contenuto è più o meno lo stesso del contenuto delle proposizioni precedentemente condannate (numeri 3-5), proposte al Concilio da Angelo Massarelli, il segretario generale, nell’aprile del 1547 (21). Questa formulazione condanna in forma diretta le proposizioni che il matrimonio può essere sciolto a causa di adulterio; che non è mai lecito per i coniugi adulteri di risposarsi; e che il coniuge che ripudia un coniuge adultero e si risposa non è colpevole di adulterio.
Fin dalle prime discussioni di Trento questo è stato il consenso dei padri conciliari. Per quanto riguarda le “auctoritates”, i prelati hanno fatto riferimento a Nostro Signore e a san Paolo, ai Canoni Apostolici, a Girolamo, Ambrogio, Agostino, Crisostomo, Origene, Ilario, ai papi Innocenzo I, Leone I, Alessandro III e ai Concili di Milevi, Elvira, Costanza, Firenze e Lateranense IV, tra altri. Quando pensatori cattolici del XVI secolo come Erasmo e Catarinus hanno suggerito che la dottrina dell’assoluta indissolubilità debba essere annacquata, le loro proposte sono state condannate dalle facoltà di teologia delle università di Colonia, Lovanio e Parigi. La conclusione di Agostino che la clausola d’eccezione in Matteo va letta in conformità con gli insegnamenti più restrittivi che si trovano in Luca 16, Marco 10 e Romani 7, 1-3 era accettata da quasi tutti. “Separazione di letto, non di legame”, era il motto del momento.
Pani menziona il significativo dubbio contro l’indissolubilità assoluta [del matrimonio] esposto dal vescovo di Segovia il 14 agosto del 1563, come fa ogni altro autore che segue questa interpretazione (22). Ma egli non menziona che dall’inizio delle discussioni sul matrimonio una maggioranza rilevante e coesa ha affermato, contro il punto di vista segoviano, il motto agostiniano “letto, non legame”, senza eccezioni. Alcuni nomi dovrebbero essere sufficienti a dimostrare questo: il presidente del concilio e legato pontificio cardinale Cervinus; gli arcivescovi Materanus, Naxiensis, Aquensis, e Armacanus; i vescovi Aciensis, Sibinicensis, Chironensis, Sebastensis, Motulanus, Motonensis, Mylonensis, Feltrensis, Bononiensis, Sibinicensis, Chironensis, Aquensis, Bituntinus, Aquinas, Mylensis, Lavellinus, Mylensis, Caprulanus, Grossetanus, Upsalensis, Salutiarum, Caprulanus, Veronensis, Maioricensis, Camerinensis , Thermularum, Mirapicensis e Vigorniensis.
In una dichiarazione sommaria registrata negli Acta il 6 settembre del 1547, si legge: “Le risposte dei padri erano varie; ma la stragrande maggioranza erano d’accordo che l’adulterio non può sciogliere un matrimonio; che se uno sposa un’altra persona quando il suo coniuge è ancora in vita commette adulterio; e che per nessuna ragione possono essere separati, tranne che nel letto”. (23). Riguardo alle “auctoritates” che si oppongono a questo punto di vista, la maggioranza ha concordato “che la separazione deve essere intesa solo come separazione del letto, e non del vincolo secondo l’interpretazione dei dottori (e l’insegnamento di San Paolo in 1 Cor 7, 10ss e Romani 7, 2ss, di Marco 10, 11, di Luca 16, 18 e dello stesso Matteo 5, 32)” Infine, la maggioranza ha concordato “che la comprensione della Scrittura dovrebbe essere secondo l’insegnamento della Chiesa” (24).
Quando la bozza del canone 6 fu presentata il 20 luglio del 1563, più di duecento padri del Concilio (cardinali, arcivescovi, vescovi, abati e generali delle congregazioni) intervennero a commentarla. Tutti sapevano che la fine dei dibattiti sul matrimonio si avvicinava. Se ci fossero stati dubbi diffusi o insoddisfazione tra i padri circa la destinazione della formulazione, l’inclusione dell’anatema, o le sue implicazioni per le pratiche di divorzio dei Greci (25), ci si sarebbe aspettato un notevole numero di “non placet” al canone. Ma solo 17 esprimettero disapprovazione, soprattutto a causa delle “opinioni dei Greci”. Più dell’85 per cento dei prelati votanti erano soddisfatti per la formulazione diretta dell’anatema che condannava le seconde nozze dopo l’adulterio, con una larga maggioranza che approvò esplicitamente il suo contenuto (“placet”).
Tre settimane più tardi, l’11 agosto, arrivò la proposta di Venezia di una formulazione indiretta. Circa 136 prelati si esprimettero a favore della proposta. Come si spiega questo cambiamento? Forse perché i padri conciliari preferivano lasciare aperta la questione della legittimità delle pratiche greche di divorzio, come Pani e altri suggeriscono? Tale conclusione deve essere respinta. È verosimile che in meno di tre settimane la stragrande maggioranza dei prelati votanti abbiano abbandonato l’indissolubilità assoluta per consentire alcuni casi di divorzio e seconde nozze? Nella versione finale del canone 7 il Concilio adottò quattro altri importanti cambiamenti che contraddicono questa conclusione.
In primo luogo, aggiunse la frase “iuxta evangelicam et apostolicam doctrinam” per far capire che le successive proposizioni che condannano la negazione dell’indissolubilità nei casi di adulterio hanno la loro origine nella rivelazione divina.
In secondo luogo, sostituì il termine normativo “non dovrebbe… contrattare” (“non debere… contrahere”) con il termine sostanziale “non può… contrattare” (“non posse… contrahere”) rendendo chiaro che un nuovo matrimonio dopo il divorzio non è solo sbagliato, ma addirittura impossibile, sempre.
In terzo luogo, per garantire che il canone riguardava in modo trasparente l’indissolubilità del vincolo del matrimonio, adottò il termine “vinculum matrimonii” in sostituzione di “matrimonium”.
Infine, introdusse per la prima volta una prefazione dottrinale ai canoni sul matrimonio. Ciò era chiaramente mirato ad istituire un quadro dottrinale all’interno del quale i canoni devono essere letti e interpretati. L’introduzione fonda la verità della indissolubilità sulla legge naturale (l’ordine creato), sull’ispirazione dello Spirito Santo nel Antico Testamento e sulla volontà e l’insegnamento di Gesù come espresso nel Nuovo Testamento. E afferma che sono condannati non solo gli “scismatici” ma anche “i loro errori” (“eorumque errores”), cioè le loro proposizioni erronee sulla natura del matrimonio, compresa la loro indiscutibile negazione della indissolubilità assoluta del matrimonio.
La spiegazione più plausibile per l’improvvisa svolta è che i padri conciliari restavano comunque convinti che il matrimonio non può essere sciolto a causa di un adulterio o di qualsiasi altra cosa, e che questo doveva essere insegnato come una verità di fede. Essi si erano trovati pronti a insegnare ciò nella forma di un anatema diretto che condannava la sua negazione. Ma l’intervento di Venezia li aveva mesi in guardia da una possibile conseguenza di questo atto, vale a dire il turbamento del delicato equilibrio dei rapporti tra i cristiani greci e la gerarchia romana nelle isole del Mediterraneo.
Erano certi che la proposizione che affermava l’indissolubilità assoluta del matrimonio era vera e apparteneva alla rivelazione divina, e avevano l’intenzione di insegnare entrambe le cose, ma di farlo in modo da ridurre al minimo le conseguenze indesiderabili. Non hanno fatto ricorso a una formulazione indiretta a motivo di dubbi circa l’interpretazione della “clausola d’eccezione”, per la paura dello scandalo di “anatematizzare Ambrogio” o perché volessero lasciare i Greci liberi di seguire le loro antiche usanze di divorzio. L’appello di Venezia ha avuto successo per il motivo pastorale che una formulazione indiretta poneva una probabilità minore di turbare le relazioni greco-romane nei territori veneziani.
L’idea di Pani che nella pubblicazione del canone 7 i padri intendevano soltanto condannare Lutero e i riformatori ma lasciare fuori dalla critica le pratiche di divorzio dei Greci è in contrasto con il giudizio motivato sulla indissolubilità assoluta del matrimonio della stragrande maggioranza dei padri e dei teologi del Concilio dalla primavera del 1547 alla fine dell’estate del 1563. Come Ryan e Grisez affermano: “Anche se Trento non anatematizza [esplicitamente] la pratica della ‘oikonomia’, il canone 7 comporta che la sua applicazione alle ‘seconde nozze’ dopo il divorzio è contraria alla fede” (26).
La formula ironica di Pani, “damnatio memoriae”, è davvero adatta. Ma non sono gli atti, i segretari, i cronisti o i commentatori del Concilio che impongono il silenzio sull’insegnamento di Trento. Si tratta piuttosto di coloro che, in nome della “misericordia evangelica”, vogliono sostituìre una verità di fede con una “tollerante” fantasia.
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NOTE
(1) La tesi di dottorato di Fransen sul canone 7 (“De indissolubilitate Matrimonii christiani in casu fornicationis. De canone Septimo Sessionis XXIV Concilii Tridentini, luglio-novembre 1563″) è stata presentata alla Gregoriana nel 1947. Nel 1950, Fransen pubblicò altri sei saggi influenti sulla rivista “Scholastik” sull’insegnamento di Trento sul matrimonio, che sono ristampati in una raccolta di saggi di Fransen intitolata “Ermeneutica dei Concili e altri studi”, ed. H.E. Mertens e F. de Graeve, Leuven University Press, 1985. Egli ha riassunto le conclusioni di questi saggi in un saggio inglese molto letto dal titolo “Il divorzio a causa della Adulterio – Il Concilio di Trento (1563)”, stampato in un numero speciale della rivista “Concilium”, dal titolo “Il futuro del matrimonio come istituzione”, ed. Franz Böckle, New York, Herder and Herder, 1970, 89-100.
(2) Kasper, “Theology of Christian Marriage”, New York, Crossroad, 1977, note 87, p. 98, also p. 62.
(3) Charles Curran, “Faithful Dissent”, Sheed & Ward, 1986, 269, 272.
(4) Michael Lawler, “Divorce and Remarriage in the Catholic Church: Ten Theses,” New Theology Review, vol. 12, no. 2 (1999), 56.
(5) Kenneth Himes and James Coriden, “The Indissolubility of Marriage: Reasons to Reconsider,” Theological Studies, vol. 65, no. 3 (2004), 463.
(6) Ibid.
(7) Theodore Mackin, “Divorce and Remarriage”, New York, Paulist Press, 1984, 388.
(8) Victor J. Pospishil, “Divorce and Remarriage”, New York, Herder and Herder, 1967, 66-68.
(9) Francis Sullivan, “Creative Fidelity: Weighing and Interpreting Documents of the Magisterium”, New York, Paulist Press, 1996, 131-134.
(10) Karl Lehmann, “Gegenwart des Glaubens”, Mainz, Matthias-Grünwald-Verlag, 1974, 285-286.
(11) Paolo Sarpi (1552 -1623), “Istoria del Concilio Tridentino”, Londra, 1619; Traduzione in inglese: “History of the Council of Trent” (1676). La sua “Istoria”, molto letta dai protestanti, è stata criticata come orientata contro la curia romana; vedi L.F. Bungener, “History of the Council of Trent”, New York, Harper & Brothers, 1855, xix-xx.
(12) Jean de Launoy (1603-1678); vedi “De regia in matrimonium potestate” (1674), par. III, art. I, cap. 5, n. 78; in “Opera”, Colonia/Ginevra, 1731, tom. 1, cap. I, p. 855.
(13) Bossuet scrisse di Sarpi: “Era un protestante sotto un abito religioso, che ha recitato la messa senza credere in essa, e che rimase in una Chiesa che egli considerava idolatra”. Vedi Bertrand L. Conway, CSP, “Original Diaries of the Council of Trent,” The Catholic World, vol. 98 (Oct. 1913-March 1914), 467.
(14) Domenico Palmieri, “Tractatus de Matrimonio Cristiano”, Typographia Polyglotta SC de Propaganda Fide, Roma, 1880, p. 142.
(15) G. Perrone, SJ., “De Matrimonio Christiano”, vol. 3, Rome, 1861, bk. 3, ch. 4, a. 2, p. 379-380.
(16) A. Vacant, s.v., “Divorce”, in ”Dictionnaire de théologie catholique”, 1908, vol. XII, cols. 498-505.
(17) George Hayward Joyce, S.J., “Christian Marriage: An Historical and Doctrinal Study”, London: Sheed and Ward, 1933, 395.
(18) In un saggio del 1972, “Zur Frage nach der Unauflöslichkeit der Ehe: Bemerkungen zum dogmengeschichtlichen Befund und zu seiner gegenwärtigen Bedeutung” (in Ehe und Ehescheidung: Diskussion Unter Christen, a cura di Franz Henrich e Volker Eid, München, Kösel, 1972, 47, 49), Ratzinger dice che egli segue Fransen sul canone 7. Nel 1986 egli dimostra però che ha cambiato idea: “La posizione della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio sacramentale e consumato… è stata infatti definita nel Concilio di Trento, e così appartiene al patrimonio della fede “(vedi citazione in Charles Curran, “Faithful Dissent”, Sheed & Ward, 1986, p 269).
(19) Peter F. Ryan, S.J. and Germain Grisez, “Indissoluble Marriage: A Reply to Kenneth Himes and James Coriden”, Theological Studies 72 (2011), 369-415.
(20) CT, IX, 640.
(21) See CT, VI, 98-99.
(22) CT, XI, 709.
(23) CT, VI, 434.
(24) CT, VI, 434-435.
(25) “Non placet, quia ferit Graecos and Ambrose” (Arcivescovo Cretensis), CT, IX, 644.
(26) Op. Cit., nota 180.
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Il testo integrale dell’importante articolo scritto nel 1994 sulla rivista dei domenicani inglesi “New Blackfriars” da Germain Grisez, John Finnis e William E. May contro le tesi dei vescovi tedeschi Walter Kasper, Karl Lehmann e Oskar Saier favorevoli ad ammettere alla comunione i divorziati risposati:
> Indissolubility, Divorce and Holy Communion
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Il testo letto in sinodo a conclusione della prima settimana di discussione in aula, con i tre esplosivi paragrafi (50-52) sull’omosessualità:
E i rapporti dei dieci circoli linguistici che l’hanno fatto a pezzi:
> Relazioni dei circoli minori
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Per un profilo più compiuto del segretario speciale del sinodo:
> Diario Vaticano / La conversione del vescovo-teologo Bruno Forte(10.9.2012)
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Gli ultimi tre precedenti servizi di www.chiesa:
13.10.2014
> Il vero dilemma: indissolubilità o divorzio
Questo sinodo non è chiamato a decidere. Ma ormai l’ipotesi delle seconde nozze ha piena cittadinanza ai vertici della Chiesa. Il commento del cardinale Camillo Ruini
9.10.2014
> Quella coppia di sposi che bussa alle porte del sinodo
Ludmila e Stanislaw Grygiel insegnano nell’istituto pontificio di studi sulla famiglia creato da papa Karol Wojtyla, loro amico di una vita. Non sono stati invitati. Ma avevano molto da dire ai padri sinodali. E l’hanno detto. Con chiarezza e coraggio
4.10.2014
> Seconde nozze a Venezia per “La Civiltà Cattolica”
A sostegno delle tesi del cardinale Kasper, la rivista con l’imprimatur papale rispolvera una concessione fatta dal Concilio di Trento ai cattolici delle isole greche sotto dominio veneziano, alcuni dei quali si risposavano con rito ortodosso
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Per altre notizie e commenti vedi il blog che Sandro Magister cura per i lettori di lingua italiana:
Ultimi tre titoli:
Il sinodo tira le somme. E Francesco dice che cosa non gli è piaciuto
Omosessualità. Contro la “Relatio” anche san Paolo dice la sua. E anche l’ISTAT
Nel Cenacolo del Beato Angelico una lezione su eucaristia e matrimonio