Kobane, sotto assedio è l’Occidente, di Angelo Panebianco
Domani, 15 ottobre 2014, a partire dalle 16,30, in Piazza del Carmine a CAGLIARI, si svolgerà un’assemblea di solidarietà con i patrioti curdi.
Quanto può valere, in termini di reclutamento di altri combattenti in tutto il mondo, oltre che di nuovi simpatizzanti per la «causa» (la guerra santa), la sempre più probabile caduta di Kobane nelle mani dello Stato islamico? Kobane, la città curda assediata (e già in gran parte conquistata dal Califfo) i cui abitanti combattono per sfuggire a morte certa, sta diventando una prova dell’impotenza occidentale. Le analogie storiche funzionano solo in parte ma la battaglia di Kobane sta assumendo un rilievo simbolico che ricorda quello di battaglie decisive in certe guerre del passato. Come Stalingrado. I curdi ce l’hanno soprattutto con il presidente turco Erdogan che non muove i carri armati, né permette ai curdi di attraversare il confine con la Siria per andare a salvare gli abitanti di Kobane. Ma la tragedia della città è, prima di tutto, il frutto degli errori degli occidentali, della loro passività, durata troppo a lungo, di fronte alla nascita e alle vittorie del Califfato. I bombardamenti americani hanno rallentato l’avanzata dei jihadisti ma, secondo lo stesso Pentagono, non basteranno né a salvare Kobane né a bloccare l’ulteriore espansione dello Stato islamico. Per fare quel lavoro occorrono le truppe di terra. Esattamente ciò che Obama non è disposto a impegnare.
Si scontano anche in questo caso gli effetti di una politica americana in Medio Oriente giudicata fallimentare da critici dello stesso campo democratico cui appartiene il presidente: dall’ex segretario di Stato e futura candidata alla presidenza Hillary Clinton all’ex segretario alla Difesa sotto Obama, Leon Panetta.
Il problema è che una coalizione di guerra contro lo Stato islamico che comprende le potenze sunnite dell’area è un’ottima cosa sulla carta ma non funziona o funziona male di fatto perché ciascuna di quelle potenze ha nella partita interessi e obiettivi propri, e la leadership americana è troppo debole e troppo poco credibile: non può imporre la coesione necessaria per ottenere decisive vittorie militari sul terreno. Non è nemmeno sicuro che le potenze sunnite coinvolte (la Turchia per prima) vogliano davvero spingersi fino a distruggere il Califfato. Intendono certamente colpirlo e fermarlo poiché si tratta di un fenomeno sfuggito di mano a tutti. Ma non è sicuro che vogliano anche distruggerlo se ciò significa regalare la vittoria ad Assad in Siria, consentire che il suo regime si perpetui. Mentre è certo, almeno dal punto di vista occidentale, che la sconfitta definitiva dello Stato islamico è necessaria non solo per stabilizzare la regione ma anche per spegnere gli entusiasmi che i suoi successi e la sua sanguinaria capacità mediatica hanno suscitato fra molti giovani sunniti in Medio Oriente, in Europa e altrove.
Non sembra neppure funzionare l’idea fin qui accarezzata (implicitamente) dalla Casa Bianca: quella di coinvolgere l’Iran con lo scopo non solo di sconfiggere lo Stato islamico, ma anche di costituire, in prospettiva, una sorta di «equilibrio di potenza» fra Stati sunniti e Stati sciiti sotto sorveglianza occidentale per assicurare stabilità al Medio Oriente. In linea di principio, favorire un simile equilibrio ridando rispettabilità e riconoscimento all’Iran, soprattutto attraverso l’accordo nucleare, sembrava, fino a qualche tempo fa (prima che emergesse la minaccia dello Stato islamico), una buona idea. Oltre a tutto, è vero che l’Iran post rivoluzione del ‘79 ha spesso favorito movimenti e azioni terroriste ma è altrettanto vero che è stato nel mondo sunnita, non in quello sciita, che ha preso corpo ed è decollata, da Al Qaeda al Califfato, la grande guerra condotta simultaneamente contro l’Occidente, gli sciiti e i sunniti non coinvolti nella jihad . Ma quella che era forse un tempo una buona idea, un progetto praticabile, oggi non lo è più. Non solo la nascita del Califfato ha complicato enormemente il quadro ma, per giunta, quel progetto avrebbe richiesto, per funzionare, anche un coordinamento e una intesa fra le grandi potenze: in concreto, sarebbe stato necessario l’appoggio della Russia. Un’ipotesi che è definitivamente tramontata a causa della crisi ucraina.
Il Corriere ha ieri ospitato un interessante intervento di due politici italiani, Pier Ferdinando Casini e Fabrizio Cicchitto, giustamente allarmati per gli sviluppi in corso e che proponevano il coinvolgimento dell’Onu per fermare lo Stato islamico. In queste ore, anche altri in altre capitali europee, consapevoli della debolezza dell’attuale coalizione di guerra, propongono soluzioni simili. C’è da temere, però, che quella non sia la strada. L’Onu può servire (come accadde nel 1991 durante la prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein) per dare copertura politico-diplomatica a una potenza americana dotata di volontà d’intervento e di strategia militare. Difficilmente può essere il surrogato o il sostituto di quella volontà e di quella strategia.Per dire che, sfortunatamente, non c’è alternativa a un impegno diretto degli Stati Uniti e a una loro ritrovata capacità di guidare e dare coesione alla coalizione di guerra.
L’Europa corre rischi grandissimi. Siamo sulla linea di tiro. Le ripetute minacce del Califfo all’Europa non sono sbruffonate. Nella sua tragicità la situazione è semplice: o i jihadisti verranno fermati in Medio Oriente o la guerra, prima o poi, ci raggiungerà. La principale ragione per cui ciò continua ad apparire inverosimile a tanti europei occidentali è semplicemente il riflesso dell’eccezionalità della storia europea dopo il ‘45, della felicissima anomalia (almeno fino alle guerre iugoslave) di un lunghissimo periodo di pace. Essi faticano a comprendere che la sicurezza europea, in questo come nei passati frangenti, dipende da due condizioni: la disponibilità di americani ed europei a coordinare i loro sforzi, e la presenza di una America i cui dirigenti possiedano la capacità e la volontà di esercitare la leadership .
Le nuove minacce alla sicurezza obbligano a rettificare molti giudizi del passato. Per anni, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, in tanti hanno pensato che America e Europa potessero felicemente andarsene ciascuna per la propria strada. Che l’Europa non sia in grado di farlo dovrebbe essere ormai evidente. La si osservi con attenzione. Qualcuno pensa che sia capace di difendersi da sola? Si guardi al disastro che è riuscita a combinare in Libia.
Ma anche gli Stati Uniti, come hanno sperimentato con la presidenza Obama, la meno interessata, rispetto a tutte quelle che l’hanno preceduta nell’ultimo mezzo secolo, a mantenere la «relazione speciale» con l’Europa, non hanno nulla da guadagnare da un indebolimento eccessivo del legame transatlantico. È forse dai tempi di Jimmy Carter (fine anni Settanta) che il prestigio e l’influenza degli Stati Uniti non cadevano così in basso. Bisogna sperare che il prossimo presidente abbia l’energia e la capacità di rovesciare la tendenza. Nell’attesa, è vitale che, in Medio Oriente soprattutto, gli occidentali (gli americani in primo luogo ma anche gli europei) la smettano di accumulare solo errori.
Il Corriere della sera, 12 ottobre 2014 | 09:09