Salesiani 2. Cagliari e l’Opera di don Bosco, da Bacaredda ad oggi, di Guido Portoghese

Il saggio di Guido Portoghese è preceduto da “Salesiani 1. Al reverendo don Angel Fernandez Artime la cittadinanza onoraria di Cagliari. E intanto un libro celebra il centenario salesiano in città; di Gianfranco Murtas

Don Angel Fernandez Artime, rettore maggiore dei salesiani.


Salesiani 1. Al reverendo don Angel Fernandez Artime la cittadinanza onoraria di Cagliari. E intanto un libro celebra il centenario salesiano in città; di Gianfranco Murtas

Dunque mentre a Genova si spalava il fango e mentre a Sassari si preparava la solenne cerimonia della beatificazione di padre Francesco Zirano, a Cagliari, in municipio, ci si è raccolti a pensare a noi stessi  nell’impegno che per molti è essenzialmente religioso, per altri essenzialmente civico, per altri ancora inestricabilmente l’uno e l’altro, volto ad alzare il tasso di umanità, nell’incontro e nel sostegno reciproco, di una città che talvolta sembra bisognosa soprattutto di una sua dimensione comunitaria.

La cittadinanza onoraria al rettore maggiore dei salesiani, lo spagnolo don Angel Fernandez Artime, ha significato il riconoscimento dei meriti dell’Opera di don Bosco in città lungo un secolo intero, tanto più nella scuola e nelle attività oratoriali. Una pedagogia libera e creativa eppure disciplinata, sempre responsabilizzante, volta a dare un senso alla materialità delle cose che entrano nell’esperienza di vita delle persone, tanto più dei ragazzi e dei giovani: ecco il dono di don Bosco e dei suoi nella concretezza della loro fatica “missionaria” (un aggettivo, questo, che va riscattato dalle prigioni semantiche in cui lo si suole spesso confinare, quasi si tratti di concludere affari d’indottrinamento).

Giovedì sera 9 ottobre è stato presentato, nel salone delle conferenze di viale Fra Ignazio, il libro “Un secolo con don Bosco a Cagliari”. In verità non s’è trattato della presentazione di nulla, se non della bella fatica di Paolo Fadda che ha scritto il saggio – bellissimo – di apertura del volume, e al quale lo stesso Fadda ha fatto riferimento nel suo denso, commosso e gustoso intervento. Per il resto s’è trattato di altro: di ricordi personali più o meno estemporanei, come ha fatto Romano Cannas e come soprattutto, ma con pirotecnica giornalistica degna d’un grande narratore, ha fatto Giacomo Mameli (che ha letto il suo intervento, sensatissimo), riportando fra l’altro alle scene della grande storia, come quella della tremenda invasione dei carri armati sovietici in Ungheria, nel 1956, le cui cronache si udivano dagli altoparlanti là in viale Fra Ignazio.

Su più ampie ambientazioni cittadine nel passaggio di decennio fra anni ’50 e anni ’60, s’è sviluppato l’appassionato discorso a braccio di Mario Girau, il quale ha guardato, più che all’interno delle aule scolastiche, ai campi aperti dell’oratorio inclusivo, di quell’oratorio attrezzato per le attività sportive anche dei ragazzi provenienti dalle zone periferiche prive al momento delle strutture che le nuove parrocchie avrebbero poi gradualmente allestito, da San Francesco in via Piemonte a Sant’Eusebio a ridosso del colle di San Michele.

S’è trattenuta su una bella scheda di autopresentazione delle suore di Maria Ausiliatrice, la rappresentante di quest’ala poco conosciuta, almeno da noi, della Famiglia salesiana (le sue presenze, nel Cagliaritano, sono state oltre che nel capoluogo a Monserrato, a Sanluri ed a Senorbì): suore gentili che pure hanno avuto ed hanno ancora, anche se in misura diversa che nel passato, la loro parte nella socializzazione di minori e nell’accoglienza di giovani e universitarie venute da fuori a studiare in città.

Di riflessioni importanti circa la tipicità della scuola salesiana e il pregio del suo imprinting formativo che è ad un tempo culturale e sociale, ma anche affettivo perché valorizza la persona nella sua integralità, si è fatta portavoce Ilaria Loddo, exallieva ora agli studi in facoltà di Medicina. E assolutamente vigoroso nello stornare i rischi di inciampo o di rallentamento nostalgico collegati alla celebrazione centenaria è stato uno dei dirigenti (nazionali) degli exallievi di Cagliari, Matteo Lai, che ha mostrato una bella autorevolezza quando ha invitato tutti ad orientare al futuro, in termini di assunzione di nuove responsabilità e di impegno nel fare, quanto dalla esperienza maturata si è potuto e saputo ricavare.

Sabato pomeriggio il programma ha previsto la consegna di una pergamena a don Artime, con la certificazione della sua nuova cittadinanza, non esclusiva né sostitutiva di alcuna altra, ma semmai godibilmente associata alle altre che nel mondo gli sono state o gli saranno conferite, sempre in riconoscimento dei meriti della Famiglia di don Bosco nei cinque continenti.

Poiché però niente può mai andare al meglio, va segnalata, per presto dimenticarla, la pessima conduzione della serata da parte del presidente del Consiglio comunale Depau, che parla prolisso e ripetitivo e con poco contenuto e soprattutto non rispetta la più corretta scansione dei momenti istituzionali, come ha fatto penalizzando la relazione che l’esponente della commissione Affari generali – quella che aveva istruito la pratica, ed aveva motivato al Consiglio comunale i perché della delibera proposta – aveva preparato, anche con la collaborazione (come ha detto) dei giovani exallievi, affogandola invece nella mezz’ora dei salottieri “mi ricordo” e dei ringraziamenti inutili.

Mi han detto essersi trattato di “cortesia istituzionale” l’aver aderito alla richiesta del direttore dell’Istituto don Nuccitelli di aprire lui e di passare poi la parola a un exallievo dei tempi remoti, Ambrogio Atzeni, assessore all’urbanistica nei tempi della giunta De Magistris. Richiesta immotivata da parte del direttore, sgradevole cedimento istituzionale di un presidente non all’altezza del ruolo.

E comunque ecco poi, offerto ad orecchie già stanche, l’atteso intervento del consigliere Portoghese e poi quello cullante e anodino di un consigliere democristiano berlusconiano (sic!) che un’altra volta si era pubblicamente preso il merito, che non aveva assolutamente, di aver deposto lui, a sua firma, una mozione per il riconoscimento salesiano. Quando invece erano stati i giovani dell’Unione ex allievi che, con gran fatica di ricerca storica, avevano inviato, nello stesso momento a più consiglieri di parti politiche opposte, quel testo originario (come altri successivamente), raccomandando una firma collettiva in ordine alfabetico, onde evitare strumentalizzazioni. Ma questa è la qualità dei cosiddetti (anzi, di qualcuno dei cosiddetti) rappresentanti.

Per fortuna poi don Artime ha fatto conoscere al banco della presidenza – anche al sindaco Zedda che aveva parlato poco prima, con un discorso al solito elegante ma di circostanza – che si può essere insieme moderni e antichi, forti di un patrimonio che il tempo non depaupera ma impreziosisce e sempre sa rinnovarsi nella fedeltà. Ché questa è, in fondo, la categoria stessa della cosiddetta “tradizione”, e la pratica spirituale e religiosa declinata dalla Famiglia salesiana proprio questo prova e testimonia. Agli insegnamenti originari di don Bosco – figura per altri aspetti (dico io, con rispetto) compromessa con i suoi tempi  anche nei limiti e non soltanto nelle virtù – si sono aggiunte le esperienze concrete, nella varietà dei territori e delle culture locali, dei suoi sacerdoti, delle sue suore, dei suoi cooperatori laici, che lungi dal diminuire hanno potenziato la carica pedagogica e formativa, preventiva e d’accompagnamento, dei giovani da loro accolti e talvolta cercati.

Ecco, i giovani. Porto qui, in breve, una personale testimonianza, per avere seguito gli eventi del centenario e collaborato, pur marginalmente, alla stesura del libro di ricostruzione storica. L’ala giovane degli exallievi che ho visto all’opera, nello studio dei documenti dell’archivio storico e nella discussione su come trarli tali da essere strumento di comprensione del tempo trascorso ma insieme di rilancio per iniziative future; non solo: anche nella fattura del libro compilandone direttamente diversi capitoli, e nella preparazione e stampa di un numero unico “voce” del centenario (“il San G. Bosco in formula Karalis”) e di replicazioni di fotografie d’epoca, e nei rapporti con il Municipio per la parte della formalizzazione della “cittadinanza onoraria” al loro Rettor Maggiore, e in altro ancora (come nella serata dello scorso giovedì, della quale ho detto), quell’ala giovane degli exallievi cui si deve il più di tutto quanto si è visto e realizzato in questi giorni, costituisce un tesoro di cui forse la Famiglia salesiana sarda e cagliaritana non ha chiara e intera percezione.

Il tempo dirà se gli altri exallievi, dico quelli anziani, tanto più quelli che hanno possibilità materiali evidentemente maggiori e taluno direi anche cospicue, sapranno – come le comunità cristiane della prima leva – mettere in comune quanto posseggono e con i giovani della loro stessa associazione attivare quelle strutture d’accoglienza che, senza intervento del Municipio o delle casse pubbliche s’intende, potrebbero presto alleggerire lo stato di vita di giovani svantaggiati, così davvero onorando il compimento del primo centenario ed avviando efficacemente il secondo.

 

Salesiani 2. Cagliari e l’Opera di don Bosco, da Bacaredda ad oggi

di Guido Portoghese

Ecco l’intervento del consigliere comunale Guido Portoghese, svolto nella seduta straordinaria di sabato 11 ottobre, quando è stata conferita la cittadinanza onoraria di Cagliari al Rettor Maggiore don Angel Fernandez Artime. Membro della commissione Affari Generali che ha impostato la pratica del riconoscimento, Portoghese si era già fatto portatore presso l’Assemblea della delibera consiliare che lo scorso 24 novembre è stata approvata a unanimità di voti. Importa qui rilevare quanto lo stesso consigliere riferisce dicendosi gratificato del risultato: cioè della collaborazione da lui ricevuta, nella stesura della sua relazione, da parte dei giovani exallievi attivi nell’Unione di Cagliari.

 

Nel  palazzo che una saggia delibera consiliare onorò col nome del sindaco-mito della Cagliari “en marche” fra Ottocento e Novecento – Ottone Bacaredda cioè – celebriamo l’evento di oggi.

Lo celebriamo saldandolo  al tempo in cui, essendo sindaco Bacaredda, i salesiani avviavano la loro Opera  fra noi:  così quando tutto nacque o si impostò, nel 1898, alla primissima visita a Cagliari dei delegati dell’Opera – perché allora Bacaredda andava a compiere il primo decennale della sua sindacatura; così anche nel 1913, alla inaugurazione dell’istituto con il suo accompagnamento di campi dell’oratorio – perché allora Bacaredda, passati anche i lunghi tormenti del primo decennio del secolo (con i famosi moti contro il carovita e la disoccupazione), era tornato alla guida della città con quella che forse fu la più produttiva delle sue amministrazioni, cominciata nel 1911 e proseguita fino al 1917, fino cioè al cuore della grande guerra.

E’ necessario sia così, che stabiliamo cioè questo parallelo storico: dato che si tratta d’un centenario che tutti onoriamo e che il Municipio valorizza con il riconoscimento della cittadinanza cagliaritana a don Angel Fernandez Artìme – cittadino del mondo per la sua vocazione e la sua missione.

Ho pensato agli intrecci dei percorsi, quello civico della nostra Cagliari e quello religioso-pedagogico-sociale dei salesiani che a Cagliari donarono allora l’abbondanza del loro carisma.

Essi erano allora già insediati a Lanusei, anche se in forma precaria; ma giustamente volevano raggiungere e spargere il buon seme dell’esempio di don Giovanni Bosco, e applicare la sua pedagogia, nel capoluogo della provincia, di cui l’Ogliastra era soltanto uno dei circondari, insieme con l’Oristanese e Iglesiente.

In Ogliastra, ove avrebbero aperto la loro prima sede nel 1902, erano arrivati sollecitati dall’avvocato Antonio Giua, che a Torino aveva studiato ed aveva frequentato don Bosco.

Di ritorno da Lanusei, quella primissima volta che mirava soltanto a rendersi essi conto della realtà locale, gli inviati dell’Opera erano passati a Cagliari.

Era il 1898 quando don Luigi Rocca e don Tommaso Pentòre chiesero all’arcivescovo Paolo Maria Serci Serra un aiuto dal clero diocesano a favore del progetto che avevano illustrato: missione giovani, giovanissimi, ragazzini in difficoltà, bisognosi di un accudimento in termini di paternità e fraternità, e di una istruzione.

La risposta del presule cagliaritano ci fu e fu entusiasta: venne incaricato di far da “ponte” fra l’Opera in fieri e il clero diocesano un giovanissimo prete che si sarebbe distinto nelle vicende ecclesiali, e anche civili, cagliaritane lungo gran parte del Novecento, reggendo addirittura per mezzo secolo la parrocchia stampacina di Sant’Anna, il cui territorio arrivava al viale La Playa ed a Sant’Avendrace, a Palabanda e alle pendici del colle di Buoncammino: don Mario Piu.

Da allora si cominciò a raccogliere, dalla gente, i fondi per la costruzione del quartiere salesiano fra Palabanda ed il viale dell’Annunziata, di fronte all’Orto botanico,  come prima stazione di quella irta salita detta viale degli Ospizi che già accoglieva gli istituti dei bambini e ragazzi sordomuti e dei vecchi alla miseria. Fra breve anche dei minori ciechi.

Nel  mezzo era la piccola e modestissima chiesa cinquecentesca dei cappuccini: quei cappuccini che le leggi anticlericali di mezzo secolo prima avevano allontanato da quella sede, imprigionandoli quasi a Villanova, anzi a Is Stelladas/via Giardini, dove oggi sono le suore francesi di Seillon, e che non erano ancora tornati nel 1898, ma lo sarebbero stati felicemente, da un lustro appena, nel 1913, all’inizio della stagione salesiana caratterizzando di umanità – essi e i salesiani insieme – quel lungo viale.

Un viale che un domani ormai prossimo avrebbe ulteriormente animato con l’ospedale della Croce rossa che aveva convertito il dormitorio pubblico donato alla città dalla Massoneria nel 1915, divenuto poi tubercolosario e infine istituto dell’infanzia abbandonata; un viale animato, dopo ancora, e ancora oggi, dai giovani frequentanti le varie facoltà d’indirizzo economico-giuridico.

Sono le pieghe della storia minore della nostra Cagliari che vede intrecciarsi le vicende di singoli e di comunità religiose o laiche, dell’istituzione civica e della società giovane e anche sbandata – quella tante volte rappresentata con l’icona dei picciocus de crobi al mercato-Partenone del largo Carlo Felice e dei cosiddetti “monelli” in permanente assedio dei viaggiatori alla stazione ferroviaria – e scuole, anche le scuole disertate o abbandonate anzitempo, senza che alla dispersione il potere pubblico potesse o sapesse far fronte, se non forse con l’aumento progressivo degli interventi del patronato, del refettorio ecc.

Antonio Romagnino lo ha ricordato un bell’articolo di ormai 35 anni fa: che  «i famosi “picciocus de crobi”, spesso scambiati per un piacevole elemento di folclore, erano invece uno dei più tristi aspetti delle miserie sociali della città. Proprio a questa gioventù riottosa – sono ancora parole del nostro Defensor Karalis – si rivolgeva il programma educativo di don Bosco: “Certi educatori – sosteneva il fondatore dell’Opera Salesiana – con il pretesto di dover domare una natura ribelle, si ostinano a piegare la volontà con mezzi violenti, e così, invece di raddrizzarla, la distruggono”.

«L’affermazione calzava a pennello anche per le bande di giovani teppisti che infestavano Cagliari nei primi anni del Novecento, protagonisti di risse violente, alimentate da un artificiale spirito di quartiere che metteva Stampace contro Castello o la Marina contro Villanova… Per Cagliari ci voleva proprio don Bosco e l’oratorio che avrebbe gettato acqua sul fuoco di quelle giovanili esuberanze».

Ecco, il 1898. Ho insistito sulla scena e sulla data di quell’incipit perché, in quello stesso anno, Municipio e arcivescovo avevano anche trovato finalmente una sistemazione per le ultime decrepite domenicane della clausura, non meno decrepita di loro, di Santa Caterina da Siena: il monastero sul bastioncino destinato a lasciare il passo alla nuova scuola elementare inaugurata poi nel 1909, la scuola di Paolo De Magistris, la scuola di Francesco Alziator, la scuola di Antonio Romagnino, e di quanti altri cagliaritani illustri nel mezzo dei cagliaritani non meno illustri, se non per nome certo per sentimento civico e laboriosità professionale.

Un istituto – il monastero di clausura di Santa Caterina – si chiude, un altro (la posa della cui prima pietra è avvenuta in un giorno di calendario, il 29 aprile 1908, dedicato proprio a Santa Caterina!) si apre, o almeno s’apre il suo cantiere. E’ il processo della storia.

Ci vuol tempo e finalmente l’Istituto di viale Fra Ignazio, per il quale si è deposta la prima pietra appunto nei giorni stessi in cui la Vergine di Bonaria veniva proclamata patrona massima della Sardegna – (e per quel centenario abbiamo avuto noi ospite, nel 2008, il papa Benedetto XVI) –, finalmente quell’edificio scolastico con i campi di gioco pur non rifiniti attorno, e dal 1914 l’oratorio festivo, entra in funzione. E’ il 1913. Tempo di forzature ideologiche nel segno ghibellino, con la Chiesa che alle incomprensioni istituzionali risponde con un impegno non politico ma sociale.

E’ l’anno, il 1913, del monumento a Dante Alighieri, di fronte al liceo Dettori, alla Marina, e del monumento a Giordano Bruno, nello slargo che introduce alla via Università.

Immaginiamocela la Cagliari del 1913, la Cagliari dei 65mila residenti (e sono meno di 850mila i sardi in tutta la regione), con i suoi quattro quartieri medievali e i due sobborghi di Sant’Avendrace e San Bartolomeo, con quelle case povere – sono per 10mila cagliaritani i sottani ! – di  cui scrivono e scriveranno molti viaggiatori venuti fra noi anche dall’estero per conoscerci e raccontarci al pubblico dei lettori di libri e giornali in Inghilterra, in Francia, ecc. Anche Lawrence, nel 1921.

La storia sociale del capoluogo la fanno in gran parte quei 10mila che sognano una casa operaia, e i cui figli per intanto sono – almeno in parte – dispersi per le vie cittadine, dietro i mestieri e anche le astuzie di sopravvivenza.

Ne 1913 risultano oltre 22mila i cagliaritani iscritti al servizio medico, ostetrico e farmaceutico del Comune e la tabella fa paura perché – come è stato scritto – «getta una luce di verità sulle prevalenti apparenze di decoro borghese che guadagnano al capoluogo i meriti della modernità, ma che sembra più onesto e rispondente cogliere nel suo effettivo chiaroscuro».

Né è soltanto l’edilizia economico-popolare che si sogna, ma più in generale un risanamento delle strutture abitative di chi si consegna, impotente, alle statistiche delle malattie polmonari, oftalmiche ecc. registrate in una inchiesta del Consiglio comunale – l’inchiesta Aresu-Barrago – nei primissimi anni del secolo. Per non dire della auspicata liberazione delle grotte popolate di Tuvixeddu o di Montixeddu, verso Bonaria, di cui raccontano le cronache del tempo.

Tutt’attorno, a far corona ai quartieri separandoli dai comuni dell’hinterland – Pirri, Monserrato, Selargius, Elmas, ecc. – sono gli orti, i cardeti e i giardini che digradano verso San Michele, o San Benedetto e San Bartolomeo col suo bagno penale…

Non mancano i libri che ci raccontano questa nostra Cagliari incontrata dai pionieri della Famiglia salesiana: del 1913 è il tram elettrico che collega i quartieri fra di loro e anche la città con l’hinterland – omaggio alla modernità incalzante – ed è anche l’esordio del Poetto, lontano un’ora e più dalle case, che si propone in avvicendamento alla spiaggia storica di Giorgino. E intanto L’Unione Sarda prepara il suo trasloco dal viale Regina Margherita, di fronte alla Scala di Ferro e al Politeama Margherita, al Terrapieno.

Il bilancio comunale a firma Bacaredda ha appostato somme rilevanti per migliorare le paghe agli insegnanti (che sono a suo carico), per svariati rifacimenti stradali e l’estensione della rete d’illuminazione pubblica come di quella  idrica e fognaria, per l’adeguamento del forno municipale e dei locali di ricovero per i malati infettivi, per la sistemazione della caserma di Stampace e del liceo Dettori, per l’avvio della costruzione delle elementari nella piazza Garibaldi (mutuo di un milione di lire), ecc.

La Cagliari che vede l’inaugurazione, nel 1913, dell’istituto scolastico salesiano è tutta un cantiere, è tutta proiettata nel futuro modernista, ma è anche attraversata dalle sue gravi contraddizioni sociali. Per non dire che, ancora due anni, e tutto sprofonderà nella emergenza della grande guerra.

La guerra però anche affratella. E dai salesiani, anche da loro, verranno allora continue prove d’accoglienza, di soccorso.

Tutte le vicende cittadine troveranno, lungo un secolo, questa attenzione e questo impegno. Non mancheranno certo, anche fra loro, le cadute, le intempestività, le insufficienze, come è della nostra condizione umana. Ma è indubbio che, tanto più nei momenti di più acuta necessità, la fraternità salesiana, soprattutto per i bambini, i ragazzi e i giovani, sarà cosa tangibile.

Le leggi razziali del 1938 – sulle quali pure il ritardo di giudizio della Chiesa cattolica in Italia ed anche a Cagliari è tremendo – allontanano dalla scuola dell’Infanzia Lieta, a Stampace, l’insegnante ebrea che se ne dà cura, insieme col gesuita padre Abbo. Quelle poche classi di bambini passano allora ad altre cure in area di Palabanda e i campi dell’oratorio salesiano, al pari della cappella dell’istituto, sono messi a disposizione…

Negli sforzi di recupero cittadino e nuovo sviluppo del secondo dopoguerra anche l’Opera salesiana fa la sua parte. Il pensiero corre all’area più periferica di San Benedetto: zona popolare, allora, con strade sterrate, case modeste, pochi servizi. Anni 1955-56, una iniziativa dal basso, una chiamata ai salesiani che vengono, con don Paolo Villasanta giovanissimo in lambretta, con don Giulio Reali, e nasce – step by step – nell’arco di cinque-sei anni, la parrocchia di San Paolo. Nasce un quartiere, e la parrocchia ne è una specie di comando generale organizzativo per le attività educative, oratoriali e sociali in genere.

Verrà poi, nell’hinterland, il centro professionale, attivo e produttivo per vent’anni: un capitolo oggi fermo, non chiuso voglio sperare…

Dopo la tornata di delibera, lo scorso 24 settembre, ed in vista di questa solenne serata, sono stato raggiunto, con estremo piacere per la loro squisitezza, da numerosi amici della Famiglia salesiana, ed in particolare da giovani che all’istituto hanno studiato e del quale continuano a vivere le esperienze associative ch’esso promuove: mi è stata fornita anche una bella rassegna documentaria delle vicende che la Famiglia di don Bosco ha consumato a Cagliari lungo questo secolo.

Potrei dire di aver scritto questo breve discorso – sono altri due minuti – insieme con loro. Tale è stata la intensità e la cordialità della partecipazione, della condivisione di questo momento che celebra i salesiani e la città stessa, i suoi percorsi virtuosi, le sue attenzioni – forse insufficienti ma pur sempre tangibili ed effettive – verso la cura dei ragazzi e dei giovani, per la loro immissione nella socialità della responsabilità professionale e civica.

E’ stato un incontro autenticamente comunitario fra il consigliere comunale, con responsabilità anche istituzionali per le funzioni di membro della commissione Affari generali che ha istruito la pratica del conferimento di cittadinanza onoraria al reverendo don Artìme, e questi nuovi amici – segnalo in particolare Andrea Giulio Pirastu, presidente dei giovani exallievi –, che sono stati i più convinti e tenaci sostenitori della causa.

Ho rivisto con loro, nei giorni scorsi, queste carte, questi documenti e mi sono reso conto di come davvero la nostra storia municipale si sia incrociata con quella dell’Opera salesiana nelle lunghe stagioni di un secolo, passando dall’età bacareddiana a quella – infelice sotto il profilo delle libertà democratiche – del fascismo, dalle sofferenze della seconda guerra mondiale – quando, nel rientro progressivo degli sfollati, un soccorso anche di vettovaglie venne alla popolazione dai sacerdoti del viale Fra Ignazio – ai rigogli anche della ripresa sociale ed edilizia negli anni ’50 e ’60, e via via verso questa nostra attualità.

Direi che se oggi la nostra città ambisce al riconoscimento di capitale europea della cultura per il 2019, essa ne è legittimata anche dal concorso che ai suoi standard ha offerto la Famiglia salesiana nella varietà delle forme scolastiche in senso stretto, di alta qualificazione, ma anche associative su un’impronta che è insieme religiosa ed etico-civile e spazia da una oratorialità ludica e sportiva, pedagogica in se stessa, ad una pratica dell’inclusione che è nei talenti soprattutto delle suore di Maria Ausiliatrice e dei giovani exallievi, tanto più degli universitari, ma di cui abbiamo avuto testimonianza, per decenni, anche nei corsi professionali di cui attendiamo la pronta ripresa.

Siamo alla conclusione delle celebrazioni del centenario. Cagliari e la sua Amministrazione si pongono di fronte al carisma vivo di don Giovanni Bosco chiedendo ai suoi sacerdoti, alle sue religiose, ai suoi cooperatori di vario rango, ai suoi exallievi non soltanto di continuare, ma di incrementare la donazione di generosità che da quel carisma deriva.

Nelle infinite urgenze della città e nella penuria crescente delle risorse disponibili, la Municipalità non può dare che ai più esposti alle difficoltà della vita; ma a tutti i soggetti rispondenti, singoli e associati, e in particolare alle Famiglie religiose che conoscono e vivono con speciale sensibilità la sofferenza di chi sta sul crinale, la Municipalità ha soltanto da chiedere.

Chiede cooperazione, partecipazione, in termini di risorse materiali e in termini di opera prestata, di volontariato attivo.

Certo noi sappiamo, perché ce ne giunge comunque l’eco, degli interventi di solidarietà piena che la Famiglia salesiana anche sarda, in silenzio, direi in segreto, compie nel nostro tempo. E però, invece di dirci paghi, proprio dal carisma salesiano e da questa sua applicazione riservata, prendiamo spunto, per chiedere di più. Perché maggiore è, a causa della perdurante crisi sociale ed economica, il bisogno.

E chiediamo che i salesiani sardi e di Cagliari stavolta il loro intervento lo dichiarino, lo rendano di pubblico dominio, non per averne venale riconoscimento ovviamente, ma perché esso susciti imitazione. Perché sia esemplare per altre Famiglie religiose e per i singoli. Se si può, si deve.

Il carisma salesiano guarda in particolare ai minori con un intento pedagogico, non di catechizzazione, di imprigionamento in coordinate ideologiche, ma di positivo coinvolgimento nella complessità della esistenza e del vivere sociale per essere anche di supporto, in termini di fraternità, con chiunque “non ce la faccia”. Come è stato ai tempi di don Bosco, nelle periferie e nei quartieri popolari di Torino e delle grandi città, come è stato nel tempo un po’ ovunque, come è oggi in terra di missione, nei continenti e nei territori della povertà.

I cagliaritani che non conoscono don Bosco lo conosceranno attraverso i suoi. Perché questo nostro tempo è il tempo, come diceva Paolo VI e come mi sembra papa Bergoglio ribadisca, dei testimoni molto più che dei maestri.

 

Condividi su:

    Comments are closed.