Le eroiche donne di Kabane
L’EDITORIALE DELLA DOMENICA. Pubblichiamo due editoriali sull’eroica reistenza dei Curdi di Kabane: Il nemico perfetto [di Nicolò Migheli], pubblicato su By sardegnasoprattutto / 6 ottobre 2014, e Kobané : la faute de la Turquie, pubblicato su LE MONDE | 08.10.2014
Il nemico perfetto, di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto / 6 ottobre 2014
A Kobane nel Kurdistan siriano si combatte casa per casa. Le milizie dell’Isis hanno dato l’assalto ad una città strategica per il loro disegno di controllo della frontiera siro-turca. Dopo potranno da lì accerchiare il Kurdistan iracheno. Le YPG/YPJ (Unità di Protezione Popolare) curde, armate di pochi e vecchi AK47 e di qualche razzo anticarro, tentano di contrastare i militanti islamici che le colpiscono con artiglierie e mortai. Le frontiere con la Turchia sono chiuse. L’esercito turco assiste senza intervenire, attendendo che l’Isis faccia il lavoro sporco, liberi il Kurdistan occidentale dai curdi.
Gran parte dei combattenti curdi sono donne che si stanno impegnando in una battaglia disperata, sanno che se cadranno nelle mani dell’Isis verranno violentate, decapitate, uccise. Per quei tagliagola quelle donne rappresentano la negazione totale della loro ideologia di morte. Le armi promesse non sono mai arrivate. Le YPG/YPJ hanno il torto di essere legate al PKK di Ocalan e quindi comuniste. La guerra ha cambiato molte cose nella società maschilista del Kurdistan siriano. Le donne non solo combattono ma si impegnano nelle istituzioni locali in piena parità con gli uomini; peraltro i curdi siriani non si sono mai scontrati con i lealisti di al-Assad limitandosi a proteggere il loro territorio.
Ulteriore colpa agli occhi di chi, Usa in testa, in questi anni hanno finanziato chiunque si opponesse ad al-Assad, Isis compresa. I pochi bombardamenti delle forze alleate poco hanno potuto, nessuno manda uomini sul terreno. Lo farà forse la Turchia con altri obiettivi, impadronirsi del Kurdistan siriano che galleggia in un mare di petrolio e gas in modo da spezzare ogni aspirazione all’indipendenza di quel popolo.
Dal Califfato di al- Baghdadi a quello di Erdogan? D’altronde il governo islamico turco non ha mai nascosto le sue ambizioni neo ottomane. I confini stabiliti dopo la prima guerra mondiale ormai pare non abbiano più senso e la Turchia con un milione di uomini in armi – il secondo esercito della Nato dopo gli Usa- potrebbe essere tenta ad allargare i suoi confini entrando in possesso di quei territori che cento anni fa appartenevano al suo impero. Ipotesi che non lascerebbe fermi gli iraniani.
La terza guerra mondiale ad episodi come papa Francesco ha definito le varie crisi del nostro tempo, potrebbe cambiare di intensità mutando in conflitto generalizzato. Il verminaio del Medio Oriente ha finito per produrre il nemico perfetto. Le crudeltà esibite, i convogli della morte, le decapitazioni hanno rivelato l’alieno delle società europee ed americane. Quest’ultime abituate a guerre con il telecomando, alla schiacciante potenza tecnologica dove il combattente di rado vede la morte dell’avversario, si sono trovate davanti l’immagine dell’orda barbarica. Il ricordo di timori ancestrali.
La violenza per la violenza che presuppone il contatto fisico, l’uccisione con l’arma bianca, il sangue delle decapitazioni sulle rive dell’Eufrate, atti insopportabili per le nostre società. La sottomissione e segregazione dell’universo femminile, la distruzione di ogni minoranza, le conversioni forzate, sono attentati profondi a quello in cui crediamo. Non solo per noi però, lo sono anche per i mussulmani che non aderiscono all’Islam letteralista dei salafiti. È bene saperlo, non è in atto nessun conflitto di civiltà.
Le letture superficiali del testo di Samuel P. Huntington sono state uno dei carburanti per le guerre dell’Iraq e dell’Afghanistan, le motivazioni “alte” per l’esportazione della democrazia con le armi. Anche i curdi sono mussulmani eppure combattono una guerra feroce contro l’Isis, ne va della loro sopravvivenza e del loro modo di intendere la società e il vivere comunitario. L’Europa e gli Usa non avrebbero mosso un dito se non ci fossero state delle decapitazioni di giornalisti e operatori di Ong occidentali. In fin dei conti è una guerra tra mussulmani, combattuta per procura,ma interna all’Islam, avranno pensato nelle varie cancellerie.
Lo scoprire – ma è stata, una vera scoperta? I servizi ignoravano i viaggi degli estremisti in Turchia e Siria?- che circa 3.000 europei combattono con l’Isis è stato uno choc. Ci si è chiesti cosa può attrarre un giovane nato e cresciuto nei nostri paesi, che ha goduto dei benefici del welfare, che ha conosciuto i diritti dell’uomo per averli appresi a scuola, che ha vissuto in una società pluralista, che ha garantito anche la sua libertà di parola? Cosa spinge un giovane europeo, americano, australiano, ad abbracciare una ideologia di morte e a recarsi in quei paesi? Domande che implicano i processi di cittadinanza e quanto gli immigrati mussulmani abbiano le stesse possibilità di lavoro e integrazione degli altri.
Ancora oggi un cognome non europeo non avvantaggia nelle selezioni per un lavoro, nell’affitto di una casa. Sono i sistemi di inclusione occidentali ad aver fallito, compresi quelli più sofisticati delle socialdemocrazie scandinave. Anche l’islam si interroga. Prestigiosi analisti scrivono di collasso della civiltà araba, secondo loro le responsabilità coloniali e neocoloniali occidentali non bastano a giustificare tanto risentimento. Emanuela C. Dal Re sull’ultimo numero di Limes riporta che alcuni intellettuali curdi si spingono con l’affermare che è l’Islam il problema e si dichiarano atei con un notevole coraggio. Sono soprattutto però i mussulmani europei ad interrogarsi.
Sviluppatisi in un ambiente pluralista ne colgono i vantaggi e allo stesso tempo si preoccupano per i pericoli che quella guerra ha per una sua crescita equilibrata. Alla fine però l’Isis e la sua religione di morte verranno sconfitti. Non saranno le armi occidentali a farlo, saranno le donne. Le combattenti curde sono l’avanguardia di un processo di modernizzazione che li cancellerà. A noi che osserviamo impotenti resta solo l’ammirazione per tanto coraggio
Kobané : la faute de la Turquie
LE MONDE | 08.10.2014 à 11h06 • Mis à jour le 08.10.2014 à 13h42
Editorial du Monde. La politique de la Turquie face à la crise syrienne se solde par une double tragédie, régionale et intérieure. C’est aussi un échec personnel pour le président Recep Tayyip Erdogan qui l’a inspirée, d’abord comme chef du gouvernement puis, depuis août, comme chef de l’Etat. Telle est la leçon principale – il y en a d’autres – des événements de ces dernières 24 heures enSyrie et sur le territoire turc.
Le premier drame se déroule à Kobané, troisième ville kurde de Syrie, le long de la frontière avec la Turquie. La localité est en passe de tomber aux mains des djihadistes du groupe dit « Etat islamique » (EI). Depuis des mois, quelques milliers de militants kurdes – pour la plupart syriens – opposent une résistance acharnée aux chars et à l’artillerie lourde de l’EI. Mardi soir 7 octobre, ils étaient en voie d’être écrasés, en dépit de quelques bombardements aériens menés par les Etats qui participent à la coalition anti-EI, principalement les Etats-Unis.
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La prise de Kobané donnera aux djihadistes un atout considérable : le contrôle de la route longeant une bonne partie de la frontière syro-turque. Elle consolidera leur emprise sur un immense territoire. Elle leur permettra demultiplier les trafics de contrebande qui assurent la richesse de l’EI. Enfin, elle soulignera l’inefficacité des raids aériens de la coalition internationale, qui prétend « vaincre » l’EI, mais n’arrive même pas à contenir sa progression en terrain découvert.
La physionomie de la bataille aurait sans doute pu être différente si la Turquie était intervenue. Elle dispose de la deuxième force terrestre de l’OTAN. Elle est la superpuissance militaire régionale. Depuis des semaines, l’armée turque a déployé des chars face à Kobané, le long de la frontière. Ils auraient puneutraliser en partie les positions d’artillerie de l’EI. Ils n’ont pas tiré un seul obus.
Ankara a décidé d’intégrer la coalition anti-EI, mais n’a rien fait pour freinerl’avance des djihadistes vers Kobané. Pourquoi ? La Turquie ne veut pas d’une zone autonome kurde syrienne à sa frontière. Pareille zone pourrait servir de base arrière aux militants du PKK, l’organisation combattante des Kurdes de Turquie.
« Pour nous, le PKK ne vaut pas mieux que l’EI », a lancé le président Erdogan. C’est inexact. Tout se passe plutôt comme si Ankara, qui a longtemps laissépasser en Syrie les militants islamistes les plus extrémistes, préférait encore l’EI aux Kurdes…
Ce « choix » a provoqué un deuxième drame: les manifestations violentes, mardi soir, des Kurdes de Turquie. Elles ont fait au moins 14 morts. La situation peut relancer la guerre qui, depuis trente ans, oppose le PKK à l’armée turque. Elle peut torpiller la courageuse tentative de négociation avec le PKK menée par M. Erdogan.
Tout à sa volonté de faire tomber son homologue syrien, Bachar Al-Assad, le président turc exerce une manière de chantage: pas de participation effective d’Ankara à la lutte contre l’EI tant que les Etats-Unis ne s’impliquent pas davantage contre le régime de Damas. C’est une politique irréaliste qui n’arrêtera pas la déstabilisation régionale et qui risque de déstabiliser la Turquie à l’intérieur.