Etica della buona notizia e spirito dell’Illuminismo, di Gianni Mula

In un suo recente editorialeLa societàdell’ostentazione, Paul Krugman osservava che «Oggi ci sono di nuovo un’estrema disparità di reddito e un basso livello di tassazione per i redditi alti. Ad esempio, nel 1955 i 400 americani a più alto reddito pagavano più della metà dei loro redditi in tasse federali, oggi ne pagano meno di un quinto. E, inevitabilmente, il ritorno della grande ricchezza poco tassata ha portato il ritorno all’ostentazione tipica della Belle Époque». Concludeva quindi che «se si pensa che la nostra società abbia bisogno di più umiltà, si dovrebbero sostenere politiche che consentano di ridurre i privilegi delle élite». Così facendo, però, legava un giudizio morale a un preciso programma di azione politica, cosa che non si dovrebbe fare, almeno secondo il sano principio di laicità dello stato che abbiamo ereditato dalla tradizione illuminista.

Principio che oggi si può leggere così: le scelte di politica economica non dovrebbero derivare da credi morali; gli arricchimenti eccessivi che possono verificarsi sono null’altro che il prezzo da pagare per avere i vantaggi di un’economia basata sul libero mercato; ogni economia che ponesse limiti al mercato sarebbe per ciò stesso altamente inefficiente (e per di più non porrebbe rimedio neanche agli arricchimenti ingiusti).

Secondo questa formulazione (che suona a prima vista del tutto ragionevole per ogni situazione) si può aderire all’etica della buona notizia (o a qualunque altra etica che condanni l’arricchimento eccessivo) e al tempo stesso essere contrari alle politiche di redistribuzione del reddito che si rendessero necessarie. Ho recentemente argomentato, invece, che nelle condizioni attuali l’etica della buona notizia, proprio per il suo non potersi sottrarre all’esigenza morale di sostenere la ridistribuzione dei redditi, era, per quanto paradossale, il solo programma politico davvero realistico. Come giustificare questo contrasto? Semplicemente ricordando che in momenti eccezionali non bisogna aver paura di ridefinire le proprie priorità.

Che viviamo in un momento eccezionale non ci può essere dubbio, visto ciò che raccontano stampa e televisione. Giovanni Sarubbi, ad es., inizia così il suo editoriale Il tempo della fine: «Viviamo il tempo della fine che è anche il tempo della verità. Viviamo il tempo della fine di un sistema sociale, che domina sul piano mondiale, che ha oramai raggiunto un livello di iniquità mai prima raggiunto. Gli imperi, storicamente, hanno fatto tutti una brutta fine. Sono tempi, quelli attuali, paragonabili a quelli della fine dell’Impero Romano, con disfacimento di tutte le strutture sociali, morali, etiche di quella società. In più oggi stiamo vivendo il tempo della fine anche da un punto di vista ambientale, cosa mai verificatasi prima nella breve storia dell’umanità».

Questi toni possono sembrare un po’ troppo apocalittici ma sono certo abbondantemente giustificati dall’esperienza quotidiana. Ancora Sarubbi nel suo ultimo editoriale Parole e fatti racconta: «Da ieri ci tocca rimpiangere la laicità della vecchia DC e i monaci della basilica di Francesco d’Assisi hanno la responsabilità di aver dato la possibilità di dire bugie, applaudendolo, al presidente del Consiglio certificandone la sua bontà e autenticità. Altra bugia da “fine dei tempi” è quella sul lavoro. Anche qui, come dice l’Evangelo, non si può servire due padroni. Non si può stare a fianco di Marchionne, il nuovo Nerone del 21° secolo, e poi dire di essere a fianco di chi lavora quando si sta per approvare una legge che riporta il mondo del lavoro ai tempi del primo capitalismo».Qui ciò che conta non è tanto la microscopica violazione del principio di laicità commessa dai monaci di Assisi a favore di Renzi, quanto le macroscopiche violazioni che tutti i giorni Papa Francesco e il nuovo segretario generale della CEI Mons. Galantino commettono quando, citando il vangelo, accusano, magari indirettamente, il governo Renzi di tradire le attese della gente o di andare alla ricerca di soluzioni di corto respiro che però possono trovare ossessiva pubblicità o facili consensi.

Queste violazioni però, al contrario di quelle dei monaci di Assisi, sono giustificate dall’autorità del vangelo, del Gesù che dice (Mt 10, 34) «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada». Nel nostro caso potremmo tradurre così: quando è in gioco la sopravvivenza delle persone non ci si può accontentare di una pace che sia una semplice assenza di guerra, ma per quanto paradossale, bisogna seguire l’etica delle beatitudini e le scelte radicali che implica.

Divergenze occasionali o sistematiche non devono far paura: sarebbe ben strano che nel tempo della fine solo la Chiesa restasse monolitica, visto che il suo compito è testimoniare la radicalità del messaggio evangelico. Se nel compiere quest’azione si staccano da essa frammenti rimasti ai tempi dei padroni delle ferriere dispiace, ma è un loro problema. Quando perfino un agnostico come Krugman ritiene necessario, in nome di un concetto di decenza umana largamente condiviso, chiedere che si ritorni allo schema di tassazione progressivo che c’è stato negli Stati Uniti per trent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, come può un credente che si rifaccia all’annuncio cristiano chiamarsene fuori?

Isaiah Berlin diceva che non è mai esistito un moralista più rigoroso di Kant, ma ricordava anche che Kant, in un momento di profonda illuminazione disse: «Col legno storto dell’umanità non si possono fare cose diritte». Imporre ai popoli di conformarsi a regole astratte, anche teoricamente perfette, ma pensate senza riferimenti alle condizioni concrete della loro vita, è appunto cercare di fare cose diritte col legno storto, è la strada per raggiungere il massimo di disumanità. In circostanze eccezionali, quando vengono mancare i punti di riferimento abituali, il faro che ci deve guidare è il volto delle vittime, di coloro ai quali i ricchi e i potenti non si vergognano di imporre sacrifici che loro si guardano bene dal solo pensare di fare.

 

Condividi su:

    Comments are closed.