«Difendiamo il sardo di tutti». Convegno a Sedilo per la limba sarda comune. di Roberto Cossu

L’articolo dal titolo: Contro Regione e università:  «Difendiamo il sardo di tutti», è stato pubblicato su L’UNIONE SARDA il 22.09.2014.

Il luogo dell’incontro è simbolico: uno spazio molto “sardo” espropriato dal Comune che vorrebbe farne un centro culturale. A Sa Prima Ighina, tra sale e cortili che sanno d’antico, i libri ci sono già ma l’opera è incompleta, dice con amarezza il sindaco di Sedilo Umberto Cocco. Servono soldi, la Regione non collabora. Più o meno come è incompleta «la politica de sa limba ufitziale», a dispetto della buona partenza. Qualcuno frena. Ma chi? «L’accademia», accusano i sostenitori. Cioè le università dell’Isola (e quella di Sassari in primis), cioè i «professori», che di fatto hanno commissariato la Regione. Sarà per questo che alla giornata di festa organizzata dal Coordinamento pro sa limba ufitziale, i politici delle istituzioni, benché invitati, non ci sono. Si fanno vedere solo i movimenti indipendentisti (nelle varie modulazioni). «Pazienza», dice Giuseppe Corongiu, «vuol dire che andremo noi da loro». Come dire: ci mobiliteremo e ripeteremo la manifestazione a Cagliari. Anche questa storia è molto “sarda”. I nemici non sono altrove. Non è (solo) questione di «oppressione» italiota, il colonialismo è un fatto ma per il momento in sottofondo. C’è una conquista: la lingua sarda comune, uno standard accettato e dotato di norme, una cosa viva negli uffici, nelle scuole, nell’informazione. E c’è chi vorrebbe tornare indietro, al «discussionismo». Cioè alla convegnite che produce atti ma non scelte e fa della cultura sarda un mercato folcloristico: nulla a che vedere con la vita quotidiana. Tutti «sono a favore» della lingua sarda ma molti la ostacolano col pretesto di esaltarla: è questo il gioco, la «grande ipocrisia», che il Coordinamento vuole scardinare. Per questo i militanti sono qui, sobriamente: una sola bandiera (dei quattro mori) esposta all’aperto, una splendida scena dell’Ardia in sala, un pranzo a 13 euro e un banchetto libri portati da Ghilarza dove le “Chentu litteras a sos de domo” di Gramsci sono esposte a fianco di “Dublinesos” di James Joyce. Poi canzoni diffuse da un impianto poco pretenzioso, canti e balli. Aria di famiglia, insomma. Ma combattiva, anche se i toni sono volutamente bassi. Perché, per esempio, dice Corongiu, «l’assessore Firino è una persona speciale, coraggiosa, che ascolta», ma forse «ha cattivi consiglieri». Così «siamo a un punto morto». Lo standard ortografico della lingua comune (e ufficiale) ha già otto anni, ma nei primi mesi di regno della giunta Pigliaru ha visto un bel po’ di sterzate: fuori il direttore dell’Ufficio linguistico della Regione (lo stesso Corongiu), al momento il servizio, per dirla con Antonello Garau, è «sconcau» e ci si chiede se resterà in piedi. «Non si vede un nuovo piano neppure dipinto», gli sportelli di promozione (che fine al 2011 erano circa 300) sono a rischio e così i 150 lavoratori degli ufitzios, i programmo radio-tv si vedono a singhiozzo e i finanziamenti potrebbero saltare. Ma soprattutto, ed è il punto su cui insiste strategicamente (e intelligentemente) il Coordinamento, c’è una marcia indietro generale nella «pianificazione linguistica». Si vuole tornare all’epoca ante-Soru. «Alla discussione da bar dello sport», dice Corongiu. Alla lingua «poetica e folcloristica». Al quarantennale dilemma «logudorese o campidanese?». Alla guerra dei dialetti. Non è un caso che negli uffici cagliaritani «si usino addirittura sistemi ortografici diversi». Mentre «per andare avanti la lingua ha bisogno di un’autorità, di un’istituzione. La politica non può restare neutrale». E il sardo «deve tornare ad essere una lingua normale», concetto ripetuto spesso ieri mattina. Il messaggio finale è chiaro: una lingua comune esiste, piaccia o non piaccia, e bisogna stabilire se serve o meno. «Se serve all’autonomia allora si faccia». Gianfranca Piras, che lavora a uno sportello linguistico, con l’aiuto del computer spiega cosa significa e deve significare il sardo per tutti e di tutti. La premessa, presa in prestito, è romantica: la felicità (su gosu) ce l’abbiamo in casa. Ma «la lingua deve essere codificata». Anche per reggere le sfide della comunicazione globale. Per parlare, per leggere e per scrivere. «Se non c’è uno standard» tutto questo non è possibile». È una fase storica: «La lingua sarda o vive o muore». Adesso. Ecco perché si impongono scelte politiche, «non imposte da élites dominanti». Dall’accademia. Il discorso piace anche al fronte dell’autogoverno. Con qualche sfumatura. Bustianu Cumpostu avverte: «Se perdiamo la nazione perdiamo la lingua». Una nozione decisamente più politica. Ma intanto ciascuno fa ciò che può. A margine degli interventi è affiorata anche l’idea di un festival della letteratura sarda. Tutto da inventare, per ora il bersaglio grosso è la Regione.

 

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