Servitù militari, Pigliaru va alla guerra: ma con quali armi? Il testo integrale del suo intervento in Consiglio regionale, di Vito Biolchini

L’articolo è comparso sul sito dell’autore il 9 settembre 2014 alle 21:41 . Il testo del discorso del presidente  MARIO MELIS viene ripreso da L’Unione Sarda del 9 e del 10 settembre 2014. Segue l’articolo di Vito Biolchini del 4 settembre 2014 (L’Italia bombarda la Sardegna. Ma per Pigliaru questo non è “inconcepibile”).

Quello tenuto oggi in Consiglio regionale da Francesco Pigliaru sulle servitù militari è stato veramente un “discorso storico”, come lo ha definito il capogruppo di Sel Daniele Cocco? Forse sì. Mai si era sentito un presidente della Regione avanzare richieste così precise e vincolanti: dismissione rapida del poligono di Capo Frasca, tempi certi per la chiusura di Teulada e la riqualificazione di Perdasdefogu. Esattamente come stabilito dalle due commissioni parlamentari che al Senato e alla Camera negli ultimi due anni hanno affrontato il tema delle servitù militari in Italia. Inoltre, Pigliaru ha manifestato la volontà di convocare la seconda conferenza regionale sulle servitù, e questo consentirà alle amministrazione e alle parti sociali di discutere sul futuro non solo delle basi, ma anche di decine e decine di stabili militari che sarebbe opportuno passassero al demanio regionale.

Pigliaru non è stato né ambiguo né vago, e ha portato la vertenza sulle servitù ad un punto di non ritorno. Il discorso del 1981 fatto dal presidente Mario Melis e pubblicato oggi dall’Unione Sarda, già risultava datato prima dell’intervento di Pigliaru di questo pomeriggio; dopo, ha assunto i tratti del reperto archeologico. Perché oggi Pigliaru è andato ben oltre ogni attesa: perché nessun presidente aveva si era posto con tanta chiarezza un obiettivo così ambizioso: la chiusura di due poligoni su tre. Difficile non essere tutti d’accordo.

Pigliaru va alla guerra  e i sardi lo seguiranno: ma con quali armi combatteranno? Ecco, se c’è da ritrovare un limite nel ragionamento del presidente sta tutto negli strumenti politici che lui, la sua giunta e la sua maggioranza pensano di utilizzare per dar corpo a questo ambiziosissimo progetto di liberazione della Sardegna dalle servitù militari. Perché l’opposizione dello stato è chiara e le ostilità sono già state aperte. Il ministro della Difesa Pinotti ha infatti rigettato la richiesta di sospendere le esercitazioni in Sardegna fino al 30 settembre, decretando uno stop solo fino a metà mese. Pigliaru ha dichiarato di volersi appellare ora al Consiglio dei ministri, ma cosa succederà se Renzi (come è presumibile) prenderà le parti della Pinotti? Alla domanda, fatta dal consigliere del Movimento Zona Franca Modesto Fenu,Pigliaru in sede di replica non ha dato risposta.

Però la questione è cruciale. Personalmente continuo a ritenere che Pigliaru stia sbagliando nel non aprire con lo stato e il governo una complessiva “questione Sardegna”, che veda trattati contestualmente cinque temi centrali per il nostro sviluppo: nuovo statuto di autonomia, servitù, energia, trasporti e regime delle entrate.

Perché il governo non può essere benevolo quando di tratta di aprire una clinica privata ad Olbia e ostile quando si parla di coste bombardate.

Pigliaru ha bisogno di dotarsi di una complessiva visione politica più strategica e più ambiziosa, altrimenti rischierà su questo tema delle servitù di farsi molto male. E noi con lui.

Per sostenere la sua battaglia può servire un referendum consultivo popolare? Non si rischia, come ha fatto notare l’ex presidente Cappellacci nel suo intervento, di dilatare i tempi? Nello strumento referendario ci sono pro e contro. Di sicuro, chi promuove il referendum sta dando per scontata la necessità di trovare nell’opinione pubblica e nella piazza una sponda determinante.

E allora a questo punto, visto che la manifestazione di sabato ha già avuto l’adesione di Sel e perfino del Pd, perché non immaginare a Capo Frasca la presenza di Pigliaru e della sua giunta? Dopo l’intervento di questo pomeriggio sarebbe la cosa più logica da fare.

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Questo è il testo integrale del discorso tenuto questo pomeriggio dal presidente Pigliaru in Consiglio regionale.

 

Signor Presidente, onorevoli consiglieri,

ho chiesto questa riunione urgente del Consiglio perché chi guida le istituzioni ha il dovere di svolgere al meglio le sue funzioni nei luoghi deputati a ciò. Io non ho mai pensato che chi governa debba interpretare contemporaneamente la protesta e il governo. Chi governa deve governare e, nel governare, deve saper interpretare anche i bisogni di chi protesta. Senza inutile e dannosa demagogia. Vogliamo arrivare, in questo tema come in altri, a risultati concreti. Sappiamo che per farlo servono disciplina, fatica, capacità, osservazione, forza, coesione. Persino chi vive di pregiudizi dovrebbe ricordare che ciò che noi vogliamo è stato detto con chiarezza e che ogni richiesta contingente è esclusivamente finalizzata a gestire l’emergenza per consentire di riprendere, immediatamente, il sentiero che ben conosciamo e che abbiamo condiviso.

Quando nel 1981 Mario Melis intervenne come Assessore dell’Ambiente nella prima Conferenza regionale sulle Servitù Militari, fece precedere le sue valutazioni sul caso specifico delle servitù in Sardegna da alcune considerazioni generali sulla pace e sull’art.11 della Costituzione, per poi disegnare la cornice politica su questo tema. Cornice che è rimasta invariata per tutti questi anni, da allora fino ad oggi, e che è così semplicemente riassumibile: la Sardegna paga e ha pagato un prezzo troppo alto rispetto alle altre regioni d’Italia e, direi, d’Europa, per concorrere alla difesa e quindi alla pace.

Ebbene, al netto del ritiro degli americani dalla Maddalena, che ha avuto ragioni del tutto particolari, dovute prevalentemente ad un cambio della strategia militare dopo la caduta del muro di Berlino, tre poligoni c’erano allora e tre poligoni ci sono ancora oggi.

Ci si dovrà per lo meno chiedere che cosa la politica deve cambiare nel proprio modo di agire per non lasciare in campo questa situazione che nessuno finora è riuscito a mutare. Non tutti i presidenti della Regione hanno infatti aperto un conflitto istituzionale con lo Stato per i poligoni.

Noi lo abbiamo fatto da subito. Lo abbiamo fatto senza fanfare, senza gagliardetti, senza esibizioni. Abbiamo negato qualsiasi assenso alle servitù militari in Sardegna e l’abbiamo fatto in sede istituzionale, aprendo un conflitto che intendo proseguire se non si giunge a un accordo serio. E in questo momento siamo ulteriormente confermati in questa posizione dall’insofferenza e il disagio espressi sempre più dall’opinione pubblica nella nostra regione.

Intanto i fatti. Il 3 e il 4 settembre nel poligono di Capo Frasca è accaduto un grave episodio che esplicita il conflitto di interessi civili e politici che in questo momento intercorre tra la Regione e il Ministero della Difesa. E siamo qui oggi, per nostra richiesta, perché i conflitti tra istituzioni richiedono un pieno coinvolgimento di tutte le istituzioni.

Il 3 e 4 noi c’eravamo e sappiamo esattamente che cosa è successo e useremo questa conoscenza in tutte le sedi in cui è possibile declinare il conflitto in atto. Questa volta la Regione c’era, non era altrove. Questa volta la Regione ha atti che delimitano i fatti e che non sono smentibili. Il 3 e il 4 era in corso un’esercitazione per la quale l’aviazione tedesca ha pagato per far sì che i suoi aerei potessero sparare a Capo Frasca. Siamo cioè nella situazione in cui lo Stato italiano prende dei soldi da forze armate straniere che scaricano il loro materiale da esercitazione sul nostro territorio.

La Difesa, è un fatto, intasca soldi per attività che impongono costi al territorio che le ospita, e quei costi, in gran parte, la Difesa fa finta che non esistano, non li valuta in modo realistico. Questo è sempre più inaccettabile. Gli incendi sono stati due e si sono sviluppati in due giorni. Il giorno 3 settembre, l’incendio si è sviluppato intorno alle ore 13.35 e ha interessato una superficie di circa un ettaro. Sono intervenuti un elicottero del servizio antincendi regionale, proveniente dalla base di Fenosu; a bordo dell’elicottero è giunto sul posto un forestale che ha curato il coordinamento dell’intervento aereo. È intervenuta inoltre una pattuglia del Corpo forestale con un automezzo dotato di acqua.

Il 4 settembre, l’incendio si è sviluppato alle ore 13.35, e ha interessato una superficie di circa 32 ettari di macchia mediterranea con prevalenza di palma nana e lentisco. Sull’incendio è intervenuto lo stesso personale del giorno precedente e l’elicottero che ha effettuato numerosi lanci nell’arco orario compreso fra le ore 14.25 e le 18.45, compreso il tempo di un rientro in base per il rifornimento di carburante.

La richiesta di intervento per il giorno 4 settembre è pervenuta al Centro operativo provinciale di Cagliari del Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale direttamente dal comando della base di Capo Frasca. L’intervento di spegnimento per la parte via terra si è protratto fino a quando non si sono verificate delle deflagrazioni a terra, una delle quali a una distanza di circa 50 metri dalla posizione della pattuglia del Corpo forestale. A quel punto, al personale intervenuto a terra per lo spegnimento è stato ordinato di interrompere le operazioni a terra e di riferirne, come poi è avvenuto, al magistrato competente della Procura di Cagliari.

Un’osservazione: il personale del Corpo forestale giunto sul posto è stato fatto entrare da personale militare all’interno del poligono, ma non affiancato nelle operazioni di spegnimento, nonostante esplicita richiesta. Il mancato affiancamento del personale del Corpo Forestale da parte dell’Aeronautica Militare, dovuto all’indisponibilità di adeguate risorse di operatori e mezzi antincendio, ha costretto gli uomini del Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale ad intervenire in condizioni di incertezza sulle effettive condizioni di sicurezza. In conclusione, per due giorni sono bruciati circa 33 ettari, in gran parte di macchia mediterranea, l’elicottero ha effettuato 86 lanci e da una prima stima, il costo dell’intervento dell’apparato antincendi regionale è di circa 20.000 euro, che verrà ovviamente fatturato al Ministero della Difesa Italiana. E sono costi al netto dei danni ambientali che dovranno essere valutati con attenzione.

Dal 1998 ad oggi, cioè in soli 16 anni, non c’è stato anno in cui dai poligoni non siano partiti incendi; solo a Teulada sono andati in fumo 440 ettari di ettari di bosco. Nessuno può negare che i poligoni generano un pericolo per la Sardegna, da questo punto di vista in particolare. Sono fonte di incendi.

E allora occorre fare un altro ragionamento. I territori che costituiscono un poligono militare del Ministero della Difesa della Repubblica Italiana, assoggettati alle normative internazionali per quanto riguarda l’uso esercitativo dei sistemi d’arma, sono altresì soggetti alle disposizioni generali – che valgono per l’intero territorio della Regione Sardegna – relative alla prevenzione degli incendi boschivi.

Qualunque “incendio”, così come definito dalla L. 353/2000, che si sviluppi durante il periodo di grave pericolosità stabilito dalle Prescrizioni regionali antincendio deve essere affrontato dal sistema di lotta regionale. Considerate tuttavia le particolari condizioni giuridiche di detti territori, l’intervento delle squadre di lotta dentro i poligoni, e in particolare nelle aree interdette, è sempre stato problematico.

Per ovviare a tale problema, i Comandi militari dei poligoni di Teulada e Perdasdefogu, nel corso degli anni, hanno provveduto ad organizzare dei propri servizi di pronto intervento per il rapido spegnimento. Spesso però l’incendio sfugge alla loro capacità di controllo e direi che Capo Frasca è un clamoroso esempio di questa situazione, e normalmente è richiesto l’intervento aereo o terrestre della struttura di lotta antincendi regionale. Si comprende, quindi, come in tale situazione talora l’incendio sfugga e giunga a propagarsi fino all’esterno dei poligoni.

Dati questi presupposti, ho dato disposizioni perché il Corpo Forestale intensifichi il servizio di sorveglianza intorno ai poligoni al fine di tutelare e salvaguardare le popolazioni e l’ambiente della Sardegna.

A questo proposito, poiché è apparso chiaro che le misure applicate dalle Forze Armate nelle aree in parola per la prevenzione dagli incendi ed il contenimento dei medesimi non risultano adeguate per limitare e contenere il fenomeno e poiché si tratta di aree a regime speciale, l’assessorato dell’Ambiente sta lavorando a un’integrazione delle “Prescrizioni regionali antincendio”: la normativa, cioè, sarà adeguata alla possibilità di costruire piani specifici per le aree gravate da servitù militari. Significa che nel periodo dal primo giugno al trenta settembre le Forze Armate dovranno sottostare alle nostre misure di prevenzione e contenimento degli incendi.

Questo incidente, le modalità con cui è stato affrontato, il forte turbamento che ne è scaturito nella nostra popolazione, rafforzano la nostra convinzione che la prospettiva non può più essere incerta: la Sardegna esige da tempo e ribadisce con la massima forza in questo momento una diminuzione significativa delle servitù che si realizzi in questa legislatura. Sappiamo che per ottenerla dobbiamo combattere con le armi legali e politiche del confronto istituzionale e, ove necessario, con gli strumenti del conflitto istituzionale, non con manifestazioni verbose e inconcludenti come nel passato è speso capitato.

Quarant’anni di opposizione a tutto campo, con la richiesta di dismissione immediata, non hanno portato a nessun risultato. La strategia portata avanti da questa giunta, che punta all’attivazione di una procedura negoziale che porti ad un riequilibrio con l’obiettivo della graduale dismissione dei poligoni, è quella uscita quest’Aula, che ha dato mandato alla Giunta, con un Ordine del giorno votato all’unanimità. Stiamo eseguendo il mandato che ci è arrivato dal Consiglio. Abbiamo individuato le modalità precise, abbiamo individuato un percorso che porti a risultati concreti e lo stiamo seguendo. Obiettivi perseguibili, non utopie che nel presente contesto legislativo non sono in alcun modo realizzabili.

A giugno, prima in Commissione Difesa e poi alla Conferenza nazionale sulle servitù, abbiamo portato una posizione chiara e forte, con l’Ordine del giorno di questo Consiglio, approvato all’unanimità, che ci ha impegnato a proseguire le interlocuzioni con il Governo, sino ad arrivare eventualmente alla stipula di un’Intesa i cui contenuti dovranno essere preliminarmente illustrati al Consiglio Regionale e da questo approvati. Al centro dell’accordo da raggiungere attraverso questo percorso è il sancire l’impegno del Governo verso un riequilibrio del gravame militare, attraverso la previsione di una progressiva diminuzione delle aree soggette a vincoli, la dismissione di alcuni poligoni e la riconversione di altri.

Sono queste le posizioni riportate e ribadite in Conferenza, posizioni che ci hanno portato a non firmare un’intesa che non volevamo firmare in quei termini. In quell’occasione abbiamo chiesto giustizia, correttezza delle regole, certezza dei diritti, equa distribuzione dei doveri ricordando che si tratta della base stessa del patto costituzionale.

In questi poco più di due mesi, abbiamo fatto incontri interlocutori per preparare l’apertura del tavolo concordato con il Ministero della Difesa in sede di quella Conferenza. La immediata interruzione di tutte le esercitazioni militari per l’intera stagione turistica, per esempio, e l’istituzione di Osservatori indipendenti di monitoraggio ambientale all’interno dei Poligoni sono i punti di partenza di qualunque trattativa e come tali devono essere interpretati. Punti di partenza e non di arrivo, come qualcuno ha maliziosamente interpretato. Punti di partenza e non di arrivo, come abbiamo scritto qualche giorno fa al Ministro della Difesa esprimendo tutta la nostra contrarietà per i fatti di Capo Frasca.

Il Ministro ci risponde oggi comunicandoci la sospensione delle esercitazioni sino al 15 settembre. Una risposta che apprezziamo per la tempestività, che interpretiamo come un’apertura di dialogo per quanto timida, ma che non può soddisfarci nella sostanza e che di nuovo mostra una difficoltà da parte del Ministero a valutare adeguatamente il sentimento diffuso nella popolazione sarda verso lo stato attuale delle servitù militari.

A questo proposito valuteremo tutte le azioni percorribili, a partire dalla possibilità di presentare formalmente richiesta di riesame da parte del Consiglio dei Ministri del provvedimento di approvazione del Ministro della Difesa dei programmi di impiego dei poligoni sardi per il secondo semestre 2014. E ciò, anche alla luce di quanto appena successo, è ancor più necessario per l’alto e acclarato rischio di incendi.

Porre queste richieste di nuovo – voglio sottolinearlo – non significa rinunciare alla prospettiva, bensì aprirla. Come abbiamo detto, siamo al governo e non all’opposizione, dobbiamo seguire percorsi istituzionali. Alcune cose, come queste, possiamo ottenerle immediatamente, altre le dobbiamo perseguire con decisione e fermezza. Questa mattina sono entrato nel poligono di Capo Frasca e la visita non fa altro che confermare che la Sardegna in tutti questi anni ha pagato un prezzo altissimo. In tempi di spending review, dove si taglia su tutto, l’unica cosa su cui non si taglia sono le servitù militari localizzate nella nostra regione.

E allora, proprio con quella decisione e con quella fermezza, chiediamo allo Stato italiano un forte riequilibrio in termini non generici, in tempi certi e secondo percorsi chiari. Siamo ragionevoli e non chiediamo la dismissione di tutto immediatamente, ma siamo pronti a sederci a quel tavolo e la nostra richiesta è molto semplice, chiara e incomprimibile: la dismissione in tempi rapidi del poligono di Capo Frasca e l’immediata definizione dei tempi e delle modalità della riduzione e della successiva dismissione del poligono di Teulada. Stiamo parlando delle richieste definite dalla Commissione d’inchiesta del Parlamento italiano e che rileggiamo nell’ordine del giorno votato all’unanimità.

Intanto affermiamo che per la Regione Sardegna la servitù di Santo Stefano a La Maddalena è scaduta il 3 marzo e noi ci opporremo in ogni sede a qualsiasi tentativo di reiterarla. Per intanto, il Corpo Forestale presidierà da subito l’area intorno al deposito dell’isola, per evitare ogni rischio possibile di incendio in un’area così sensibile. Santo Stefano, per noi, è legalmente nostra e questo grazie all’azione svolta dalla giunta del 2004 guidata da Renato Soru.

A questo punto, il primo tassello da mettere in campo è la conoscenza dei fatti. È paradossale che ad oggi non esista una stima in Regione, una misurazione sostenibile e difendibile, del costo che la Sardegna sta pagando per le servitù militari. Per avere ragione bisogna scrivere la sete di giustizia in numeri, dati, immagini, bisogna rendere evidente la verità. Ciò permetterà la valutazione dei costi da mancati sviluppi alternativi dei Comuni nei quali insistono i Poligoni, una valutazione da svolgersi secondo standard scientifici internazionali.

Intendo perciò convocare insieme a voi la seconda Conferenza regionale delle Servitù militari, in modo da aumentare la coscienza del nostro diritto e la conoscenza dei fatti, in modo da poterci confrontare con tutte le rappresentanze politiche, sociali ed economiche e predisporre una modalità concreta di muoverci col popolo, sostenuti dal popolo, nel confronto istituzionale in corso.

 

L’UNIONE SARDA – Politica: Niente ipocrisie, è colonialismo

09.09.2014

Mario Melis Pubblichiamo l’intervento dell’allora assessore regionale all’Ambiente Mario Melis alla conferenza sulle “Servitù militari in Sardegna”, tenutasi nell’aprile 1981. Chi lo leggerà vi troverà insospettabili elementi di continuità con la situazione attuale dell’Isola, non solo riguardo alla questione dei poligoni. È un intervento ancora attuale, che pare scritto ieri. (a. mur.) ****** L a nostra Regione, inscritta com’è nel contesto statuale italiano, pur denunciando con dura fermezza la pesante emarginazione sociale, economica e civile imposta dal governo centrale, non ritiene di doversi sottrarre al dovere di solidarietà nazionale e quindi, al pari delle altre regioni, a quella parte di sacrifici e rischi che derivano dall’esigenza primaria di difesa del territorio nazionale. Questo e non altro. Le nostre popolazioni sono mobilitate in questo impegno e non mancheranno di riaffermare, anche in questa circostanza, il rifiuto delle armi come mezzo di soluzione delle controversie internazionali. La Sardegna, per la generosità del suo popolo, ha pagato alla guerra un prezzo molto elevato di vite umane, scrivendo anche nella recente storia di questo secolo luminose pagine di ineguagliabile valore. In questa dura esperienza ha maturato la certezza che solo nella pace si realizza il progresso, unito allo sviluppo economico, morale e civile della sua gente. Il tema delle servitù militari trova perciò la sua legittimazione essenzialmente in una politica di pace, nella quale, prima ancora che le collettività regionali, i cittadini stessi si riconoscono. In quest’ottica la difesa militare appare funzionale alla pace e non alla sua antitesi. A questo punto si impone a tutti noi una rigorosa analisi per comprendere il diffuso senso di insofferenza che la Comunità dei sardi avverte nei confronti dell’attuale presenza militare nell’Isola. Le cause sono molteplici ma su tutte prevale, a mio avviso, quella di ordine politico. (…) Fra queste è da ricomprendere sicuramente la pesante sproporzione fra il peso delle servitù militari gravanti sull’Isola e quello imposto alla gran parte delle altre regioni italiane. La mia non è una affermazione soggettiva: si fonda su dati di cui è testimonianza, tra l’altro, l’ordine del giorno del 10 gennaio 1980 con la quale la Camera ha impegnato il governo a porre in studio “un piano per ridislocazione delle Forze Armate su territorio nazionale, volto in particolare ad alleggerire le relative installazioni militari e servitù nelle regioni Friuli Venezia Giulia e Sardegna”. Se in qualche misura si comprende la massiccia presenza delle Forze Armate nel Friuli, considerato naturale avamposto italiano nei confronti di ipotetici attacchi sferrati dai Paesi orientali legati al Patto di Varsavia, ben difficilmente si riesce a individuare una spiegazione strategica nei confronti della Sardegna, il cui territorio viene utilizzato, secondo quanto si afferma, esclusivamente per esercitazioni militari. Pare del tutto evidente come tali esercitazioni possano svolgersi con uguale utilità in molte altre regioni dello Stato. A questo punto è legittimo ritenere che la scelta del territorio sardo non può che avere due spiegazioni possibili, entrambe per noi inaccettabili. L’alto indice di spopolamento che si registra nelle zone interne della Sardegna, anziché suggerire al governo una vigorosa politica a sostegno dello sviluppo, onde contenere gli imponenti fenomeni di emigrazione e disoccupazione, restituendo così alla vita, alla produzione e al lavoro le vaste solitudini delle nostre campagne, ha considerato il fenomeno di per sé irreversibile e a ha colmato gli spazi vuoti con installazioni e servitù militari. La politica della Rinascita si rivela dunque un paravento, mentre emerge la visione di una Regione statica, ferma nel tempo, considerata area di servizio per i molteplici usi cui la comunità nazionale, di volta in volta, ritiene di poterla destinare. L’ipotesi trova riscontri significativi nelle scelte industriali a suo tempo fatte dal governo attraverso la monocultura petrolifera. Né meno allarmanti paiono gli indirizzi e gli atti concreti dell’esecutivo in materia di collegamenti marittimi della Sardegna con il contesto italiano e mediterraneo. La decisione del ministero del Tesoro di fronteggiare la crisi finanziaria italiana applicando anche alla nostra Isola, in violazione del suo Statuto, le pesanti riduzioni sul trasferimento di risorse finanziarie e il rifiuto del ministero dell’Industria di garantire alla Sardegna forme compensative delle risorse energetiche assicurate alle altre regioni del Sud attraverso il metanodotto algerino, costituiscono solo alcuni ma significativi esempi di come il mancato sviluppo appaia coerente con la scelta del governo di fare della nostra Isola un’area di servizio per esercitazioni militari di ogni tipo e grado di pericolosità. Questa diagnosi è sostanzialmente condivisa dalla stragrande maggioranza dei sardi, ma particolarmente avvertita e sofferta dai ceti sociali più emarginati. Non a caso la denuncia dell’eccessivo peso delle servitù militari ci viene, con passionale veemenza, dalle assemblee degli emigrati come dalla gran massa dei disoccupati, oltre che dalle rappresentanze degli operai e dei lavoratori tutti. Né va dimenticato che dal 1976 in poi le servitù militari si sono progressivamente ridotte in tutte le regioni italiane, fuorché la Sardegna, dove sono anzi aumentate. Qualunque sia la motivazione reale di una così elevata presenza militare in Sardegna, va detto subito che questa va drasticamente ridotta sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo. La Giunta regionale si è preoccupata di elaborare un quadro di riferimento quanto più possibile vicino al reale, sollecitando dai Comandi territoriali esistenti nell’Isola il censimento esatto delle installazioni militari distinte per ubicazione, ampiezza, natura, specializzazione, frequenze di impiego, condizionamenti, vincoli giuridici e ogni altra utile notizia su situazioni che in qualsivoglia modo influiscano sull’assetto e la gestione del territorio. In effetti, sino a un mese fa, la Regione non disponeva di alcuna documentazione in proposito e, a maggior ragione, non ne disponevano i cittadini. La prima considerazione che si ricava dalla lettura del documento attiene alla scarsa incidenza che le servitù militari, intese nella loro accezione e definizione tecnica, hanno nel complesso globale della presenza militare in Sardegna. Da qui la necessità di ricomprendere nel concetto di servitù militari tutto l’insieme variamente articolato e diversificato dei condizionamenti che installazioni fisse e dinamica militare determinano sul territorio e alle attività che in questo si esplicano. Territorio inteso non quale puro e semplice spazio fisico ma quale sede di quei processi creativi che l’uomo vi ha espresso nel tempo e che, con il suo permanere, continua a realizzarvi nella prospettiva per lo sviluppo. Uno spazio che diventa storia, testimonianza viva e palpitante della vitalità di un popolo, del suo modo di essere, del suo modo di fare civiltà. La presenza militare non può porsi in contrasto con tutto questo ma esserne espressione, direi quasi necessaria, se non spontanea, pena il divenirne elemento estraneo, artificiosamente imposto e, come tale, rifiutato dalla coscienza dei più. Anche la politica militare quindi deve divenire un fatto di popolo, patrimonio delle masse, perché queste l’accettino, vi si riconoscano la facciano propria. Altrimenti avremo l’antinomia di una società civile distinta e contrapposta da quella militare; questa in tale ipotesi finirebbe col diventare un corpo separato nella vita dello Stato. Non di meno la presenza militare in Sardegna ha assunto, per le modalità, l’intensità e l’ampiezza del suo realizzarsi, caratteristiche nettamente autoritarie e colonialiste. Le imposizioni di vincoli e condizionamenti sono stati di volta in volta calati dall’alto, senza un minimo di consultazione delle popolazioni interessante, direi quasi, in dispregio della loro volontà. Basti per tutti la cessione agli Usa della base navale della Maddalena. La Regione ne ha avuto notizia dai comunicati stampa, a cose fatte. È questa una procedura inaccettabile che espropria il potere autonomistico e quindi il popolo sardo del suo diritto-dovere di governare il territorio, inteso quale strumento essenziale e irrinunciabile dello sviluppo economico e sociale. In fondo di questo si tratta: rendere compatibili le esigenze della difesa militare con quelle dello sviluppo economico e sociale della popolazione. E poiché le une come le altre comportano una pianificazione territoriale, ne deriva che le attività militari debbono esplicarsi nell’ambito del Piano urbanistico regionale e non contrastarlo. In Sardegna non abbiamo spazi vuoti e inutilizzati. A ben guardare, le vaste solitudini e gli alti silenzi delle zone interne appartengono più alla sfera poetica, a una visione arcaica e trasfigurata della realtà che non alla realtà dei fatti. (…) (continua domani)

Vero è, invece, che negli ampi spazi, al di sopra dei quali sfrecciano a bassa quota gli aerei da caccia delle Forze Armate Nato, è presente la Sardegna pastorale, con le sue attività produttive. Vi si svolge, cioé, entro i limiti della vocazione economica di quelle terre, una vita intensa di lavoro e quindi di occupazione e di reddito che nel suo insieme costituisce da sempre, e ancora oggi, componente essenziale nella struttura produttiva isolana. Ma non è, potenzialmente, la sola. Oggi, con la accresciuta mobilità sociale e la diffusa tendenza a un recupero dei valori naturalistici, la Sardegna si propone, con la suggestione delle sue marine e l’aspra bellezza dei paesaggi, quale punto di riferimento per le correnti turistiche italiane ed europee, che vi approdano in misura sempre crescente. In una moderna visione della gestione del territorio, questi valori potranno essere esaltati con la creazione di parchi naturali nei quali le attività zootecniche e la fruizione turistica divengono forza dirompente di crescita economica, sociale e culturale. La Regione è severamente impegnata in quest’opera vasta e complessa di recupero ambientale, alla quale dedica rilevanti risorse finanziarie e umane. Dobbiamo dunque evidenziare in questa sede come le servitù militari si siano addirittura tradotte nella costrizione dell’abbandono di terre particolarmente fertili, quali la piana di Teulada o quella di Santadi nell’Arborense. In altri casi (Villasor) la costrizione si è imposta come limitazione di destinazione economica della terra. Imposizioni che interessano migliaia di ettari. Sulla costa occidentale registriamo un freno allo sviluppo turistico dal passaggio continuo di aerei da Decimo al poligono di Capo Frasca, per effetto del frastuono provocato non solo dai motori degli aerei ma anche dal “banzi” dovuto al superamento del muro del suono. È chiaro che chi si riprometteva una vacanza rilassante, capace di tonificare il sistema nervoso usurato da un anno di lavoro, si allontanerà precipitosamente e vivrà il ricordo della Sardegna come un incubo angoscioso. A questo si aggiungano i bombardamenti. Poco importa che vengano sparati proiettili, bombe o siluri inerti. I bombardamenti vengono effettuati e tanto basta per creare condizioni oggettive di diffuso malessere quando non anche di paura e, in qualche caso, di danno.Tutto ciò crea ovviamente il blocco dell’espansione turistica e quindi dello sviluppo economico. Durante i giorni di esercitazione, praticamente tutto l’anno, nel tratto di mare interessato dal poligono è inibita la pesca e la navigazione da diporto. Una situazione del tutto analoga si deve denunciare sulla costa orientale, non solo nei tratti terrestri e marittimi interessanti il poligono militare di Perdasdefogu, ma addirittura su tutta la costa ogliastrina, per effetto delle esercitazioni aereo-navali che vi si svolgono nel corso di tutto l’anno, fatta eccezione per i giorni festivi. Non sono infrequenti vere e proprie operazioni di sbarco, accompagnate da azioni di guerra su tratti di mare che vanno da Capo Comino a Villaputzu. Ai pescatori come ai turisti, così come alle stesse navi di linea o a quelle croceristiche vengono regolarmente interdette le rotte interessanti questi tratti di mare dalle prime ore del mattino sino alla tarda sera, con danni enormi di cui è addirittura difficile calcolare l’entità perché nel concreto si traducono in un vero e proprio blocco dello sviluppo. Concludendo su questo punto, aggiungerei che anche i cieli di Sardegna sono sostanzialmente inibiti ai sardi. Gli aerei di linea, così come i voli charter, sono costretti quasi quotidianamente a lunghe e costosissime variazioni di rotta che sono la causa prima non solo del prolungamento dei tempi di volo ma anche degli aumenti di tariffa periodicamente richiesti dalle compagnie aeree. Dobbiamo quindi andare alla conferenza nazionale sulle servitù con la ferma decisione di liberarci dal viluppo di condizionamenti e limiti cui la presenza militare condanna la Sardegna, disponibili ad accettare quella parte di sacrifici che siano strettamente funzionali alla Difesa dello Stato. Non possiamo tollerare che nel rapporto tra le esigenze della difesa e quelle dello sviluppo, queste ultime debbano soccombere. La legge 24 dicembre 1976 relativa alle procedure di imposizione e gestione delle servitù militari è una buona legge ma è stata gestita male dalla Regione. Al presidente della Giunta sono riconosciuti poteri che vanno dalla richiesta di dispensa dal segreto militare a quello di convocazione del Comitato paritetico, alla capacità di iniziativa per la sospensione delle procedure impositive di nuove servitù, con diritto di partecipare alla riunione del Consiglio dei ministri investito della decisione. Non solo: le servitù militari sono soggette periodicamente a revisione, per valutarne l’utilità attuale. Rientra nel diritto-dovere della Regione elaborare una sua proposta politica volta a ridimensionare l’ampiezza e la qualità delle servitù in atto. Di fatto le altre regioni italiane si sono largamente avvalse delle prerogative sancite in legge, ottenendo la riduzione del 60% delle servitù. Per quanto riguarda la nostra, salvo episodici contatti con i comandi militari, non risulta formalizzata alcuna richiesta, né impugnato nessun provvedimento. Non meraviglia, quindi, se il peso della presenza militare nella nostra Isola sia andato aumentando anziché diminuire. Dovremmo poi farci promotori, insieme con le altre Regioni, di una legge che imponga al ministero della Difesa la restituzione gratuita alle comunità locali, con vincolo di destinazione a usi pubblici, dei beni dismessi dall’autorità militare. Onde evitare operazioni di tipo speculativo dovrà essere vietata la cessione a privati. L’ultimo argomento fa riferimento alle cosiddette compensazioni, visto che in proposito emergono tesi diverse. Mentre da un lato si assume una linea di pura e semplice monetizzazione del danno derivante dalla presenza militare, poggiando l’accento sull’esigenza di un adeguato incremento degli indennizzi previsti in legge a favore dei cittadini e delle comunità locali, da altri si sostiene l’opportunità di tradurre le compensazioni in opere infrastrutturali e servizi di interesse collettivo. È nota, ad esempio, l’aspirazione dei foghesi alla realizzazione di una strada che li colleghi rapidamente a Tertenia e quindi all’Orientale sarda. Così come, per passare ad altro campo di esperienze, è risaputo che l’Esercito, da alcuni anni, interviene con impiego di personale proprio e di propri mezzi, soprattutto elicotteri, nella campagna antincendi. Concludendo, solo da un reale empito di solidarietà nazionale possono trovare soluzione i gravi problemi su cui mi sono soffermato. Solidarietà che deve scaturire dalla contestuale disponibilità del governo, della Regione e delle Forze Armate. Serve una puntuale verifica dell’esistente per rendere possibile una corretta ridislocazione delle servitù militari nella visione di un’equa ripartizione dei sacrifici. La solidarietà intesa come atto unilaterale è pura ipocrisia, tesa a nascondere e a mascherare il colonialismo. L’italianità dei sardi si misura entro i limiti della sardità degli italiani.

L’Italia bombarda la Sardegna. Ma per Pigliaru questo non è “inconcepibile”

4 settembre 2014 alle 23:4123

 

L’incendio provocato oggi nel poligono di Capo Frasca dalle esercitazioni militari, iniziate quattro giorni fa. La foto è di Gianluca Collu, che ringrazio per avermela inviata

“Inconcepibile” è una parola grossa: ma, come tutte le parole, va valutata nel contesto in cui viene utilizzata. Per il presidente Pigliaru, ad esempio, “è inconcepibile che la Regione scopra da fonti non ufficiali che un grave incidente è avvenuto oggi a capo Frasca nel corso di una esercitazione militare”. Per me invece è inconcepibile che il presidente Pigliaru non si indigni perché una parte dell’isola che i sardi gli hanno dato da governare, da quattro giorni viene bombardata nonostante il parere negativo del Comitato Misto Paritetico sulle servitù militari.

Per il presidente Pigliaru “è inconcepibile che la conferma reale delle dimensioni dell’incendio arrivi solo dopo l’intervento degli uomini del nostro Corpo forestale, e che il ministero della Difesa da noi interpellato attraverso canali informali,  parli di un piccolo incendio già domato quando invece l’elicottero del Corpo Forestale era ancora in azione alle 18.30, cinque ore dopo che il proiettile aveva innescato il fuoco”.
 Per me invece è inconcepibile che nel suo comunicato stampa il presidente Pigliaru non faccia minimamente cenno alla richiesta della sua giunta di pretendere dallo Stato italiano la chiusura dei poligoni sardi, così come stabilito dalle commissioni parlamentari di CameraSenato.

Per il presidente Pigliaru è invece venuto il momento di istituire la figura degli “osservatori ambientali indipendenti”. Per fare che cosa non si capisce bene: per osservare se le esercitazioni a fuoco inquinano e devastano le coste sarde il tanto giusto, secondo quanto imposto dallo Stato italiano?

Per me poi è anche inconcepibile che il presidente Pigliaru affermi che “tra le richieste presentate al ministro della Difesa nella Conferenza nazionale sulle servitù, c’è quella di prolungare il blocco delle esercitazioni, anticipando l’inizio al primo giugno e posticipando la conclusione al 30 settembre”. La richiesta più corretta di un presidente della Regione sarebbe quella di chiedere il prolungamento del blocco delle esercitazioni dal primo ottobre al 30 settembre dell’anno successivo. E per sempre.

Pigliaru si vanta di non aver firmato il protocollo d’intesa con lo Stato sulle servitù militari, ma quale sia la sua posizione al tavolo del confronto con il governo Renzi nessuno lo sa. Sbandiera una trasparenza che al momento non esiste e ci sono forti dubbi che stia facendo il gioco dei militari (cioè che si prepari a chiedere esattamente ciò che i militari hanno da tempo deciso di concedere, come ho spiegato nel post“Basi e poligoni in Sardegna: ma il presidente Pigliaru fa il gioco dei militari?”).

Progres lo ha accusato di intavolare trattative segrete (e anch’io l’ho fatto in precedenza) e lui ha risposto senza rendersi conto di dare ragione agli indipendentisti nel momento in cui ha affermato

“La mia posizione è chiara e trasparente, è quella che ho presentato alla Conferenza Stato-Regioni e che fra l’altro è stata approvata all’unanimità dal Consiglio Regionale. Gli incontri informali che si sono tenuti dopo quella Conferenza sono stati utilizzati per ribadire più volte e con la massima chiarezza la posizione espressa in quella occasione, sia nei termini generali che nei singoli punti lì elencati.

“Gli incontri informali”, appunto. Tra “informali” e “segreti” la differenza è pressoché irrilevante. A meno che il presidente non ci dica subito chi ha incontrato, dove e per quante volte. Altrimenti quegli incontro sono stati veramente segreti e tali devono restare.

Pigliaru non può pretendere di tenere l’opinione pubblica sarda all’oscuro della sua posizione sulle servitù militari e non può neanche ignorare il movimento popolare che in questi mesi sta montando contro i poligoni. I documenti del parlamento parlano chiaro: due poligoni su tre vanno chiusi e bonificati (Capo Frasca e Teulada) e un terzo (Salto di Quirra) fortemente ridotto e riqualificato.

Da parte della Regione  non può dunque partire nessuna trattativa seria con lo Stato che non abbia come base la richiesta della chiusura immediata del poligono di Capo Frasca, di tempi certi per la chiusura di quello di Teulada, e di risorse immediate per la riqualificazione di Perdasdefogu. Per non parlare poi delle bonifiche: se il governo Renzi non si rimangia il decreto che equipara i livelli di inquinamento tollerati nelle aree militari a quelli ammessi nelle aree industriali, Pigliaru non dovrebbe neanche sedersi al tavolo delle trattative.

La Sardegna non se ne fa niente di quattro spiagge sottratte ai bombardamenti, dei sotterranei di La Maddalena, del prolungamento di qualche settimana del blocco delle esercitazioni o dell’aumento dei miseri indennizzi oggi corrisposti alle comunità locali: non è di questo che si sta parlando, non è questa la posta in gioco. La posta in gioco è la chiusura in tempi certi dei poligoni, la cui esistenza e attività è ormai, questo sì, “inconcepibile”. Nella Sardegna che verrà non ci dovrà essere spazio per enormi porzioni di territorio sottratte allo sviluppo. Spieghi Pigliaru se nel suo modello di sviluppo è contemplata la presenza di aerei e navi che bombardano l’isola per dieci mesi all’anno.

Pigliaru si è assunto la responsabilità storica di dire no ai militari ed ora ha la responsabilità (ancor più storica) di non chiudere un accordo al ribasso che rischierebbe di cristallizzare la situazione delle servitù militari nell’isola per i prossimi decenni, ovviamente a scapito della Sardegna.

La manifestazione fissata per il 13 settembre davanti all’ingresso della base di Capo Frasca può rappresentare un punto di svolta. Certo, non mi aspetto (come ha auspicato Nicolò Migheli nel post “Il silenzio della Regione”) che quel giorno Pigliaru convochi lì la sua giunta; ma che almeno ascolti le richieste della società sarda e che inizi finalmente a giocare a carte scoperte, quello sì.

Così come i partiti sovranisti che sostengono Pigliaru (Irs, Partito dei Sardi e Rossomori) non possono continuare a tacere. La loro posizione a questo punto deve essere forte e chiara, e la loro capacità di condizionare l’operato del presidente reale.

Detto questo, Il 13 bisognerà essere veramente in tanti. Organizziamoci.

 

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    1 Comment to “Servitù militari, Pigliaru va alla guerra: ma con quali armi? Il testo integrale del suo intervento in Consiglio regionale, di Vito Biolchini”

    1. By Vittorio Piras, 10 settembre 2014 @ 20:21

      Un’occasione storica da non perdere per riproporre con forza il valore dell’ Autonomia
      e della Indipendenza della Sardegna. Sotto un’unica bandiera, con unità di intenti e con
      uomini animati da spirito di servizio a favore del popolo sardo.