OLTRE LA CRISI: IL LAVORO E L’AUTOGOVERNO, di Mario Medde
Mario Medde è uno dei promotori della Carta di Zuri.
La crisi dell’Italia si evidenzia in quattro importanti indicatori : l’inflazione che a luglio riporta un dato tendenziale di – 0,1 %, dunque un Paese in deflazione, l’aumento del tasso di disoccupazione al 12,6 %, il crollo dei consumi, con un dato tendenziale a giugno delle vendite al dettaglio di – 2,6 %, la variazione negativa del PIL , – 0,2%, nel secondo trimestre 2014, con una previsione da parte dell’ISTAT di stagnazione anche nel terzo trimestre.
Il Governo approva il decreto “Sblocca Italia” con misure riguardanti le opere pubbliche, la banda larga, l’energia, l’edilizia, la CIG, la Cassa Depositi e Prestiti, la Giustizia, in particolare quella civile.
Un provvedimento molto al di sotto delle aspettative e soprattutto delle necessità, per quel che riguarda l’entità delle risorse, per i temi affrontati, per le priorità dimenticate. I sindacati e le associazioni datoriali hanno messo in evidenza la inadeguatezza del provvedimento e la necessità invece di un progetto per la crescita, il lavoro, il fisco e la politica industriale.
Sul lavoro il modello è quello tedesco, sostiene il presidente del Consiglio. Ma non c’è quasi nulla nell’esperienza della Germania, relativamente alle misure messe un campo sul lavoro, che non sia stato tentato in Italia. Al di fuori di due aspetti: il rafforzamento della formazione professionale e la cosiddetta cogestione con i sindacati nelle strategie dell’impresa. L’enfasi data al Jobs Act e il richiamo al modello tedesco non può risolversi in un’ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro e in una contrattazione che riduce ancora di più i livelli salariali dei lavoratori. La forza del modello tedesco sta tutta nell’efficienza dell’apparato burocratico e nella struttura ed efficienza della sua economia, e soprattutto nella tradizione e qualità delle relazioni sindacali e industriali, cosa, quest’ultima, lontana anni luce dall’attuale cultura di governo.
L’azione del Governo è dunque sempre di più insufficiente rispetto alla dimensione e complessità della crisi economica e finanziaria ; appare infatti incentrata essenzialmente sul vitalismo comunicativo del Presidente del Consiglio, sull’accentramento delle decisioni e la totale assenza di coinvolgimento della società e delle sue rappresentanze nelle scelte necessarie a rilanciare l’economia e a riformare le strutture dello Stato.
L’illusione che finora ha accompagnato il renzismo è che sia possibile in Italia governare e dare positive risposte ai problemi del Paese in una dimensione tutta personalistica, rafforzata da un vitalismo giovanilistico, piuttosto che dal consenso derivante dalla reale rappresentanza della società e dalla consapevolezza della fatica della democrazia e dei passaggi ineludibili che essa comporta. Un decisionismo dunque fine a se stesso e senza un processo deliberativo e partecipato. Un’illusione, quella che sostiene il renzismo, presente e purtroppo costante nella storia d’Italia, e che ha però comportato amari e costosi risvegli all’intero Paese e in primo luogo ai lavoratori.
In questo scenario la Sardegna sta già pagando un prezzo altissimo e non solo per effetto della crisi. È dunque urgente adottare una strategia e un progetto in grado di guidare l’Isola tra Scilla (la recessione) e Cariddi (il renzismo).
Mentre il tasso di disoccupazione del secondo trimestre 2014 si attesta sul 17,7 %, uno 0,9 in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, calano però gli occupati e la forza lavoro; un segnale questo che la dice lunga sul fenomeno dello scoraggiamento. Infatti la disoccupazione implicita, che comprende le persone inoccupate e disoccupate disponibili a lavorare, ancorché non rispondano ai parametri stringenti e riduttivi dettati da Eurostat, porta a un tasso di disoccupazione reale intorno al 26%.
Oltre 30.000 sono i lavoratori che usufruiscono degli ammortizzatori in deroga, e per i quali non è all’orizzonte una possibilità di reimpiego; si è infatti di fronte a un sistema produttivo e industriale caratterizzato da una crisi che lascia ben poche speranze alla ripresa e al rilancio, in primo luogo perché nessuna delle diseconomie esterne al processo produttivo (energia, trasporti, insularità, servizi alle imprese, tariffe e tributi, infrastrutturazioni materiali e immateriali ) viene affrontata dalle istituzioni regionali e nazionali.
Una Sardegna dunque che s’impoverisce sempre di più, nelle sue strutture produttive e nella capacità di creare ricchezza, nel reddito familiare, considerato che l’incidenza della povertà delle famigli sarde si aggira intorno al 22%, in valori assoluti oltre 350.000 persone al di sotto della soglia di povertà.
Il sogno dei sardi è dunque e senz’altro il lavoro, e un reddito sul quale contare per investire sulle proprie capacità e sul futuro. Ma quale progetto mettono in campo la Regione e lo Stato per affrontare i più importanti problemi dell’Isola e perché le istituzioni diventino credibili agli occhi dei cittadini ? È evidente l’urgenza di scelte e di proposte operative, adeguate alle attuali difficoltà, su questioni decisive per la Sardegna.
A iniziare dal destino dell’Autonomia e della specialità, la cui positiva evoluzione necessita di un serio progetto per la reale autonomia finanziaria della Regione. Non c’è sufficiente chiarezza sui rapporti con lo Stato, anzi appare manifesta una sudditanza che non lascia ben sperare né sulla positiva rinegoziazione del patto costituzionale attraverso un nuovo statuto speciale, né sulla revisione della finanza derivata, sul riconoscimento dei crediti maturati, sulla rimodulazione del patto interno di stabilità e sull’intero importo delle risorse aggiuntive e dovute dallo Stato; aspetti fondamentali sui quali costruire e fondare l’autonomia finanziaria e quella politica e istituzionale.
C’è chi sostiene che di questi tempi non convenga neppure sollecitare la rinegoziazione del patto costituzionale e del nuovo statuto, perché i rapporti di forza sono del tutto sfavorevoli alla Sardegna e alla stessa idea di specialità. Strano, ma ad affermarlo sono gli stessi sostenitori del renzismo, e dunque della nuova cultura del decisionismo centralistico. Si valuti l’esito della cosiddetta riforma istituzionale e il volto e le funzioni del nuovo senato, neppure parente di quel senato delle Regioni che, se eletto e considerato come seconda camera, poteva svolgere un ruolo importante di rappresentanza territoriale e delle autonomie.
È dai primi anni del 1990 che si discute, anche in sede di specifiche commissioni consiliari, sulla revisione e riforma dello statuto speciale e del patto con lo Stato, ma inutilmente, sia sul versante degli strumenti che dei contenuti. La verità è che bisogna, come in tutte le cose, avere un progetto e creare le condizioni per raggiungere degli obiettivi. A maggior ragione in politica, dove i rapporti di forza e il consenso non sono frutto del caso, ma della passione, della partecipazione e dell’impegno personale e collettivo, in primo luogo dei gruppi dirigenti. Dunque se non ora, che è sotto attacco pure quell’autonomia ormai logora e superata dagli eventi, a favore di un nuovo centralismo dello stato, quando mettere in campo una nuova idea e pratica di autogoverno?
Insieme alla questione istituzionale (la nuova Regione, diversa dal pernicioso modello statuale, e il nuovo modello di democrazia) e a quella costituzionale (la specialità e il nuovo patto con lo stato), con un’evidente interdipendenza, vi è il problema sempre più drammatico del lavoro e della crisi economica e produttiva. Anche qui lascia a desiderare, sul versante politico e istituzionale, sia l’analisi che il progetto. È pur vero che si è di fronte a difficoltà di ordine planetario, con interdipendenze nei mercati economici e finanziari che anche gli stati e le organizzazioni mondiali fanno spesso fatica a governare, ma ciò che manca riguarda la risposta ad almeno quattro problemi specifici della Sardegna.
Il primo, forse parte integrante delle ragioni da portare al tavolo negoziale sul nuovo patto costituzionale, anche se avrebbe una sua autonoma dimensione negoziale, riguarda il tema dell’insularità, del riconoscimento di questo status, e delle pari opportunità che motivano il fare parte con dignità e autorevolezza di un aggregato istituzionale, sia in Italia che in Europa. Un argomento largamente discusso negli ultimi quindici anni, ma mai diventato obiettivo politico e oggetto di vero contenzioso, e oggi così diffusamente dimenticato e però fondamentale per promuovere le condizioni della competitività del sistema Sardegna, iniziando a rimuovere le diseconomie e i problemi derivanti dall’assenza di contiguità territoriale e, al contrario, valorizzando le specificità della cultura e dei beni materiali e immateriali della storia insulare.
Il secondo, complementare al primo e di cui abbiamo già accennato in apertura, è rappresentato dalla promozione di un habitat ottimale per l’impresa, in termini di abbattimento e/o significativa riduzione delle profonde diseconomie esterne al processo produttivo, energia, trasporti interni ed esterni, assetti idrici, costi tariffari e fiscali anche di competenza territoriale e regionale. Competere, e restare sul mercato, senza rimuovere i lacci e lacciuoli, in molti casi vere e proprie catene, è un’impresa di proporzioni colossali.
Il terzo riguarda la riforma del sistema regionale e locale di sicurezza sociale. Un’esigenza improcrastinabile alla luce di una società sempre più assistita, con l’aumento anche della platea degli utenti e di fronte ai tagli del Governo. In aggiunta si registra l’incremento delle competenze trasferite, l’evidente rigidità del bilancio regionale e la scarsa disponibilità di risorse finanziarie. Politiche del lavoro e sistema regionale di sicurezza sociale dovrebbero non solo interagire, ma rispondere a un disegno unitario perché sempre di più si affermi il diritto-dovere alla ricerca dell’integrazione piuttosto che alla mera gestione dell’assistenza.
Il quarto problema che è possibile e necessario affrontare nell’Isola è quello del deficit educativo, formativo e scolastico. Una filiera le cui componenti debbono godere della loro autonomia in una visione integrata e in rapporto con il mondo del lavoro e con le altre agenzie educative, nel rispetto e nella promozione del pluralismo dell’offerta formativa. In questa direzione si rende più che mai urgente la riforma della formazione professionale, con un accreditamento delle agenzie formative in grado di dimostrare profondo e diffuso radicamento nell’Isola e nei diversi territori, organico e professionalità adeguate, strutture utili a un’offerta formativa non occasionale ma con strumentazione e didattica all’altezza del piano educativo e formativo. Altrettanto indispensabile è la revisione del ruolo dell’Ente Regione in fase di governo e gestione del sistema formativo. Attualmente si è in una fase di indeterminatezza strategica sul ruolo delle istituzioni locali, soprattutto a seguito delle vicende connesse al destino delle province e al futuro dell’ente intermedio, ma anche alla scarsa fortuna politica dei principi e degli obiettivi enunciati dal titolo V della costituzione, che avevano portato a una prima ripartizione di funzioni e competenze tra Regione e Province, relativamente all’offerta formativa e alla stessa gestione del sistema. La riforma dovrebbe fare chiarezza e per garantire efficienza, efficacia e maggiore trasparenza sarebbe necessario lasciare alla Regione le competenze relative alla programmazione (in sintonia con l’Ente intermedio) e coordinamento, accreditamento e certificazione delle competenze, valutazione degli esiti e servizio ispettivo. Si tratta dunque di assegnare ai soggetti territoriali istituzionali, o a un soggetto terzo, la governance del sistema formativo sulle diverse modalità di selezione e individuazione delle agenzie formative, sulla gestione didattica, amministrativa e rendicontuale.
Per quel che concerne la scuola, indipendentemente dal fatto che in fatto di governance del sistema la Regione abbia dei poteri (non esclusivi poiché in ultima analisi diventa determinante da parte del Ministero dell’Istruzione l’assegnazione degli organici di fatto e di diritto e l’individuazione del parametro relativo al rapporto alunni-classe) solo sulla organizzazione della rete scolastica, è tempo che si doti di un proprio Piano per i diversi livelli di istruzione. Non solo sul versante dell’edilizia scolastica, ma della lotta alla dispersione, del diritto allo studio, della didattica e della strumentazione, degli organici, della formazione e aggiornamento del corpo docente, dell’organizzazione della rete scolastica, dell’insegnamento della lingua e cultura sarda. Un progetto per il sistema scolastico della Sardegna, preceduto da un’indagine e da un’analisi dell’esistente, da un confronto interno ed esterno a quel mondo, per consentire, tra gli altri obiettivi, di avviare così un vero e proprio contenzioso con il Governo e il Ministero dell’Istruzione, ma anche per predisporre una nuova legge sulla scuola e il diritto allo studio nell’Isola.
Su questi e altri decisivi problemi per promuovere una vera svolta in Sardegna sono certamente prioritarie nuove norme e contenuti innovativi. È illusorio però pensare che il cambiamento stia semplicemente nella bontà della legge e dei suoi contenuti. La coerenza e la forza della norma, la sua tempestiva approvazione e messa in campo non sono sufficienti a renderla efficace. Lo diventerà qualora maturi l’interesse e l’adesione dei cittadini che la vivono. Interesse e adesione che, lo si voglia o no, possono essere promossi e sollecitati non solo dalle organizzazioni della politica, che non vivono quotidianamente la verifica del consenso, ma anche da quelle del sociale, delle imprese e del volontariato.
Purtroppo, all’ordine del giorno dell’agenda sarda non pare esserci per il momento nessuno di questi problemi. Al contrario, detta legge l’emergenza che divora non solo le strategie e le proposte in grado di incidere sulle cause strutturali e specifiche della crisi dell’Isola, ma ne alimenta una durata priva di qualsiasi speranza e progetto di inclusione sociale e nel mercato del lavoro.