Per Bachisio Zizi (3), ancora una testimonianza, i versi del 1968, l’immagine nel racconto autobiografico, un testo inedito. Qualche idea per onorare la memoria di un grande umanista, di Gianfranco Murtas

FOTO:  Orune, il paese originario di B. Zizi.

«Scesero dai monti i miei pastori / con uno straccio di bandiera in pugno / e tanta amarezza nel cuore;

«lasciarono le greggi / vaganti per tanche disperate, / spinte da secoli di fame

«e sfilarono / per strade toccate dal benessere / avvolti nell’indifferenza / di gente sazia, immemore / della fame dei padri.

«Per vincere i pudori / andarono tutti in gruppo / fischiando sull’arco delle dita:

«ai soli cocenti del Campidano / le stinte vesti fumavano / di sudori antichi e nuovi.

«Poi sostaron nella piazza / i miei pastori / perché i sapienti vollero spiegare / ciò ch’è chiaro / come l’acqua delle sorgenti;

«e furono fiumi di parole / perché anche altri / vollero precisare / ciò ch’è espresso dalle rughe / scavate sulle fronti / bruciate dai venti.

«Trafitti dai bagliori di marmi sfacciati / attesero ancora i “barbari”, / davanti a grattacieli spaventosi / dove i problemi roteano in silenzio.

«Per rendere più alta la protesta, / fischiarono a lungo i miei pastori, / ma ebbero solo parole, / dette con tono d’amico / per seminare dubbi / e confondere coscienze;

«fischiarono più forte / e i sibili squarciarono i cieli, / ma non scalfirono le rocce / dell’indifferenza.

«A sera tornarono sui monti / con la bandiera raccolta sotto il braccio / e trovaron l’antica solitudine;

«per non sentirsi soli / chiamaron le greggi / stanche d’impazzire fra gli sterpi / cercando l’erba che non crescerà.

«Non avevan memoria di lacrime /i pastori / perché l’arsura aveva asciugato / anche le fonti del pianto: / sfogarono il dolore cantando, / seduti sulla pietà dei sassi, / e fu un canto lungo e triste / come un lamento».

Una svolta, quella volta

L’episodio ha certamente la sua registrazione in un giorno del calendario. Esso vanta uno scenario e molti personaggi. Uomini e cose, insieme, sono i protagonisti: in pugno lo straccio d’una bandiera barbara…, i fischi barbari sull’arco delle dita…, fumanti di sudore le vesti barbare sotto il sole contrario di Cagliari… – così nei versi del poeta. Di contro, dimentica della comune fame avita la gente di città tutt’attorno indifferente…, gli algidi marmi dei supponenti grattacieli…, sulla cattedra della suadenza imbrogliona i tribuni dell’ovvio… E’ tragedia e commedia (commedia sbagliata) insieme. Nel rimbalzo ecco il silenzioso roteare dei problemi barbari…, ecco dall’arte dei retori la semina dei dubbi volti soltanto a confondere le coscienze barbare…, ecco la sconfitta dei pastori un’altra volta ancora forse…, ecco il rientro fra le pecore stanche d’impazzimento nel mezzo degli sterpi sterili…, ecco conclusivo il lamento asciutto della impotenza… Lirismo impressionista d’un poeta barbaro chiamato ai fischi anche lui, d’un poeta che conosce per vissuto le tanche e le solitudini, i pudori e la rabbia, le bestie collettive e la pietà delle pietre.

L’annus horribilis doveva essere il 1968, iniziato presto… già nell’estate-autunno 1967, anzi nella primavera 1967, o prima, se mai sia possibile individuare, sul calendario, il punto di partenza di un qualsiasi evento della storia come pure della natura. A Roma il governo Moro di centro-sinistra, stessa formula in Sardegna a sostegno di giunte (quelle di Dettori e poi di Del Rio) contestative degli indirizzi politici nazionali, e nella cronaca quotidiana i sequestri di persona, gli atti banditeschi e gli assassini di uomini dell’Arma, i blocchi stradali e le proteste sociali – ora nelle campagne, ora nelle miniere, ora nelle università (Farmacia a Sassari, Magistero a Cagliari, poi tutte le facoltà di entrambi gli atenei), ora nelle carceri (Oristano, poi Nuoro)– in una successione da film d’incubo, e qualche arresto di latitanti – a moderare la febbre – dopo un ennesimo conflitto a fuoco e dopo che seicento celerini della PS con ogni armamento possibile sono sbarcati ad Olbia e si sono divisi il territorio con 300 carabinieri, anch’essi di rinforzo, fra Barbagia e Baronia, Goceano e Gallura, e altre regioni e subregioni del continente sardo.

Valga qualche dato che zampilla dalle statistiche dei comandi di polizia e dei carabinieri o dalle relazioni dei procuratori generali alla puntuale inaugurazione dell’anno giudiziario in Corte d’appello: almeno quaranta i sequestri da marzo a completare l’anno e bissare nel 1968 (Gianni Dessolis infine assassinato come i suoi emissari, Michele Sedda, Giuseppe Tiana, Peppino Pinna, Peppino Capelli e il suo autista, Peppino Catte, Aurelio Baghino poi ucciso anche lui, Gianni Caocci, Ignazio Tolu, Giuseppe Deriu, Ennio Papandrea e Domenico Canetto, Giovanni Campus, Luigi Moralis, Nino Petretto il figlioletto, Paolino Pittorru, Daniele Mureddu, Nando Tondi, Luigi Ledda, Matteo Onni…), allargando sempre più, sulla cartina geografica, i luoghi dell’umiliazione: Mamoiada e Gavoi, Bono e Bonorva, Nuoro e Dorgali, Aritzo ed Atzara, Bortigali ed Ozieri, Calangianus e Fonni, Siniscola e Santulussurgiu, perfino Sinnai e Cagliari… Un centinaio sono gli omicidi – il sindaco di Ruinas Antonio Tatti, l’industriale cagliaritano Gianni Picciau, i siniscolesi Giovanni Cherchi e Giovanni Vitiello… – , di più ancora le rapine…

Virtuosa e consolante la cattura di latitanti come Gavino Falconi e gli orunesi Antioco Serra e Luigi Serra, e Cristoforo Serra…, di Graziano Mesina anche (marzo 1968), e di chi progetta a Sassari o in Barbagia rapimenti e rapine – nella rete, chissà se colpevoli, l’avv. Bagedda e l’avv. Piras –, dolorosa comunque la morte dei fuorilegge,  come Miguel Atienza (evaso dal carcere complice di Mesina) ed Antonio Maria Sini, e Giovanni Pirari studente datosi al brivido della macchia… Di contro, ad oscurare ancor più il tutto, arresti a Sassari per due commissari di polizia e un brigadiere, accusati di forzature fraudolente nelle indagini…

Caduto ad un posto di blocco presso Sa Ferula il carabiniere Giovanni Bianchi (ai cui funerali interviene il capo dello Stato Saragat), caduti altri colleghi in una carneficina che sgomenta per la sequenza dell’efferatezza. Delegittimate le istituzioni rappresentative, un’assemblea popolare ad Orgosolo dichiara la decadenza della giunta comunale…

Orgosolo, con Mamoiada e con Orune, è il cuore del malessere. Circondata e perlustrata dalle forze dell’ordine, gli scontri a fuoco avvengono con lancio perfino di bombe a mano e bengala, è rastrellato il Supramonte… Scontri si registrano anche fra diverse migliaia di residenti di Lodè, da una parte, e Siniscola dall’altra, per il possesso terreni di Sa Mela… Sembra una guerra, giusto cento anni dopo i moti di “su connottu”, che presto rimbalzeranno in un testo teatrale.

La Sardegna soffre. Perché prima e dopo e durante, il quadro è anche quello degli scioperi generali che denunciano la condizione sociale dell’Isola, ma guardano insieme alla inquietudine che percorre e sfibra l’Italia tutta (quando a dettare i titoli dei giornali sono la contestazione giovanile e le battaglie sindacali d’avanguardia come per l’abbattimento delle gabbie salariali, ecc.).

La politica autonomistica cerca i suoi rimedi, lavora la commissione consiliare per la Rinascita delle zone interne, si approva il IV programma esecutivo di quel famoso Piano dei 400 miliardi da spendere in quindici anni con promessa (a rapsodico mantenimento) di aggiuntività degli stanziamenti, mentre il Parlamento vota la istituzione di una speciale commissione di inchiesta sulle cause del banditismo, il Cipe delibera sette miliardi di investimenti per le zone interne e l’Efim quelli per il polo alluminio. Oristano rilancia (vanamente e con supplemento di frustrazioni) le sue speranze di diventar provincia… L’ingegner Rovelli compra “La Nuova Sardegna” e poi, attraverso una fiduciaria svizzera, “L’Unione Sarda”: all’immagine sporca della petrolchimica (già in sofferenza per la mancanza di acqua ai macchinari e quindi in fermo di produzione) egli oppone una informazione condizionata e le performance del Brill Cagliari. Moratti, patron della Saras, gli si affianca acquistando le azioni del Cagliari che andrà allo scudetto, e il principe Karim assorbe la Sardegna tutta dentro lo spot farlocco della Costa Smeralda. Chiaroscuro, come sempre è nella storia sociale non meno che in quella individuale, ma qui emergono e spaventano – ad osservare le cose dal cuore dell’Isola, non dagli uffici amministrativi della capitale – soprattutto le ombre.

Le elezioni politiche del maggio 1968 preparano stagioni più difficili di quelle passate, non soltanto in Sardegna, che l’isolamento continuerà a sentirlo e pagarlo, sciopero di motonavi dopo sciopero di motonavi. I canoni d’affitto dei pascoli per l’annata 67-68 è stato ridotto, da una legge regionale, di un buon terzo, ma manca una visione generale detta di prospettiva, cioè di futuro, per la generazione che soffre e per quella che subentrerà.

Cinquecento giorni, fra 1967 e 1968, orribili tutti e per tutti, meno che per gli impiegati regionali e quelli statali e parastatali che il loro servizio lo rendono da postazioni protette. Giorni orribili contro cui certamente la risposta valida non può essere, non potrà mai essere quella dei  cosiddetti separatisti e nazionalitari, dei faciloni portatori di nuovi dogmi. Drammaticamente inadeguata la capacità di analisi e di intervento della Chiesa, stanca nonostante il Concilio, anche se non senza eccezioni, e belle eccezioni!

Quella volta della protesta era stato il 28 novembre 1967: duemila pastori avevano manifestato nella capitale dell’Isola, e nella centralissima via Roma avevano tacitato il nemico – o quello che sentivano essere il nemico (perché «i sapienti vollero spiegare / ciò ch’è chiaro / come l’acqua delle sorgenti»), zittito anche l’assessore dell’Agricoltura Peppino Catte, un socialista vero e un democratico vero, olienese puro, che di fronte al palazzo della Regione aveva cercato di placare la furia, quello stesso giorno che altri, disperati anch’essi, in zona mineraria, avevano scelto per un blocco stradale ed il seguito in tribunale…

Nel 1968, esordendo nella distribuzione, una rivista di cultura, arte e storia, ma anche di riflessione sulla contemporaneità, una rivista mensile ch’era stata voluta da un pensatore ed artista “collocato” sia nella ideologia (il filone cattolico) che nel territorio (Nuoro e la sua provincia) come Remo Branca, Bachisio Zizi aveva voluto pubblicizzare il suo proclama in versi: sul numero di ottobre di “Frontiera”.

Quello stesso anno, da Fossataro, egli aveva dato alle stampe la sua opera prima, “Marco e il banditismo”, storia della ricerca condotta da un giovane laureando sulle cause della delinquenza rurale. E quello stesso anno, promosso vice direttore di banca, settorista ai fidi, e presto condirettore e direttore, aveva anche dovuto traslocare da Nuoro a Cagliari, Zizi, e aveva anche dovuto superare molte prove, molte perplessità, prima di accettare, avendo messo sul conto perfino l’abbandono dell’ufficio, le dimissioni cioè. Perché Nuoro restava il fuoco della sua esistenza. Un fuoco che sarebbe stato fuoco di un’ellisse, in una metafora di anni successivi, insieme con Orune, l’altro essendo ormai diventato il mondo: Cagliari, Napoli, Roma, Cagliari, ancora Cagliari, la città d’elezione e delle compresenze isolane, del meticciato, della modernità verticale, che non si sognava certo di umiliare la città e il paese delle radici e dei primi umori, ma che pure ne registrava i drammatici ritardi, quelli subiti e quelli voluti.  Anche la Deledda e Francesco Ciusa vissero a Cagliari, la Deledda in quell’anno o poco più che la preparò al matrimonio e al passaggio definitivo del Tirreno col suo Madesani, Ciusa per la vita, fino a quel 1949 che avrebbe visto, come in un’ideale staffetta, l’inizio di un altro percorso di vita del giovane orunese capace di mischiare banca e letteratura.

Il soffio del pensiero libero in banca: Giuseppe Susini

Ho ripensato in questi giorni a quante siano state, nei territori dell’Isola, e nel tempo lungo dacché aprì la sua prima filiale – essendo sindaco di Cagliari allora Ottone Bacaredda – il Banco di Napoli, le personalità che dal suo organico si sono distinte per attività civili, amministrative, giornalistiche, letterarie, artistiche. Il numero – assicuro – è elevato, e dà maggior gloria a Bachisio Zizi che di tutti, immaginati in una contemporaneità virtuale, è stato – ove mai le classifiche prive di misuratore abbiano un senso – il maggiore.

Dei molti altri almeno un nome – della stagione immediatamente successiva a quella nella quale erano consoli onorari rispettivamente di Turchia e Grecia (in guerra fra di loro!) il cassiere Giuseppe Sanjust sr. e il pegnorista Efisio Ambrogi ed era editorialista de “L’Unione Sarda” l’addetto alla segreteria ed al credito agrario (che, prima della grande guerra, aprì i soccorsi alle cantine sociali di mezza regione) Gustavo Lastrucci – merita di essere fatto: quello di Giuseppe Susini, senz’altro uno dei più acuti critici letterari che l’Isola abbia avuto nel secolo. Amico e frequentatore di Quasimodo negli anni (1933-34) in cui il poeta prossimo premio Nobel visse a Cagliari (essendo impiegato del Genio Civile), suo corrispondente e sostenitore presso giornali ed editori, autore in proprio di testi – dalle poesie giovanili “Dono Mattutino” (1933) a “Ragionamenti sulla poesia” (1942), da “Antologia lirica di Montanaru” (1993) a “Lo spirito della vita” (1997)… sino all’ultima silloge, “L’Amore e gli Affetti” (uscita quasi in contemporanea, nel 2002, con i due preziosi volumetti dell’epistolario incrociato con Quasimodo: “Vorrei finalmente uscire da questo buio”e “I poeti devono soffrire”), mettendo nel mezzo qualche centinaio di altri scritti… Sì, scritti per giornali locali o nazionali come “Il Mattino” di Napoli, e riviste come “Letterature Moderne”, “Nuova Antologia”, “Letteratura”, “L’Italia che scrive”… Certo anche per “L’Unione Sarda” (che diresse quando i Sorcinelli furono reimmessi, all’indomani del 2 giugno 1946 e perciò alla fine della fase ciellenista, nella gestione del giornale) e “L’Informatore del lunedì” (che fondò nel 1949 e diresse per diversi anni ), o per “Rivoluzione liberale” che, a guerra finita, contando sulle determinanti collaborazioni anche politiche di Francesco Cocco Ortu e Antonio Romagnino (capo redattore), accompagnò l’azione del PLI cagliaritano al tempo della Costituente e dell’avvio repubblicano.

Era giunto al Banco – mi raccontò nell’occasione di un incontro, a casa sua, pochi mesi prima morire ormai ennuagenario – per “antifascismo”, nel senso che era stato licenziato dalla Comit, che a Cagliari gli aveva fatto pagare, nell’occasione di una riduzione del personale, alcune sue imprudenti uscite contro il regime, ed era stato assunto, con procedura rapida, dalla direzione della vicina sede dell’istituto partenopeo, allora affidata a un funzionario di segreto cuore socialista, Giuseppe Cavaliere… Dopo quindici anni trascorsi al Banco di Napoli fra molti riguardi seppure il grado non fosse granché, era passato al CIS di nuovo insediamento, prima vice direttore generale poi direttore generale… Giuseppe Susini, prima di Bachisio Zizi, sospeso fra banca e letteratura.

Il ritratto fisico, l’anima raccontata e i versi d’una poetessa

L’immagine parla, e il ritratto, o addirittura la caricatura, forse più della fotografia. Perché esprime la percezione che di noi ha l’altro da noi, chi ci osserva, chi ci giudica. Ed a Bachisio Zizi capitò di vedersi due volte, con i suoi occhi e con quelli degli altri, cercando le coerenze. Fu quando Giancarlo Buffa – amico da lunghi anni – gli chiese qualche riga di commento al suo tratteggio, e successivamente altre righe ancora come a ringraziarlo di quel suo insistere perché consegnasse la raccolta di “pupazzetti” (come le caricature venivano chiamate nel tempo che fu) a una pubblicazione destinata a restare nel tempo, con il proprio sistema di pagine ordinate, presso le biblioteche domestiche e quelle istituzionali o associative. Qualche riga, veramente qualche pennellata, in anticipazione e in aggiunta alla postfazione del volume poi venuto davvero, bellissimo, quel “Come la luna” dato alle stampe presso le Edizioni Castello nel  1996 («Questo travagliatissimo libro di Giancarlo Buffa stupisce e disorienta: stupisce per le provocazioni che contiene e le reazioni che scatena, disorienta per quel suo contraddire e trasgredire le regole e gli schemi dei generi letterari […] senza proporselo, Buffa inaugura un genere nuovo. L’originalità del libro non sta tanto nella pregevole raccolta di ritratti finemente modellati quanto nell’aver dato voce e parola ai personaggi che popolano il suo universo pittorico…»).

La nota è di quattro anni prima, del  1992 ed ha un titolo che certamente è dovuto all’autore stesso: “Uomini, pietre e vento”. Ed è a commento di numerose vignette che lo ritraggono, a china e a carbonicino, con pose diverse. La prima delle quali è fissata però a colori e così è sintetizzata da Maria Grazia Scano Naitza: «Bachisio Zizi, col suo romanzo chiuso a lucchetto e catenacci come un tesoro, con penna caricata alla lupara e armato di un dentuto, temibile sorriso». Lui, in piedi appoggiato al suo librone, le gambe incrociate in attesa e forse in sfida, l’abito di fustagno come una divisa e in capo sa berritta. Sul libro, invece, il tocco del giudice che ha condannato “Santi di creta”. Disegno del 1991.

Le altre caricature, primi piani, sono press’a poco dello stesso periodo. Una è solitaria, pur con uno schizzo leggero di salvadanaio «a forma di urna cineraria trasparente» a lato, ed a fare pendant, dalla parte opposta, una scritta non tutta leggibile, ma comunque indicativa dei tratti fisiognomici considerati e degli spazi da coprire: «… Occhi luminosi, vispi, con taglio all’insù; naso a patata vicino agli occhi; mandibola lunga e zigomi sporgenti; dentatura molto pronunciata e labbro superiore sottile; evidenziare il mento; il viso deve rientrare in una fig. piana rettangolare o in un’ellisse». Le altre – quattro in una serie verticale – lo mostra con atteggiamenti del viso ora quasi allegri, ora riflessivi, ora perfino – con un’aureola in capo e le mani giunte – mistico o rassegnato o pietoso.

E Lui? Lui scrive: «Come gli abitatori del mio paese, anch’io amo le fughe e i ritorni. Insieme alla spigolosità delle pietre che stanno, il vento ci ha dato la leggerezza di ciò che va o tende ad andare per natura. Io però sono un camminatore mancato o impedito. La mia esistenza è segnata da soste lunghe e arresti che ho sentito e sento come uscite da me stesso. Ero destinato a correre col gregge dal monte al piano o a cercare il filo della pietra come mio padre, ma le casualità della vita mi hanno sospinto altrove, relegandomi dietro pompose scrivanie.

«Fedele alla mia natura ho dovuto sdoppiarmi e far convivere i bilanci e le metafore monetarie, con i fantasmi della scrittura, cui sono ricorso per innalzarmi al di sopra della parte di me che si posa.

«Nella mia figura bizzarramente composita, ogni tratto sembra gridare il travaglio della dualità del mio vivere. Non conosco armonie di linee, tutto è asimmetrico nella scorza che mi rinserra; testa,tronco e arti sembrerebbero assemblati dal caso se non ci fosse lo sguardo che li ricompone e li fonde nel calore del sorriso.

«Come i pastori mi porto tutto appresso e quando vado per universi sento che nessuno può fermare le mie transumanze. Questo continuo restare e andare è anche un ritorno al mio elemento primordiale, al vento modellatore di pietre e di uomini.

«A qualcuno il mio equilibrio ritrovato è parso il traboccamento contro natura di un peccatore. I codici e le sentenze che mi sono stati scagliati addosso hanno spuntato la penna, ma la scrittura resiste perché i voli dell’anima sono incoercibili».

A Lui, cordiale e scontroso, timido e (talvolta) spietato, umile (raramente ma certissimamente) e signoreggiante, dedicò alcuni versi – e me li anticipò in un giorno speciale di grazia in ufficio – Franca Ferraris Cornaglia, alla quale ho, a mia volta, dedicato un reading pochi mesi fa, nel teatro di Sant’Eulalia. Così nella raccolta “Su passarissu”, uscito nel 1985 con la prefazione di Mario Ciusa Romagna (amico caro a Zizi ed alla Ferraris).

«… Ma ci nd’est unu chi m’ha colpiu, / allirgu sempri che unu pippiu, / cun d’una bella maner’’e fai / ch’è unu prexeri a d’ascurtai. / Poita ad essi’ chi è sempri allirgu / prim’e pappai, prim’’e buffai? / Deu cun is rimas provu a du nai; / “È chi ndi benidi senz’’e mulleri, / beni stimada, beni stuggiada / forsis asutta “Pont’’e Marreri”».

Il riferimento era alle cene periodiche che i direttori delle grandi filiali bancarie di Cagliari (con competenza al minimo provinciale) usavano frequentare, con accompagnamento di mogli – esclusa però la signora Zizi, assai poco propensa alla mondanità – negli anni fra ’70 ed ’80. La Ferraris, moglie del direttore generale del CIS Luigi Cornaglia, partecipava ed osservava… Al tempo era da poco uscito il libro della ripresa ziziana, “Il Ponte di Marreri”, lanciato anche con un documentario televisivo dalla emittente “La Voce Sarda”. Ed è il titolo che fa capolino nei versi finali della arguta e dolce poetessa cagliaritana.

Come onorare una memoria

Naturalmente posso sbagliare, ma mi sembra che, dei giornali isolani, soltanto “La Nuova Sardegna”, in una delle sue collane letterarie, abbia pubblicato un’opera di Bachisio Zizi, e precisamente “Il brusio dei frangivento”, titolo scelto dall’autore dopo che nella prima edizione egli aveva preferito “Il cammino spezzato”.  Così è stato nella “series” curata da Manlio Brigaglia, nel 2003. Stranamente, “L’Unione Sarda” non ha inserito alcun libro di tanto autore nelle ricche e belle uscite della sua “Biblioteca dell’identità”. Eppure, a “L’Unione Sarda” non meno che a “La Nuova Sardegna”, Bachisio Zizi offrì (più spesso rispondendo positivamente alle richieste), nel corso degli anni, i talenti della sua prosa.

Bisognerebbe – è un’idea che avanzo a Gianni Filippini (e la giro anche a Manlio Brigaglia per un replay di attenzione dell’editrice sassarese) – che si procedesse alla ricognizione e alla pubblicazione, ordinata quanto meno cronologicamente, degli interventi accolti nelle pagine del quotidiano, e più sovente negli spazi destinati alla cultura o comunque alla riflessione sui fatti della società.

Una selezione degli articoli (invero troppo drastica) fu operata, anni addietro, da “L’Unione Sarda” per Salvatore Cambosu, e fu cosa giusta. Meriterebbe un trattamento analogo Bachisio Zizi, che pur non ha avuto la continuità settimanale degli interventi dell’orotellese autore di “Miele amaro” come rubricista, e meriterebbero il godimento di una lettura nuova dei suoi contributi i lettori.

Certo, a guardare i nuovi ed alternativi canali della distribuzione (ancora ostinatamente e santamente cartacea) qualcosa hanno fatto, negli ultimi anni, sia la Ilisso (con “Il ponte di Marreri” e con “Erthole”, accompagnati da illuminanti note introduttive, rispettivamente, di Paolo Cannas e Sandro Maxia) sia Il Maestrale (con “Greggi d’ira”, prefato da Franco Cocco, e ancora con “Lettere da Orune”). Qualcosa ha fatto Zizi stesso, pubblicando con la Cosarda, nel 2001, la bella, bellissima raccolta “da riva a riva”, che di quelle presenze sulla stampa quotidiana isolana ha offerto qualche campione: in essa sono, salvo errore, cinque le uscite avvenute su “L’Unione Sarda” e nove quelle su “La Nuova”. Ma a parte che l’antologia si ferma al 2000, e restano da frugare dunque ben tre lustri – seppure non tutti coperti dallo scrittore, ritrattosi negli ultimi anni per i rallentamenti dell’età e anche quelli causati dagli infortuni e dalle malattie –, soprattutto sono le assenze quelle che si sentono.

“La Nuova Sardegna” potrebbe, da parte sua, ripubblicare i testi di quei quindici profili di “uomini del fare” che lo scrittore propose al giornale nei primi anni ’90 e valorizzati da una bella grafica a tutta pagina.

Spererei che, quando sarà tempo, la stessa famiglia Zizi-Baldessari facesse dono alla nostra comunità degli scritti rimasti inediti, di Bachisio ma anche della professoressa Maria, atteso che il lavoro “La figlia della Taliana”, pubblicato ora sono già dieci anni – tanti quanti anche ci separano dalla morte della cara signora che seppe affratellare la Sardegna alle terre alpine del Trentino (fra Riva del Garda e Baselga di Vezzano) –, costituiva una parte soltanto di testi compiuti immagazzinati nella memoria del personal computer.

Vi sono, nella produzione forse minore (?) e comunque preparatoria delle opere più note e recenti, anche i versi di Bachisio Zizi. Sono convinto, infatti, che non soltanto quelli pubblicati da “Frontiera” esistono, ma anche altri… Ricordo quando, reduce da qualche immersione in biblioteca, all’Universitaria o all’emeroteca camerale, gli portai, e con lui discussi, i versi de “I miei pastori”. Sembrò non dare loro molto peso, per modestia (apparente) ma senza convinzione. Poi prese a parlare delle battaglie popolari di quegli anni di trapasso dell’Isola da un quadro di economia (e di società) agro-pastorale ad un altro industriale e terziarizzato, rispondente ai nuovi tempi, ma al momento non ancora precisamente definito. Parlava con una proprietà che non era per nulla affettata, le sue geometrie grammaticali e l’ampio arco lessicale cui ricorreva per le sue analisi e anche per porre le sue domande, erano ogni volta una lezione: sicché il giovane allievo cresciuto in città veniva catapultato proprio da quelle geometrie e da quell’arco nel mondo altro, di civiltà alternativa, che era la ruralità barbaricina. Lui aveva cominciato a costruire i ponti mentali fra quei mondi ancora (allora) tanto diversi, e concedeva la sua arte pedagogica, in banca, a chi nel mezzo delle pratiche di fido o legali, cercava orizzonti più ampi, o di entrare in quell’“oltre” che era la maggior categoria spirituale vivente in Bachisio Zizi.

Rimane poi nell’agenda degli impegni morali la attuazione della proposta teatrale che tanto impegnò il nostro autore all’inizio del 1999. Mi riferisco al dialogo fra Lui Bachis e Salvatore – Boboreddu – Satta. Un copione mirabile in cui Zizi svela, una volta di più, se stesso e racconta a noi il Satta che Egli conobbe e il Satta che Egli comprese anche nei versanti meno noti della sua personalità. Se il gruppo nuorese che a suo tempo si candidò a quella performance rinunciasse definitivamente a portare sulla scena quel lavoro, mi proporrei liberamente io, coinvolgendo – è evidente – competenze di teatro cagliaritane. Quello prossimo sarà l’anno quarantesimo della scomparsa di Salvatore Satta (un mese prima ci aveva lasciato Emilio Lussu!), e la data potrebbe costituire l’occasione per celebrare il Grande e con lui il nostro Bachisio Zizi, fra Cagliari e Nuoro in circolarità virtuosa.

Un dovere incombe anche sull’associazione Amici del libro. Una serata dedicata a Bachisio Zizi si impone. E mi permetto di indicare fra i relatori più autorevoli Sandro Maxia, Giuseppe Marci e Leandro Muoni. Agli Amici del libro si lega una parte significativa delle uscite pubbliche, come conferenziere, di Bachisio Zizi il quale ebbe peraltro in Antonio Romagnino uno dei suoi primi recensori. All’associazione Egli donò ripetutamente se stesso e le sue riflessioni: alla fine del 1991 presentando le “Poesie marine e kalaritane” di Muoni,  nell’ottobre 1992 intrattenendosi sulle sorti presenti e future del “Caffè Genovese” – il caffè cagliaritano di piazza Costituzione che era stato la sede degli incontri degli intellettuali cagliaritani, tanto più quando in città visse (e furono due anni) Salvatore Quasimodo…

A guardare il territorio tutto dell’Isola, e già impegnati a sciogliere le loro obbligazioni Nuoro e Cagliari, c’è anche Oristano che potrebbe avere parte in questo dopoZizi, chiamata anch’essa a dare un contributo di conoscenza, e alla conoscenza, dell’uomo e della sua letteratura. Potrebbe essere una bella fatica per qualche spirito libero di volontà e valore… magari per qualcuno dei soci attivi nei circoli culturali, o politico-culturali, animati da Alberto Medda Costella, che nelle sue bellissime tesi di laurea – tanto quella triennale quanto quella specialistica, con al centro l’epica di Arborea dapprima coinvolta nella bonifica delle terre malariche, poi modernizzatrice nel passaggio sociale dalla mezzadria alla piccola proprietà – richiama, nella ricchissima, compiuta bibliografia e nelle note a commento, anche “Il cammino spezzato” (o “Il brusio dei frangivento”) dello scrittore di Orune. Ne potrebbero emergere risultati inaspettati. Una rilettura critica del romanzo e delle sue suggestioni («le virtù dei grandi personaggi e l’eroismo silenzioso degli umili», «il capitale, non entità da demonizzare o santificare, ma protagonista indiscusso che muove passioni e ragioni»…) messa a confronto con la realtà storica, anch’essa già criticamente ripassata da Medda Costella nei suoi lavori, fornirebbe elementi di nuova conoscenza dell’opera letteraria (e delle intenzioni dell’autore) e insieme della vicenda sociale, o economico-sociale del territorio arborense, con tutto quanto ciò si porta dietro: la colonizzazione e la mescolanza “di sangue” nella prima e seconda ora, le regole di vita obbediente nei lunghi anni della dittatura e le pulsioni emancipative dal feudalesimo della SBS nel secondo dopoguerra e all’interno delle coordinate della riforma fondiaria ed agraria, l’ampia partecipazione di soggetti terzi – dal clero diocesano e salesiano alla stampa regionale e nazionale – agli scontri pro o contro i nuovi equilibri, fino agli allettamenti della industria che riporta i veneti in Veneto, i continentali sul continente ed impegna i rimanenti – sardi puri o sardi meticci, insomma alle generazioni ormai subentrate ai pionieri, a una più responsabile operatività nella cooperazione… Che è l’oro vero, non il petrolio vero o supposto del sottosuolo, di Arborea e dell’intero bacino.

Sugli antichi collaboratori del Banco di Napoli cede un obbligo morale: potrebbero essi trovare un modo per onorare tanta memoria promuovendo  (e perciò finanziando di tasca loro) una ricerca. Non azzardo adesso qui di più, non vorrei meglio precisare l’idea – il tema cioè della ricerca e la platea dei candidati – cui soltanto un libero confronto di opinioni potrebbe portare. Ma certo la gamma dei campi di studio di questa borsa speciale potrebbe essere ampia: dallo stretto biografico alla produzione narrativa del direttore-romanziere, al caso giudiziario dei “Santi di creta”, all’esperienza professionale, ai mix territoriali della sua vita così come ai mix espressivi della sua creatività… Un lavoro mirato anche a ricostruire, direttamente o in via mediata,  la storia d’istituto, nel mondo dell’economia e del credito, dell’onorato Banco di Napoli sardo sarebbe graditissimo (io me ne sono occupato diffusamente ma per gli anni “storici”, bacareddiani o, se si vuole, cocchiani, mentre qui serve invece guardare al nuovo dopoguerra ed agli anni della ricostruzione, dello sviluppo industriale, della crisi successiva di cui noi stessi siamo stati testimoni).

Per una scheda bibliografica

Certo alle schede bibliografiche note, tante volte curate dallo stesso autore che è stato, per forma mentis e per circostanze, diligente amministratore del suo nome e delle sue fatiche, ma anche a quelle catalogate nel circuito dell’Opac, bisognerà procedere con le necessarie integrazioni. Ciò, direi, sia per quanto riguarda gli scritti firmati o siglati, sia per quanto riguarda le recensioni via via uscite sulla stampa o gli interventi compresi nei volumi degli atti convegnistici o seminariali. Non tutto è stato censito.

“Frontiera” accolse, di quei primi cimenti letterari ziziani, altre prove e alcuni giudizi. L’editrice dei fratelli Fossataro produceva la rivista nuorese e insieme le opere dello scrittore: “Il filo della pietra” (1971) dopo “Marco e il banditismo”, fino a “Greggi d’ira” (1973). Quei versi sul numero d’ottobre del 1968 del mensile diretto da Remo Branca sono quindi coerenti  ed interni a relazioni editoriali appena avviate, e così lo è  una novella – “Sotto il segno della fecondità” è il titolo – uscita su due pagine intere nel numero di settembre 1971. Due le recensioni : una di F. Santana su “Il filo della pietra” (così anche nel titolo), sul numero doppio 11-12 dello stesso 1971, un’altra, sul numero di 8 (agosto) del 1973, all’interno di una rubrica detta “Lo spaccio di Zaccheo e Nicodemo” dal titolo “Questa volta si parla di B. Zizi e di ‘Marco e il banditismo’”. Si tratterebbe di ritrovarle, m’impegno a farlo fra le mie archiviazioni non tutte – data l’imponenza quantitativa – ordinate.

Bisognerà dare qualche importanza a questi scritti sparsi. Non soltanto su “Frontiera”, ma anche su “La Grotta della Vipera” e sui “Quaderni bolotanesi”.

Sul periodico fondato e fino all’ultimo diretto da Antonio Cossu, Zizi ha pubblicato tre scritti: “Luca il saggio” (“traboccamento” non dichiarato di “Erthole”), sul numero doppio 26-27; lo stralcio del suo intervento alla giornata di studi “Raccontare dalla Sardegna”, organizzata dalla CUEC in occasione della pubblicazione del volume di Giuseppe Marci “Narrativa sarda del novecento. Immagini e sentimento dell’identità” (in cui a Zizi è dedicato ampio spazio, nel mezzo dei grandi della letteratura isolana, dalla Deledda alla Giacobbe, da Casu ad Atzeni, da Dessì a Columbu, ad altri cinquanta e forse più) e della dispensa “Romanzieri sardi contemporanei” (in cui è inclusa una bellissima intervista allo scrittore a cura dello stesso Marci), sul numero doppio 54-55; la recensione di “Poesie marine e kalaritane” di Leandro Muoni  (già presentate da Zizi stesso agli Amici del libro), sul numero doppio 56-57.

Una citazione speciale merita anche, per la corposità del contributo, lo scritto “Quel mortale isolamento”, accolto nelle pagine del n. 14 (anno 1988) dei “Quaderni bolotanesi” diretti da Italo Bussa. In cui lo scrittore analizza l’identità, o la percezione della identità sarda nelle diverse fasi storiche, ai tempi di “su connottu” ed in quelli dell’Autonomia speciale, della industrializzazione petrolchimica dell’Isola e della omologazione dei modelli di vita e consumo.

Questi rapidi e incompleti richiami alle collaborazioni a riviste culturali riporta ovviamente anche alla presenza di Bachisio Zizi – come relatore o come “argomento” – a riunioni di studio, a serate di discussione, i cui esiti sono sovente pubblicati successivamente in santi volumi di documentazione. Citerei al riguardo almeno un caso: quello del convegno in onore di Michelangelo Pira (l’antropologo che nella sua “rivolta dell’oggetto”definì Zizi «scrittore alla macchia», incompreso – allora – dalla critica) svoltosi a Quartu nel 1988: richiamando qui l’intervento di Mario Ciusa Romagna su “La narrativa di Bachisio Zizi nella problematica della cultura contemporanea” (gli atti, con il titolo “La narrativa sarda nel Novecento”,  sono stati pubblicati a cura del Comune di Quartu Sant’Elena e della Provincia di Cagliari per i tipi della Stef, nel 1989).

Ma è chiaro che il discorso si potrebbe ripetere per diverse antologie, fra le quali sarebbero certo da citare quelle di Giovanni Mameli (“Scrittori sardi del Novecento”, del 1989: “Una visita in carcere: Erthole”, con scheda introduttiva, e “Scrittori sardi del Duemila”, del 2006: “La suonatrice d’arpa: I supplici”, anche stavolta con ampia scheda di presentazione). Idem per il “Dizionario di autori sardi moderni e contemporanei e delle loro opere in lingua sarda e italiana (narrativa e poesia)”, curato da Ignazio Delogu nel  2004.

Entra ovviamente, Zizi, in numerose miscellanee o in testi critici di vario spessore. Con lo sforzo soltanto di allungare una mano, dalle filze in esposizione recupero qui , ancora di Delogu, le pagine di presentazione di “Erthole”, in “Tutti i libri della Sardegna. 100 schede per capire un’isola difficile”, a cura di Manlio Brigaglia, del  1989; o quelle di Paola Pittalis in “Storia della Letteratura in Sardegna”, del 1998, che punta i suoi riflettori soprattutto su “Il ponte di Marreri”, “Santi di creta” e “Cantore in malas”; o quelle di Renzo Cau in “L’altra Letteratura. Scrittori Sardi Contemporanei”, del 1999, dove, a prova provata degli argomenti presenti nell’introduzione critica, ecco riportati, del Nostro, stralci da “Il filo della pietra”, da Greggi d’ira”, da “Il ponte di Marreri”, da “Erthole”.

Ed ancora si potrebbero aggiungere i richiami presenti in “La Sardegna. Cultura e società”, a cura di Paola De Gioannis e Giuseppe Serri, del 1991, relativi a “Santi di creta” (il capitolo dedicato a “La guerra a Nuoro”) e ad un articolo uscito su “La Nuova Sardegna” il 27 febbraio 1990 sotto il titolo “In quel bosco c’è la salvezza” (e qui “Industria e futuro: sognare nel deserto”), riferito alla cartiera di Arbatax.  O ulteriormente, guardando sempre a un utilizzo scolastico, la ripresa da “Erthole” (“Il gioco delle pietre”) nel volume “Sardegna” della collana “Letteratura delle regioni d’Italia”, a cura di Giovanni Pirodda, del 1992.

Ma tutto questo è appena una parte di quel tanto che, negli anni, è andato cumulandosi nella bibliografia di uno scrittore scoperto progressivamente, rispettato, amato anche, che generosamente si è dato.

Zizi e la politica

Con Bachisio Zizi mi capitava spesso di discutere di massoneria – un mio amore per l’ecumenismo profetico che ne ispira la tradizione rituale ed operativa , e da lui conosciuta per certi tratti capaci di allertarne le antenne semiologiche –, di Chiesa (e molto anche di comunità terapeutiche, di padre Morittu e dintorni) e di politica. O meglio, con più discrezione, di accennarne quanto alle radici ideali dei protagonisti della scena nazionale e regionale più attuale. Egli era un post marxista – chissà se la definizione l’avrebbe gradita, ma quando la proposi non la smentì –, un uomo della sinistra di classe ma dentro quel ribollimento ideologico che non aveva atteso la caduta del muro di Berlino per legittimarsi nella sua eresia. Non la voglio far facile, e comunque Zizi non è stato – pur se il suo cuore era col vecchio PCI gran regista delle scene di massa nel teatro sociale – un intellettuale organico. Cercava semmai le complessità, anche quelle ideologiche, per cercare di dipanarle con l’autonomia della intelligenza, di scioglierle per governarle. Andava ai sistemi per smontarne i grovigli ma lasciandone le geometrie, i nessi logici. Era il compito che giustamente assegnava alla politica: la delineazione dei grandi spazi della storia che viene, che ci raggiunge imponendoci le interazioni. S’intende: interazioni consapevoli e responsabili per evitarci la soccombenza nel frullatore che ad ogni nuova virtù assegna un demone d’accompagno, e ad ogni vizio affianca uno spirito purificatore o d’equilibrio che non opera per automatismo però…

Rispettava i miei amici repubblicani – e figurarsi! la qualità, nei vertici e non soltanto, era là a tonnellate –, rispettava quell’area vasta e variegata della cultura democratica, intimamente riformatrice, che non era stata seconda a nessuno – con i mazziniani dell’Edera, con gli azionisti di Giustizia e Libertà – nella lotta per la caduta della dittatura e l’affermazione della repubblica e dei suoi principi costituzionali, e dopo ancora per il buongoverno. In questo associava l’umanità, per quanto li sentisse per altri aspetti distanti, dei sardisti alleati dei repubblicani, come fu per lungo tempo e dal secondo dopoguerra fino al termine quasi degli anni ‘60. Fu proprio nell’anno del suo distacco da Nuoro, nel 1968 cioè, che vide proprio a Nuoro consumarsi le dolorose lacerazioni interne al Partito Sardo d’Azione ed il trapasso di larga parte dei suoi quadri nel partito di Ugo La Malfa. Per lui il sardismo era nuorese, tutto nuorese, conosceva poco l’altro. Aveva visto Pietro Mastino da una parte (e con lui Peppino Puligheddu, Bustiano Maccioni, i giovani Massaiu e Pau ecc.) ed i Melis – tutti i Melis – dall’altra, con il santo dei Quattro Mori, Luigi Oggiano, cedente in una terzietà scoraggiata. Magari, di quell’area una simpatia l’aveva avuta, e ancora la nutriva, per l’intelligenza e la cultura di Gonario Pinna, che però il sardismo dopo l’azionismo dopo il repubblicanesimo l’aveva lasciato per il socialismo e il seggio parlamentare, infine negatogli, nella conferma, dai carristi di Lussu. Storia tutta degli anni fra ’50 e ’60.

La mia è una testimonianza, non saprei se inconsciamente rielaborata rispetto ai fatti, e a quelle nostre conversazioni. Seppure Egli sentisse quel mondo interclassista lontano dai suoi orizzonti, come prigioniero di una ruralità incapace di progetto, avvertiva in esso tanta verità, o autenticità dello spirito sardo che era da amare comunque. Perché era lo spirito dei padri, delle ascendenze.

Ed era tentato anch’Egli – come ne ero tentato io, figlio però di una corrente di estrema minoranza in cui i generali sono anche soldati sul fronte più esposto – di guardare alle grandi figure associandole alle masse, al protagonismo muto e scettico, della classe sempre perdente, cui assegnava, da buon marxista (benché critico), la preminenza. Voglio dire: di guardare alle personalità di maggior spessore e prestigio non disancorandole mai dalla appartenenza sia sociale che dottrinale. E questo me lo concedeva quando anche io tracciavo con Lui, rapidamente, le linee biografiche dei miei, e ne sostenevo l’irripetibilità: di Asproni bittese – Asproni che non poteva non essere anche suo per religione barbaricina –, di Siotto Elias oranese – Siotto Elias che pure  lui non poteva non essere anche suo per la medesima ragione e religione –, di Soro Pirino o Berlinguer sr. a dire dei sassaresi, e dei cagliaritani caduti giovani per la rivoluzione antifascista o per la tubercolosi raccolta nelle carceri del regime, e per i fratelli del Partito Sardo d’Azione, non quello imbastardito di dopo però…

Sicché capitò che accettasse – aveva lasciato la banca ormai da tre anni – di presentare con Salvatore Cubeddu, Giuseppe Serri e Marcello Tuveri, un mio libro tutto mirato a rappresentare – documentando, documentando! – il merito dell’esposizione ideale, etico-civile, politica di alcuni di quei fratelli sardisti e azionisti di scuola mazziniano-cattaneana  che per la democrazia e la repubblica della nuova Italia si erano spesi nell’opposizione alla dittatura e nella resistenza.

Negli anni a scavalco fra ’80 e 90 – un decennio intero e anche qualcosa di più – mi ero infatti immerso in una ricerca (faticosissima ma anche esaltante) sulla storia del sardismo come derivazione originale della scuola democratica italiana, giostrando fra fonti edite ed inedite. Gli archivi privati, inesplorati, contengono sempre riserve di notizie inimmaginabili! ed io ne trovai allora sia a Cagliari che a Nuoro: quante a Nuoro! a casa Mastino e a casa Pinna, oltreché nei fondi ignoti della sezione sarda dell’antica biblioteca comunale. Mi interessavano le carte politiche, e non soltanto, capaci di documentare quanto non soltanto l’intuito, ma la stessa (conclusa) esperienza mia di pur giovanissimo militante politico, mi assicurava essere il mondo sardista nel suo profilo ideale originario. Altro che nazionalitarismo in sinonimia con il nazionalismo (reazionario per definizione)! Coscienza italiana nel sogno federalista europeo, offerta dell’intuizione e dello specifico dell’autonomismo regionalista per la riforma dello stato, non per chiudere tutto entro i perimetri costieri dell’Isola: come era stato nel tentativo del 1925 di dar vita, con lucani e molisani un Partito Italiano d’Azione (auspici e combattenti Bellieni e Fancello, entrambi eroi di guerra), come era stato per certi aspetti nel 1944-46 con l’alleanza formalizzata con il Partito d’Azione di Lussu e Parri, come era stato successivamente con l’intesa stretta con i repubblicani di Ugo La Malfa… Ne erano venuti fuori alcuni libri, una decina in tutto, per qualcosa come quattromila pagine di studi e documenti. E di uno di questi (“Titino Melis, il PSd’A mazziniano / Fancello, Siglienti, i gielle”, con allegato il primo dei due volumetti titolati “Alla fabbrica della Repubblica e dell’Autonomia” ) avevo chiesto a Zizi di celebrare il laico battesimo di una lettura critica. Mi aveva accordato subito la sua disponibilità, il gradimento anzi: ché la cosa costituiva anche, sotto certi profili, una novità intrigante nell’arco tematico dei suoi cimenti.

Ripropongo quel testo, che l’autore mi passò per “completezza di fascicolo” (come avremmo detto in banca). Mi rendo anche conto che potrebbe non essere considerato… di gusto, che proprio io proponga quei giudizi infine molto benevoli per l’opera e il suo curatore. Ma qui è delle espansioni riflessive di Bachisio Zizi che si tratta ed è soltanto a quelle che pare giusto porre attenzione.

Osservando (ammirando) gielle e sardisti, contro il fascismo

«Questa nuova opera di Gianfranco Murtas non può essere compresa in tutte le sue implicazioni se non si coglie il nesso profondo, ine­stricabile direi, tra il testo e il suo autore.

«I libri, una volta pubblicati, escono definitivamente dal dominio del loro artefice al quale talora si ribellano per affermare la propria autono­mia. Ciò per quella compiuta incompiutezza che mantiene ogni opera in sospeso fino a quando il lettore non ne completa il senso.

«Gianfranco Murtas è creativamente trasgressivo anche nel viscerale legame con i suoi libri, nei confronti dei quali sembra riservarsi un diritto di sequela. Non si tratta dell’accecamento di un padre possessivo, e nep­pure della smania di apparire, ma di quel bisogno di donarsi che è un tratto inconfondibile del suo essere uomo e autore. Il libro per lui resta il luogo delle sue ragioni e passioni, il luogo in cui riversa tutto di sé e non metafo­ricamente.

«Ci si può sorprendere che egli in poco tempo abbia potuto pubblicare tante opere. Ma in quei libri non vi è niente di improvvisato. Murtas è nato autore, ciò che non ha potuto raccontare con la scrittura l’ha affidato alla macchina da presa o alle raccolte di testi e documenti che invadono la sua casa.

«Per cogliere le novità di cui egli è portatore dobbiamo partire dalla struttura di quest’opera, la cui mole intimidisce quasi. Intanto nella concezione di Murtas non c’è posto per una storia considerata qualcosa di unitario, un centro cioè attorno al quale gli eventi si dispiegano ordinatamente: ci sono solo immagini del passato, proposte da punti di vista diversi. La storia per lui è narrazione e anche affabulazione e lo storico è un artista creatore che ha il potere di far rivivere uomini ed eventi delle età più lontane.

«Ma torniamo alla struttura del libro, che può apparire non pensata con le sue ridondanze e i suoi accumuli di materiali già editi, e perfino ingenua in quel suo proporsi per frammenti.

«È vero, la ricca documentazione di questo libro è costituita prevalen­temente da testi noti, ma vi è qualcosa nell’inventiva di Murtas che rende originalissima la proposta.

«Innanzi tutto acquista una particolare rilevanza l’inserimento di in­terviste e documenti inediti i quali, per la spontaneità che li caratterizza, agiscono come amplificatori di senso nei confronti degli altri testi.

«La seconda novità è costituita dalle note introduttive, che sono delle vere integrazioni capaci di sciogliere le riserve e colmare le lacune dei do­cumenti di riferimento. Con quelle note Murtas guida il lettore senza vio­lentarlo e lo prepara culturalmente e sentimentalmente alla comprensione del libro.

«Un ulteriore elemento, il più notevole sotto l’aspetto strutturale, è il lavoro di montaggio che egli ha compiuto, una ricreazione di testi, i quali diventano parte integrante e non separabile del sistema narrativo che essi ricompongono. È proprio attraverso il montaggio paziente e sapiente che l’opera acquista una continuità di discorso che non si perde mai. Le cro­nologie, gli accostamenti, i richiami ritmati sono tutti strumenti narrativi che rendono godibilissima la lettura di questo volume di 620 pagine.

«Murtas è uomo di traboccamenti ma non di eccessi. Non ama le reti­cenze e tantomeno le ambiguità, la compiutezza dei richiami e dei rinvii è un atto di onestà intellettuale nei confronti del lettore al quale vuole tra­sferire tutto quello che egli sa e pensa per un confronto alla pari. Ciò è un riflesso della sua vocazione pedagogica. Questo termine ricorre spesso nel libro, per mettere in evidenza atteggiamenti dei personaggi, ma il vero pedagogo è lui, pedagogo tollerante e indulgente, nonostante gli eroici fu­rori che animano le sue note, ma anche pedagogo generoso, sia nei con­fronti dei suoi amici collaboratori, sia nei confronti degli interlocutori as­senti ai quali offre un campo dissodato per alleviarne la fatica.

«Murtas è storico scrupoloso e documentato ma soprattutto è narrato­re con una capacità di descrivere e rappresentare che gli consente di innal­zarsi dalla materialità dei dati per dare forma d’arte al suo racconto. Egli perviene alle sue scoperte naturalmente, senza sforzo e senza un proposi­to. Però ha chiari i fini ai quali si è votato. I termini del suo paradigma di uomo e di scrittore sono: libertà, moralità, solidarietà, tre valori che po­ne a fondamento di ogni sua scelta e di ogni suo giudizio.

«Come storico narratore ha dovuto inventarsi un vocabolario, più ric­co semanticamente e più duttile stilisticamente. Il ricorso così frequente alle metafore, poco usate dagli storici blasonati, potenzia la capacità evo­cativa del suo discorso che non ha cadute di tono o di tensione.

«Proprio perché cerca quei valori Murtas è storico di parte e non lo nasconde: ciò tuttavia non attenua lo scrupolo con cui documenta ogni sua presa di posizione. Se è vero che non esiste la realtà, ma solo rappresenta­zioni di essa, lui interpreta e ricostruisce gli eventi secondo le sue creden­ze che appaiono salde e inattaccabili. Può dare fastidio la sua retorica ri­sorgimentale, che si riflette anche nelle sue metafore, ma quando parla di Apostolo con riferimento a Mazzini o a uno dei personaggi del libro, recu­pera il significato più autentico del termine e lo traduce in quell’agire co­municativo che è diventato il motivo ispiratore della sua attività di scrittore.

«Un’opera così concepita, per realizzarsi come documento di storia e come testo narrativo, aveva bisogno di personaggi che incarnassero i va­lori del paradigma. E Murtas li crea, con esiti artistici di grande effetto. Non tradisce mai la verità storica, ma per proteggere i suoi personaggi dai corrompimenti e dagli insulti del tempo li innalza alla sfera artistica che è il luogo delle persistenze e delle lunghe durate. Come Tacito, anche lui ha il suo Germanico, che è quel Cesarino Pintus il quale, già celebrato in un altro libro, compare in questa nuova opera come uno dei protagonisti più toccanti.

«Pintus incarna l’uomo mazziniano, un uomo di fede e di azione, che sa dire e tacere con uguale forza, generoso e magnanimo anche nei con­fronti di chi per debolezza o incuria causa la sua sventura.

«Murtas ne difende la memoria e diventa accusatore implacabile di Maurino Angioni, non per consumare una vendetta postuma che non con­cepisce, ma per l’emozione che prova pensando “all’antico fedele mili­tante della democrazia mazziniana” che alla sua nuova esperienza politica dopo il 25 luglio 1943 reca come dote la disoccupazione che lo avvilisce e i segni che gli hanno lasciato il carcere e la malattia. Nel libro è rievoca­ta anche la presunta leggerezza di Luigi Battista Puggioni, forse per sotto­lineare la statura morale di Pintus che, incalzato da Lussu perché denunzi l’inconsapevole artefice del suo arresto, risponde: “E non insistere, ti pre­go, sulla questione Puggioni. È una questione mia personale, che non toc­ca altre persone. Per me essa è conclusa, definitivamente conclusa”.

«Le pagine più belle dì questo libro sono quelle che raccontano i gior­ni di Pintus nel carcere di Civitavecchia. Murtas, con la simulazione di un’intervista a Mistroni, compagno di prigione di Pintus, inventa un rac­conto nel racconto e attraverso l’intervista ricostruita con estro poetico ci restituisce un umanissimo Pintus che non conosce cedimenti. Murtas rac­conta Mistroni, che racconta il suo compagno di sventura, il cui carattere allegro, dice, è temperato da un’ amara e tenera nostalgia per la sua terra lontana.

«Quei sussulti per gli echi del vaporetto che parte o arriva dalla Sarde­gna e quel gatto messaggero tra i detenuti, hanno una tale forza evocativa che umanizza perfino il carcere fascista.

«Il racconto Pintus-Mistroni è splendido anche perché introduce il te­ma dell’azione o inveramento. “Tutti presi dall’emergenza della ricostru­zione, dal bisogno di fare molto e in fretta, ognuno ha seguito la sua stra­da” racconta Mistroni, e conclude: “Siamo stati sindaci in contempora­nea, lui a Cagliari e io a Carbonia”.

«L’altro eroe è Fancello. che ha la stessa saldezza di principi di Pin­tus, la stessa dirittura morale e la stessa alta concezione della militanza politica. Murtas ne segue i percorsi, concentrando il suo racconto sulla vi­cenda carceraria, che resta tragicamente un momento di verità o di verifica.

«Fancello “purissimo eroe del nuovo Risorgimento” e “Maestro di di­gnità”, come Pintus. La purezza e la sincerità di propositi di entrambi por­ta Murtas a considerare la Resistenza come connotazione morale degli in­dividui. Il movimento politico che ne è seguito è sviluppo ed espansione di quelle qualità.

«Murtas ama e fa amare i suoi personaggi con i quali è in perpetuo dialogo in una complicità di pensieri e sentimenti che rendono più autenti­co il suo racconto. Il tempo presente cui egli ricorre, anche quando rievo­ca eventi remoti, non è espediente narrativo, ma bisogno di sentirsi e farci sentire contemporanei di quei protagonisti, che spesso introduce senza no­minarli. Procede così anche con Ines Berlinguer e Fanuccio Siglienti, la cui vicenda umana e sentimentale, nel racconto diventa il lievito delle vir­tù pubbliche. La parabola di Fanuccio sembra compendiare una dirittura morale e una coerenza che richiamano i grandi di altre epoche. Fanuccio è integerrimo come uomo e come amministratore della cosa pubblica, ma la sua fortuna più grande è di avere al fianco una donna come Ines Berlin­guer, uno dei personaggi femminili più interessanti che la Sardegna abbia espresso. La puntigliosa documentazione che ci viene proposta rivela tutto di lei, ma nell’affettuoso racconto di Murtas realtà e fantasia si confondo­no o si fondono. Raramente si riscontra tanta vitalità in una donna e so­prattutto in una donna nata in questa nostra terra, dove sembra che tutto inaridisca nell’arsura delle grandi siccità.

«Basta leggere qualche passaggio delle sue lettere o del suo diario per capire quale tempra di donna abbia incontrato nella sua strada Stefano Si­glienti. Io vorrei rimarcare soltanto il nesso, per non dire la coerenza, che intercorre tra gli interessi o le curiosità culturali di Ines e le sue esperienze di vita. Le persiane di cui lei parla in una lettera del 1924, dietro le quali aveva preparato una difesa con munizioni di pietra, si ricollegano ideal­mente alla visione planetaria di quella pagina di diario del 1922, in cui sono evocate, in una sorta di compresenza, l’abdicazione di Costantino di Grecia, la morte di Proust e la nascita dell’URSS.

«Fanuccio vive tali eventi con razionale compostezza, è più prudente: “Io sono apolitico e me ne sto tranquillo al mio posto di lavoro”, confessa nel 1925, ma nel 1926 trabocca anche lui: “Qui il clima è rovente” scrive, “mi sento più che mai all’ opposizione e la sera, al caffè Aragno, le discus­sioni del nostro gruppo sono sempre più interessanti”. Di Siglienti si è scritto molto, per i posti di responsabilità che ha ricoperto, ma l’elogio più bello gli viene dalla sua Ines, che così scrive alla famiglia di appartenenza nel 1934: “La sua forza è la competenza in tutti i problemi fondiari che nessu­no meglio di lui conosce, poi è molto stimato e voluto bene”.

«Pur senza faziosità Murtas si schiera sempre con i personaggi dei quali ricostruisce con puntiglio i percorsi anche quando sono impervi. Lo fa mi­rabilmente con Peppino Puligheddu, i cui eccessi pragmatici considera pas­saggi obbligati di una saggezza amministrativa, tanto più apprezzabile quan­to più fraintesa. Puligheddu nel racconto di Murtas diventa uomo virtuo­so, “uomo politico all’altezza dei suoi tempi”. Il suo senso pratico non è condannevole, anzi è un salutare ritorno alla terra dopo le declamazioni inconcludenti dei compagni di fede.

«Chiude il libro un altro grande personaggio, il più tormentato e il più compiuto dal punto di vista artistico. È Titino Melis, la cui figura si staglia solitaria e ammonitrice, come se volesse sospingerci per quella strada che lui non ha potuto percorrere sino in fondo. I momenti più drammatici di Titino sono quelli in cui lui, maestro di eloquenza che sapeva soggiogare le folle, resta sostanzialmente incompreso dalla gente che gli sta attorno. Il solco tra lui e gli altri è troppo profondo.

«I ricordi tenerissimi di Mario ed Elena Melis non riescono a placare i crucci di questo gigante offeso. Ma Titino è tutto lì, in quella sua risenti­ta lontananza che lo innalza da ogni mediocrità. E a noi piace ricordarlo così.

«Pur diversi per temperamento ed esperienza di vita, i personaggi che compaiono in quest’opera hanno in comune la solitudine.

«A parte Fanuccio Siglienti e Ines Berlinguer, che hanno vissuto e agito in altri contesti come Pintus, Fancello e lo stesso Melis, gli altri, quelli che sono rimasti nell’Isola, danno l’idea di predicatori nel deserto. Parla­no, scrivono, partecipano a organismi collegiali, ma non hanno ascolto. E come se continuassero il soliloquio cui li aveva costretti il fascismo.

«Scorrendo le ampie citazioni dal periodico “Il Solco”, che doveva esse­re uno strumento di aggregazione e comunicazione, ci accorgiamo che la parola in loro non si stacca da se stessa, diventa linguaggio del linguaggio, senza mai introdurre alla modificazione di un fatto. Perfino nelle polemi­che manca l’altro, ossia l’interlocutore con cui confrontarsi e discutere per dissentire o intendersi.

«Ma ancora più accorante è l’assenza del popolo sardo, che nel di­scorsi dotti dei protagonisti de “Il Solco” appare sempre come un’astrazio­ne, un’entità indistinta che non ha voce né fisionomia. L’assenza tuttavia non è dovuta a intenzionale esclusione e neppure a un aristocratico distac­co da parte di quei protagonisti, ma al niente in cui le vicende storiche avevano fatto precipitare l’intera comunità sarda, resa incapace perfino di prendere coscienza della propria condizione. Ne aveva piena consapevo­lezza Fancello che dopo il 25 luglio 1943 commenterà: “Il fenomeno di­mostra fino a che punto si sia impoverita l’educazione politica”.

«La prima riflessione che la lettura del libro di Murtas suggerisce ri­guarda la modernità della concezione politica di Pintus e Fancello e le di­stanze che separano questi due piccoli grandi eroi dal degrado che stiamo vivendo.

«Le loro non sono posizioni avulse dal mondo della vita, ma valori etici posti a fondamento dell’agire civile e politico. Ci si può chiedere se realisticamente con quel rigore morale, senza cedere ai compromessi in cui la politica per sua natura si intride, fosse possibile edificare qualcosa di duraturo nel nostro paese e in modo particolare nella nostra Sardegna. E se quelle idealità potevano mantenersi intatte di fronte alle chiusure ideo­logiche venute dopo e alle mortificazioni che ne sono derivate anche in termini culturali.

«Non siamo in grado di dire a quale tipo di sviluppo avrebbe condotto l’inveramento di quelle idealità, ma è certo che oggi avremmo un maggio­re equilibrio tra l’apparire e l’essere. Non si tratta di riscrivere la storia sulla base dei “se”, ma di capire le occasioni perdute e prendere coscien­za delle rovine fra le quali ci aggiriamo.

«L’altra considerazione riguarda la Sardegna e i suoi fallimenti. Nelle pagine del “Solco” riportate in questo libro c’è la rappresentazione dramma­tica dei nostri mali antichi e presenti. Allora come oggi nessuno è riuscito a calarsi con rigore di proposta nelle nostre specificità, che restano valori incompresi nonostante le declamazioni.

«In quei dotti dibattiti, la Sardegna, ignorata nei suoi bisogni autentici e nelle sue potenzialità, compare come campo di scontri ideologici.

«Quelle divisioni e contrapposizioni erano destinate ad accentuarsi e a diffondersi fino ad attraversare la convivenza civile di ogni aggregato comunitario.

«Ma che cosa è mancato a quei padri fondatori, cioè ai molti che scri­vono sul “Solco” e ai loro potenziali interlocutori (gli antagonisti ideologi­ci)? È mancata la progettualità perché nonostante i dotti discorsi quei ge­nerosi pionieri erano portatori di una cultura che non è riuscita a intendere il nuovo che stava maturando: si muovevano per imitazione in tutti i cam­pi. Ancora una volta s’impone il confronto con Fancello che, in una lettera dal carcere a sua madre, scriveva: “Tu non crederai, ma il fatto è che la preparazione culturale si è talmente accresciuta in tutti questi anni di pri­gionia, che noi abbiamo dedicato sì e no una mezzora, dirò così, ai riferi­menti processuali”.

«È mancata soprattutto una cultura economica capace di cogliere i punti su cui fondare uno sviluppo integrato della Sardegna.

«In nessuno degli interventi comparsi nel “Solco” è affrontato il proble­ma dell’impresa come strumento moderno di creazione di ricchezza, e co­me luogo di aggregazione e promozione sociale. L’assenza è dovuta cer­tamente a pregiudiziali ideologiche, ma anche al limitato orizzonte cultu­rale. Significativo in proposito è lo schematismo degli scritti di Bartolo­meo Sotgiu riguardanti la regionalizzazione della SES, la zona franca e la presunta autosufficienza economica della Sardegna.

«Tutta la politica economica, seguita dagli organi di governo regiona­le negli anni successivi compreso il Piano di Rinascita, parte da quella ma­trice di arretratezza culturale.

«Nel libro c’è un elogio per l’industrializzazione avviata in una certa epoca con coraggio e determinazione, elogio meritato certo, perché si è trattato di colmare vuoti assoluti, ma quelle scelte non hanno resistito al giudizio della storia proprio perché nate per imitazione su suggerimento di esperti capaci solo di elaborare modelli astratti.

«Gli eventi occorre storicizzarli, come suggerisce Murtas, anche se in lui l’equanime distanziamento dello storico spesso acquista il pathos del narratore che racconta l’epopea di quei dissodatori costretti a spargere i loro semi in stagioni inclementi.

«Vorrei lodare un altro pregio di questo libro concepito e prodotto da un collettivo di giovani ricercatori del quale Murtas è ideatore e animatore.

«In quest’epoca delle frantumazioni e delle divisioni, incontrare un la­boratorio culturale che progetta e produce opere come questa ha del prodi­gioso. E noi dobbiamo essere grati a Murtas, ai suoi giovani compagni di avventura culturale, e alle personalità che generosamente hanno dato il lo­ro contributo nella completezza di un libro così impegnato e anche così aperto verso il futuro».

Addenda per il professor Zizi

Se si possa aggiungere per chiosare, è a qualche battuta finale di quell’incontro di presentazione svoltosi  nel dicembre 1992 presso la sala convegni del Banco di Sardegna, che vorrei fare ricorso perché erano, di mio, come la restituzione di giudizio ammirato al recensore. Ecco le mie parole. Di testimonianza per la causa, di testimonianza per Bachisio Zizi, allora ed oggi:

«Quando Cubeddu ipotizzava che io avessi voluto fare una storia fil­trata da un certo repubblicanesimo militante, credo sbagliasse di grosso. No, assolutamente sono stato e sono lontano mille miglia da una intenzio­ne di questo genere. Credo che Zizi abbia colto questo: nel libro ci sono io, con ciò in cui credo, io nell’ unicità, nella complessità della mia perso­na, della mia elaborazione intellettuale, spirituale, civile, della mia espe­rienza anche politica, ma assolutamente non ho scritto neppure una pagina condizionato dalla militanza. Militanza che neppure esiste più. Io mi sento vicinissimo a Titino Melis e a Fancello, e a Siglienti, e a Cesare Pintus, perché in tutti questi uomini ho visto dei testimoni di valori, morti poveri, poveri compreso Siglienti, che pure era un banchiere, ma aveva quella so­brietà di vita che lo apparentava benissimo a quelli che sono morti poveri in canna: come Cesare Pintus, che dovette chiedere ad Antonino Lussu le lire per andare avanti lì, nel sanatorio di Pra’ Catinat. Non aveva neppu­re gli spiccioli. Uno che è morto per la nostra libertà, anche per questo sistema politico che è oppresso, nelle sue potenzialità di riforma sociale, dagli egoismi di parte e di persone. Mi fa anche una strana sensazione di parlare oggi di questo: abbiamo sentito che proprio oggi è stato notificata al capo di un partito fra i più importanti d’Italia una comunicazione giudiziaria.

«Venendo qui ho avuto la tentazione di aprire un libretto che è uscito una ventina d’anni fa, e dove si racconta, in questa pagina che mi era ri­masta impressa quando la lessi, di un episodio occorso durante una certa pausa fra le lezioni di scuola. C’è il bidello che tiene la disciplina.

«”-Facciamo il processo al re? – proposi ai compagni attraverso un foglietto che feci passare fra i banchi e dissi al bidello:

«”- Per ripassare la storia, vorremmo fare il processo al re [...]

«”- Zio Giovanni farà da Presidente del Tribunale -  aggiunsi.

«”Sentendosi innalzato al rango di presidente, il bidello acconsentì.

«”- Ma senza far chiasso, – raccomandò.

«”Sistemammo il ritratto di Vittorio Emanuele III su una sedia, a fian­co della cattedra, e ci distribuimmo le parti: pubblico ministero io, avvo­cato d’accusa Lillicu, avvocato di difesa Mauro, che era solito ripetere “uso ubbidir tacendo e tacendo morir”, frase insegnatagli da suo  padre, maggiore dei carabinieri [...].

«”Il bidello voleva sapere cosa doveva dire:

«”- Dovrete leggere i capi d’accusa contro l’imputato, – gli spie­gai e Lillicu glieli scrisse a stampatello su un foglio di carta.

«”- Vittorio Emanuele, sei accusato di aver consegnato l’ Italia ai ne­mici del popolo, di non aver fatto niente per impedire la guerra, di aver giocato con la vita della povera gente, di esserti occupato durante il regno solo di monete antiche[...].

«”- E inutile interrogare l’imputato – sentenziò Lillicu – non può parlare -. In cambio del ruolo di principessa di Savoia, una compagna mi prestò il suo grembiule nero come toga. Presi la parola e feci l’elogio della Repubblica, citando Mazzini e Cattaneo; richiamai i principii della Rivoluzione francese: dissi che le monarchie erano vecchie e conclusi chie­dendo la condanna di tutte le monarchie e l’assoluzione di Vittorio Ema­nuele III, che non aveva colpa se madre natura l’aveva dotato di un cer­vello proporzionato alla statura. Anche Lillicu volle la toga e chiese che Vittorio Emanuele venisse fucilato alla schiena e che i suoi parenti venis­sero inviati a zappare, possibilmente nei terreni scoscesi e ciottolosi della Barbagia [...]. In quel mentre entrò il professor Sapienza.

«”Sorpreso e indignato di trovare il quadro del re sulla sedia, volle sa­pere chi l’aveva rimosso.

«”- Il rispetto per le Istituzioni è il primo insegnamento d’ogni scuola degna di questo nome, – riprese, – avete vilipeso Sua Maestà. Io non posso ignorare ciò che è accaduto -. La classe rumoreggiò: Lillicu disse che molti giornali parlavano male del re, ma il professore non lo lasciò continuare.

«”- Finché Vittorio Emanuele è il capo dello Stato, noi gli dobbiamo rispetto e obbedienza…”.

«Siamo nell’anno forse fine 1943, primi 1944. I passi sono tratti da “Il filo della pietra” di Bachisio Zizi. Parlai con Zizi di queste pagine, quan­t’è? una quindicina d’ anni fa, quando lo conobbi tornando a Cagliari da Villacidro. È un ricordo grato, lo ringrazio molto di quanto egli ha detto oggi… Lui è stato uno dei miei maestri, come stimolatore di riflessioni, dove dire di un “sistema” di riflessioni che coinvolge la professione, la banca – pensare la funzione bancaria nell’ economia e nella società, nel loro divenire storico – ma pure i gusti letterari, la poesia – Brecht, per esempio –, la famiglia, i sentimenti, l’intimo dell’essere, e quindi, debbo dire, gli sono molto grato anche per quanto ha fatto nel tempo per me. Se sono come sono e non si scambi questa battuta per una pretesa di piedistallo, mi riferisco invece a quello che sono, come ciascuno di noi è, un impasto di cose buone e di cose meno buone – molto è merito suo, scrittore che amo molto».

Concludendo

Mi è occorso di recente, compulsando alcune annate della stampa sarda di sessant’anni fa, d’imbattermi nelle cronache di un processo, in Corte d’assise d’appello, contro gli imputati già condannati in primo grado per l’assassinio di due pastorelli di Orune: Francesco e Giovanni Maria Pira (avvocato di parte civile Giovanni Battista Melis, al dovere anche in un giorno penoso e di lutto per lui, data la morte della madre Michelina Corrias). È possibile, dato il tempo trascorso, che i colpevoli – tali riconosciuti pure nell’appello – siano anch’essi, ormai, perduti alla memoria sociale. Ma quel che più mi ha toccato, di quella pagina di storia paesana del 1955 – ripetizione di cento altre e anticipatrice ancora, purtroppo, di ulteriori cento –, è la sua contestualità ad un evento di vita in cui mi è sembrato di vedere l’altra parte della cronaca di copione, la parte del possibile positivo, del riscatto virtuoso: una partita di calcio. Giocava la squadra dell’Orune contro la Bittese. Agonismo certo, concorrenza di maglia certo, ma anche fraternità barbaricina, quella predicata tutti i giorni, in quel tempo lontano, dal vescovo Giuseppe Melas presente e partecipe ad ogni sforzo di pacificazione. Premessa – quella pacificazione – di ogni riscatto conquistato per genio e buona volontà e lavoro, contro le vie facili della ribellione e della delinquenza. Ho segnato i nomi dei giocatori sconfitti (6 a 1 il risultato e si giocava in formazione di nove), compaesani e forse amici coetanei di Bachisio Zizi: Massaiu, Berria, Chessa, Sannio II, Sannio I, Mariani, Delogu, Davoli, Sannio III. Onore a tutti!

 

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