Per Bachisio Zizi (2), una testimonianza e testi inediti, di Gianfranco Murtas

Foto: Gianfranco Murtas.

In un precedente intervento dedicato alla figura pubblica e soprattutto alla cara persona di Bachisio Zizi, scomparso nelle scorse settimane, mi sono concesso di raccogliere, dalle mie memorie e dalle emozioni che combinano passato e presente, immagini di Lui per alcuni aspetti forse non note, ed offerte comunque attraverso la lente personalissima di chi per lunghi anni – quasi quaranta! – con Lui ha intessuto una relazione professionale ed intellettuale di un qualche rilievo.

Poiché mi è stata data la opportunità di tornare in argomento, e di portare fuori dai fascicoli alcune carte che lo riguardano, stavolta più sul fronte letterario che non su quello suo professionale (del quale ho già detto abbondantemente), recupero dalle anticipazioni proposte nel precedente scritto tre testi: uno mio volto a Lui, un secondo suo, generosissimo – ed è anche per prova della sua generosità che lo presento, ma soprattutto per l’efficacia della sua analisi di un soggetto offerto al giudizio erga omnes –, un terzo riferito al libro da Lui curato ma di cui era stata autrice la moglie, la professoressa Maria Baldessari, al tempo scomparsa da quasi un anno.

Più precisamente: il primo testo (uscito su “L’Unione Sarda”del 23 marzo 1989, “Perché adesso dovrebbe capire Zizi?”) riguarda il suo “Santi di creta”, passato al vaglio e caduto nel respingimento di una inconsapevole giustizia togata, di tribunali incapaci di cogliere la differenza fra un’opera di genio creativo e la pagina di un cronista impigliato perfino del dettaglio descrittivo di uomini e cose. Il secondo tocca invece il mio romanzello “Lo specchio del vescovo”, da Zizi recensito alla presentazione pubblica fattane negli spazi all’aperto di Sant’Eulalia (il 12 settembre 2003) unitamente a don Mario Cugusi. Il terzo, ancora di Bachisio Zizi, concerne il bel romanzo autobiografico della Baldessari presentato in una affollata assemblea promossa dagli Amici del libro presso la sede della arciconfraternita dei SS. Giorgio e Caterina a monte Urpinu (il 16 dicembre 2004), insieme con Giovanna Cerina, Sandro Maxia, Pina Solarino e Tonino Oppes.

 

Per “Santi di creta”

Avevo seguito la genesi complessa, e la complessa elaborazione del romanzo. Avevo poi registrato, quasi incredulo, le avversioni che esso aveva suscitato, tanto più a Nuoro e nella cerchia familiare di chi avvertiva di aver dato forse senza volerlo, più che soltanto l’idea alla trama: forse la trama stessa. E ne aveva incolpato l’autore e anche, drammaticamente, sua moglie che ben conosceva le vicende pubbliche e private di una schiatta peraltro stimata, amata anzi, non soltanto a Nuoro ma nella Barbagia tutta. Erano stati interessati i giudici, l’incolpato aveva dovuto chiedere il patronato all’avv. Concas, leader dei penalisti cagliaritani. Con spirito di solidarietà si erano mossi molti intellettuali isolani – in testa a tutti Mario Ciusa Romagna – per certificare, con l’autorevolezza dei propri nomi e del proprio credito, l’autonomia di un’opera di narrativa – che è sempre invenzione – dalle vicende e dagli uomini che pur possono averne dato spunto. “Il Mercurio”– l’inserto letterario del sabato de “la Repubblica” – aveva pubblicato un intervento d’allarme per quell’inconsulto combinare le carte da bollo a quelle della fantasia di uno scrittore. Non era servito…

Io m’ero trovato in mezzo alla cosa – fra il blocco di quelle personalità chiamate a difendere la giusta causa e l’autore in quel tempo costretto dall’ufficio professionale ad una residenza lontana dall’Isola – e, per la parte avuta nel pregresso, sentivo di dover comunque aggiungere, fosse pure soltanto, dai margini della mia collocazione, una testimonianza senza speranza di efficacia. Il quotidiano di Cagliari accolse, con buona evidenza grafica (purtroppo con qualche refuso di troppo, altri essendo allora – dopo la liquidazione dei correttori di bozze – i mezzi di trasmissione dei pezzi) – quell’ intervento. Che mi provocò musi storti dagli amici nuoresi che ancora faticavano ad entrare in una intelligenza autenticamente libera, spregiudicata, del testo letterario, cedendo anch’essi invece alla tentazione della stretta referenzialità dei personaggi e dell’imprigionamento dell’autore entro gli schemi modesti, infimi anzi, di un gazzettiere…

«I critici letterari e molti scrittori (avanti a tutti i “nuovi scrittori”), coralmente dalla parte di Zizi – e credo non per spirito di conformismo corporativo – si sono domandati se e quando e come possa considerarsi diffamatoria l’opera di letteratura che imprima sulla carta caratteri e voci e movimenti di personaggi colti nel loro vissuto reale, quando, appunto, tale vissuto riveli la condizione infelice di sospesi fra vecchio e nuovo, di incerti (santi “incerti”) incapaci di collocarsi nelle nicchie inedite della storia subentrante, perché è esattamente questo il tema affrontato da Zizi nel suo bellissimo libro: la fatica dell’interpretazione corretta dei segni dei tempi nuovi.

«Ho saputo dei “Santi di creta” quando il romanziere – dopo averli pensati – s’accingeva a raccontarli. Sono stato allora richiesto di una consulenza… biblico-liturgica per l’invenzione della scena d’apertura del romanzo: le preghiere delle “pie donne” per il recupero di salute del giovane moribondo, rampollo dei Senes-Are, o per il suo transito festoso: “venite santi di Dio, venite angeli del Signore…”. Sono stato interessato – e ne serbo gratitudine affettuosa allo scrittore – alla lettura delle successive stesure del romanzo, a metà delle quali è da mettere la grave infermità di Zizi, di cui lui stesso ha scritto nel fulminante racconto che ha dato il titolo alla raccolta recentissima di “Mas complicado”: passaggio, questo, che avrà il suo peso – come dirò – nella riscrittura del testo.

«Conosco dunque il travaglio intimo, spirituale e intellettuale, di Bachino Zizi autore-creatore dei suoi “santi di creta”, di Zizi che mi ha concesso “quote” di confidenza personale che esplicitano l’uomo in tutta la ontologica sua complessità e contraddizione: “quote” perché Zizi non si concede tutto a nessuno (barbaricino diffidente, anche verso se stesso), “confidenza” però perché ha la forza del bisogno esistenziale, in lui, il dire del conflitto che l’accompagna da quando ha aperto gli occhi al mondo e, secondo la sua frequente battuta, l’accompagnerà alla tomba, dopo aver speso il suo tempo a cercare relazione e dialogo e scambio non venali.

«Alla popolazione dei “santi di creta” appartiene lui stesso, insomma, o rischia di appartenervi (come tutti rischiamo di appartenervi), se è vero che quel conflitto di memoria e di coscienza cui alludevo egli lo patisce cercando di superarlo nella ricerca intellettuale sempre più avanzata e impegnata: egli che si considera un post-marxista, un marxista critico che cerca nelle nuove scuole della sociologia, della antropologia, della semiologia, dello strutturalismo, ecc. e nei maestri delle nuove scienze umane – che spiegano che l’economia non è la chiave d’interpretazione del mondo – le risposte più pertinenti ai bisogni dell’uomo moderno e della società moderna. E’ in questa ricerca che egli ripone la speranza di emanciparsi dalla condanna di ridursi pure lui ad essere un “santo di creta”, un “fuori posto” destinato a sbriciolarsi nella non-storia…

Zizi storicizza i suoi personaggi ma insieme li redime dai condizionamenti di anagrafi imbecilli, innalzandoli alla dignità di protagonisti di un mondo sempre uguale, in ogni epoca e in ogni luogo. Per questo Orvine è metafora del mondo, o Nuoro, che è il teatro in cui gli attori della follia – gli stessi evocati dal sonno della morte dal grandissimo Salvatore Satta nel suo straordinario spoon river di un’anticipata età escatologica – rivelano la miseria della loro esistenza. Perché a Zizi interessa cogliere l’uomo nell’accidentata complessità del suo cuore, nel groviglio di ragione e sentimento, di intuizioni e neghittosità, di esperienza e inconsapevolezza, perché l’uomo è uomo in tutte le latitudini e in tutte le ere.

Ho letto e riletto la successione dei dattiloscritti di “Santi di creta”, dalla primitiva stesura all’ultima, per larga parte rettificata o rielaborata, come dicevo. Un passaggio – è qui che si riassume il senso della mia testimonianza – imposto dall’esigenza di un riequilibrio fra i due poli del libro: gli Are e lui stesso, il narratore-coprotagonista, amico leale nella sua disacquiescenza, secondo quanto richiesto dal particolare ruolo sociale e professionale. Il direttore di banca chiamato a salvare il cliente senza compromettere i diritti del suo istituto, o, può dirsi giostrando priorità, condizioni e conseguenze, a difendere gli interessi del suo istituto senza far fallire il debitore. Il quale debitore è poi l’esatto opposto dello Zuacchinu di “Erthole” (ed è lì la sua autocondanna): Zuacchinu introduce l’economia monetaria dove ancora vige il baratto materiale, gli Are invece si attardano sui moduli precapitalistici quando la nozione della “responsabilità limitata” s’è ormai affermata con prospettive epocali, e affondano essi come famiglia ed essi come azienda, insieme, a causa di quelle inconsapevolezze.

«E’ il nodo del libro, che si muove su orizzonti alti, che neppure possono immaginare la banalità immiserente dei quiz d’identificazione fra personaggi e ombre cui esso è stato ridotto. Non si tratta davvero di “versi satanici” in barbaricino, non c’è diffamazione. Ma Nuoro è stata ingrata sempre con i suoi, perché Nuoro (o meglio, un certo mondo nuorese) è conformista e vietamente tradizionale nella lettura degli episodi “fuori schema” della storia contemporanea: non ha capito Francesco Ciusa, non ha capito Grazia Deledda, non ha capito Salvatore Satta, perché dovrebbe capire Bachisio Zizi?».

 

Per “Lo specchio del vescovo”

Poche parole, stavolta, per spiegare l’antefatto. Nel 2003 fui interessato, da amici del clero diocesano di Cagliari, ad occuparmi della dolorosa e inconclusa vicenda della scomparsa tragica del parroco della cattedrale di Santa Maria, don Tonio Pittau avvenuta un lustro prima. Ci si era convinti che alla opacità delle circostanze di quella morte si fosse aggiunta altra opacità in termini di sviamento delle indagini (la pratica giudiziaria è stata aperta e chiusa in successione tre volte, né la magistratura ha ritenuto di far ispezionare la salma: non fu fatto, colpevolmente, a suo tempo – nel 1988 – e non fu disposto neppure in tempi successivi, a richiesta della famiglia).

Per creare opinione sul caso e, sperabilmente, indurre la procura a riprendere in mano il fascicolo penosamente (non pietosamente) archiviato di fatto, ebbi l’idea di ricostruire, sulla base degli elementi – non pochi – posseduti, scena e retroscena e la piccola opera narrativa passò alla stampa di Florias, una editrice curata dal cantante folk Franco Madau, che aveva anche lanciato un concorso letterario per onorare la memoria del suo amico Gianfranco Cocco prematuramente e tragicamente scomparso anche lui.

Le bozze furono presentate, nell’estate del 2003, al nuovo arcivescovo di Cagliari Giuseppe Mani, il quale – lettolo – si disse sostanzialmente indifferente alla vicenda (non al romanzo o anche al romanzo) perché avvenuta prima del suo arrivo da noi: stessa conclusione  registrata per la sorte del Concilio Plenario Sardo, che tanta fatica era costata a diversi dell’episcopato isolano, e in specie agli arcivescovi Alberti e Tiddia (quanto avvenuto prima del suo arrivo in Sardegna non interessava al nuovo arrivato sprezzante della istituzione, perché ogni storia iniziava con lui).

Il testo naturalmente inseriva altri spunti ai puri richiami al fatto di cronaca, cogliendo anzi l’occasione per una riflessione, e se si vuole una denuncia, di malvezzi ideologici clericali pesanti perché comunque forieri di sofferenza in vittime innocenti. Ed affacciava, in chiave personalissima, quella domanda da altri saggi e sapienti posta e rimasta però senza risposta: “Perché non fare diversamente?”. Tanto più in ambito di chiesa. E forse un ammonimento: “Se si può, tante volte si deve!”.

Il libro – anzi libretto (titolo originale “Il caso di Villamaura”, retrocesso poi a sottotitolo)– sul quale appuntò la sua attenzione per diversi giorni “L’Unione Sarda” suscitando anche l’attenzione di un regista/sceneggiatore per una edizione cinematografica però non convincente e dunque cortesemente respinta, fu presentato nel grande spazio dei campi sportivi di Sant’Eulalia, nella serata del 12 settembre 2003, da Bachisio Zizi e Mario Cugusi.

Ecco quindi, preceduto dalla mail che mi inviò il 20 dello stesso mese, il testo dell’intervento di Zizi. A parte il merito delle sue considerazioni, merita qui rilevare la generosità della sua partecipazione. Per certi aspetti – la cosa pare evidente – lo scrittore (quello magno, intendo!) ripassava anche il travaglio vissuto col suo “Santi di creta”, mettendo in guardia dagli impoverimenti che lo sforzo delle identificazioni (cioè delle «referenzialità») fra personaggi del romanzo e personaggi della vita avrebbe prodotto.

«Caro Gianfranco,

ti invio il testo del mio intervento, con alcune annotazioni a margine, dettatemi dalla stima e dall’affetto che mi legano a te:

«1) – insistere nel collocare il tuo libro nel genere “giallo” può portare solo all’uccisione di padre Gilio e del testo in cui ha trovato la sua resurrezione;

«2) – Lo specchio non è un libello, ma un testo di autentica narrativa, con personaggi che si sono scrollati di dosso la pesantezza della referenzialità;

«3) – hai il dovere di difendere il tuo libro come creazione artistica destinata a durare e a procurarti appagamenti ben più alti rispetto a quelli di un successo in una polemica che tende a diventare sterile;

«4) – con alcuni alleggerimenti il tuo libro può acquistare il respiro del romanzo più originale comparso nel nostro panorama letterario.

«Affettuosamente- Bachisio Zizi».

 

«Il testo di questo libro dirompente mi è giunto quand’era ancora in bozze, inviatomi da Gianfranco Murtas, con un gesto che lo innalza ancor di più nella mia stima e nel mio affetto. Nella lettera che accompagnava le bozze, un testo nel testo, Murtas, con perplessità se non con pudore, definisce questa sua opera un “racconto del genere noir”; tuttavia la vaghezza dei due punti interrogativi che incastonano la definizione, è anche segno di stupore di fronte agli esiti di una narrazione che ha finito per trascendere lo stesso autore.

«Nel percorso che mi sono ritagliato per questo  intervento, vorrei partire proprio dalla collocazione letteraria che possiamo dare al testo di Murtas, anche se ricollegare un’opera a un genere letterario equivale a sminuirne il valore. I critici, per mestiere o vocazione, sono portati a fare confronti, a mettere ogni libro nel contesto di altri libri, ogni autore nel contesto di altri autori, convinti, a ragione, che la critica di una cultura può essere esercitata fondatamente soltanto da un’altra cultura. Trasgredendo alle regole codificate, “Lo specchio del vescovo” forse ha creato un nuovo genere letterario, che non è ” Il giallo sardo”, formula che con le sue approssimazioni e semplificazioni tende a limitare ed escludere. Marino Moretti, quando al  “Deledda” aveva premiato “Perdu” di Paride Rombi, non pensava certo a un giallo, ma a qualcosa che scaturiva da profondità insondabili, che nulla hanno a che fare con quel genere di racconto.

«Qualche tempo fa è stato assassinato un giovane del mio paese e mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su quella povera vittima per raccontarne la vita. “Morte iscoperit bida” si dice dalle nostre parti, ripetendo una verità più antica  del credo filosofico di Heidegger.  La morte violenta è sempre incombente nelle opere dei narratori sardi, ma è una morte che dà senso alla vita, appunto. E’ il senso della verticalità che mi spinge a prendere le distanze dal genere “Giallo sardo”.

«L’intera vicenda letteraria di Murtas è all’insegna della trasgressione, per quei tratti di originalità che negano schemi e classificazioni. I quaranta volumi prodotti con impegno titanico dal nostro giovane autore, hanno tutti una forte cadenza narrativa, imposta dall’esigenza di affidarsi alle sintesi dell’immaginazione per penetrare eventi e fatti apparentemente chiusi a ogni comprensione. Pur nella varietà dei temi sollevati, nelle opere di Murtas vi è una continuità di discorso che si nutre delle passioni e ragioni dei grandi personaggi che popolano le sue narrazioni. Murtas ha bisogno di personaggi-eroi per far scattare la sua inventiva, eroi perdenti nell’immediato, ma sospinti da quel “futuro profetico” che agisce come lievito della fantasia, facoltà attraverso la quale si offrono all’uomo le verità più profonde. E’ questo l’humus dal quale è scaturita la figura di padre Gilio, personaggio in cui Murtas ha riversato tutto ciò che si è portato dietro nella faticosissima traversata dei quaranta volumi.

«La precisazione riportata sul risvolto di copertina del libro che stiamo celebrando, definito opera prima sul versante propriamente letterario, ci sollecita a capire quale urgenza ha spinto il vulcanico Murtas a comporre un romanzo in senso alto per raccontare “Il caso di Villamaura”.  Se riflettiamo sulle forme di vita delirante in cui siamo immersi, dobbiamo pur domandarci come fare per non restare in balia di eventi che non riusciamo a capire né a controllare col nostro povero linguaggio ridotto a scheggia che della realtà riesce a offrirci solo una percezione frantumata e divisa.

«Murtas, autore onnivoro, ha una percezione dolorosa dei clamori e delle ridondanze di questo confuso passaggio d’epoca, e per innalzare dall’immediato la vicenda di Villamaura cerca e trova la sua ancora di salvezza proprio nel sapere narrativo, capace di raffigurare l’individuo nella “prosa del mondo”. Sì, perché il romanzo è stato e  continuerà ad essere uno di quei denominatori comuni dell’esperienza umana, in virtù del quale gli esseri viventi si riconoscono e dialogano, indipendentemente dalla diversità delle occupazioni, delle geografie e delle circostanze in cui si trovano.

«Si dice che il romanzo sia stato la voce del mondo moderno, la sua poesia, il suo tribunale e la sua contestazione. Ma con l’avvento della cosiddetta seconda modernità che impone individui sempre più spogliati da ogni legame tutto questo sembra finito. In un mondo che si avvia a mutare senza l’uomo, in cui la tecnica diventa il motore della storia e la virtualità sostituisce il principio di realtà, che cosa può fare o essere il romanzo? Può sembrare che esso sia riluttante a prendere atto di tale rivolgimento e anzi indietreggi rispetto alle grandi narrazioni del passato quando Dostoevskij, a proposito di Don Chisciotte della Mancia, diceva che quel romanzo sarebbe stato, da solo, sufficiente a giustificare l’umanità agli occhi di Dio. In questo scenario desolato e desolante irrompe “Lo specchio del vescovo”, opera che sembra accendere la speranza per un nuovo mondo riscattato dall’iniquità e  un nuovo modo di raccontarlo.

«Il capitolo introduttivo del libro, che è premessa ed epilogo allo stesso tempo, fa pensare a una foresta vergine il cui attraversamento è necessario per la comprensione di ciò che il testo dice o tace. Quel capitolo, con i suoi simboli e le sue allegorie è il luogo dove si compie l’iniziazione del lettore che si apre all’ascolto e all’apprendimento di un secondo mondo, quello dove lo conducono le parole di Monsignor Soave. “Io sono per la vita. La vita prima dei dogmi. I gesti prima delle parole. La spiritualità prima della morale. L’essere umano prima di tutto”. Questo il monito del conferenziere francese, che atterrisce l’uditorio, presentato impietosamente nelle sue pavidità e doppiezze. A quel monito, distillato pacatamente parola per parola da Monsignor Jacques, fa da contrappunto il balbettio del vescovo di Caregli che, snocciolando il “vocabolario dei timori”, come efficacemente dice Murtas, parla di “scombussolamento, smarrimento, disagio, perplessità, impressione, confusione, preoccupazione” di fronte ai rivolgimenti predicati da Monsignor Soave. Il Vescovo è il personaggio più compiuto del libro proprio perché nella strategia narrativa di Murtas egli incarna drammaticamente la “Microfisica del potere” di Foucaultiana memoria. Gli altri personaggi, tutti scavati con mano felice, dilatano il senso del romanzo, che esce dall’ambito del sacro, per contaminarsi col denaro diventato linguaggio dei linguaggi della nostra esistenza finanziarizzata. Notevoli, per impianto narrativo e ricchezza lessicale le pagine dedicate all’organista, a Giacomino e a Gioffrè, che costituiscono l’obliqua triade del mercimonio.

«Il Vescovo irrompe sulla scena quando arriva la notizia della morte di padre Gilio, morte sacrificale che diventa il punto di confluenza di tutti i temi che s’incrociano nel romanzo. E Murtas, con l’intuito del narratore di razza, mette in scena una sorta di sacra rappresentazione, dove il Vescovo, per esorcizzare un assassinio consumato con brutale violenza, invoca la sacralità, “Da noi i preti non si ammazzano. Siamo sacerdoti di Dio, tutto viene dalla Provvidenza, la vita e la morte”, ripete meccanicamente il prelato difensore del “Sillabo” di fronte a padre Gemiliano, fratello della vittima e sacerdote anche lui, che senza alcun timore grida il suo dolore: “E’ stato omicidio, eccellenza, omicidio, omicidio, non incidente…”.

«La sacralità più che condizione spirituale o morale ha relazione con potenze che l’uomo avverte superiore a sé e comunque separate rispetto al mondo umano. Dal sacro l’uomo tende a tenersi lontano, come sempre accade di fronte a ciò che si teme, e al tempo stesso ne è attratto. Col cristianesimo Dio si congeda dal sacro per farsi mondo. Ma il vuoto lasciato dal sacro è stato occupato da parole, che in nome di un presunto sentire religioso, tentano ancora di chiudere, circoscrivere ed escludere.

«Murtas non piange la morte di don Gilio, ne canta la vita e le opere per farlo risorgere nel candore immacolato della sua innocenza comunicativa. E, calandosi nel personaggio fino alla totale identificazione, compie un’operazione di altissimo valore narrativo. Gli itinerari operosi e dolorosi che Sergio, il nipote della vittima, percorre nella sua puntigliosa indagine, sono gli itinerari che Gianfranco Murtas uomo ha vissuto in silenziosa umiltà, pagando sempre di persona. “Le grandi anime si espongono molto, pochissimo quelle pusillanimi. La gioia le riempie, le colma, come possono approfondirle la miseria e il dolore” scrive Michel Serres, che chiama Dio l’insieme infinito di tutti i punti di esposizione.

«Murtas sa che la povertà non è solo mancanza di cibo, non è solo un incontro quotidiano con la malattia e con la morte: l’estrema povertà è la fuoriuscita dalla condizione umana e insieme la sua riapparizione come un incidente della storia, non dissimile dagli incidenti geologici o atmosferici. “Lasciatemi morire con i miei poveri” invocava Madre Teresa di Calcutta dal suo letto di malattia, e quella invocazione era testimonianza diventata denuncia inascoltata. “Lasciatemi morire con i miei poveri” potrebbe significare anche che il loro numero si è fatto così grande da oltrepassare la soglia del comune sentire. Con la morte di Madre Teresa la povertà non poteva non fare un passo indietro. Basta ricordare la partecipazione dell’umanità intera alla morte della principessa Diana e raffrontarla con la partecipazione alla morte di Madre Teresa avvenuta negli stessi giorni, per capire quanto il luccichio attragga e commuova i sentimenti dei poveri e dei ricchi, rispetto alla miseria dei lazzaretti. La povertà non attrae. E’ il rimosso di tutti.

«Murtas e padre Gilio credono con lo stesso fervore di Madre Teresa  nell’incarnazione di Dio, del Dio fatto uomo, da cui scende quella virtù, fondamentale per il cristiano, che è la carità, intesa non come elemosina, ma come invito a rapportarsi all’uomo come ci si rapporta a Dio.

«Murtas è autore esigente, ha molto da offrire ai suoi lettori, ma ha anche molto da chiedere per dare compiutezza al libro che resta pur sempre una proposta di senso. Il lettore cui si rivolge deve essere anche un creatore, capace di osservare le cose inosservate, di avere curiosità per quello che gli altri danno come scontato.

«Mi sono posto alla lettura di questo libro inquietante affidandomi ai flussi e riflussi di coscienza che l’autore sapientemente sa muovere. E ho finito per costruirmi un universo immaginario, raffigurandomi “Lo specchio del vescovo” trasposto in un testo teatrale. L’idea mi è stata suggerita dai lunghi monologhi drammatici che costituiscono la struttura portante del libro di Murtas. Istituendo una sorta di parallelo con “L’assassinio nella cattedrale” di Thomas Eliot, ho pensato che anche “Lo specchio” di Murtas potrebbe assumere il carattere d’una sacra rappresentazione o di una tragedia etico religiosa, soprattutto se gli splendidi monologhi interiori di Murtas autore venissero trasposti in un ipotetico “coro degli esclusi” che assolverebbe una funzione simile a quella  affidata da Eliot al coro delle donne di fatica della Cattedrale di Canterbury. Questa mia intima raffigurazione non vuole suggerire nulla all’autore, vuole solo dare una prova di quali suggestioni possono scaturire da una lettura meditata del libro di Murtas.

«Siamo all’ultimo atto del dramma, col grande monologo del Vescovo, una delle pagine più toccanti del libro. Padre Gilio ha avuto la sua rivincita, la morte l’ha reso più vitale, e Murtas l’ha collocato su spazi di tempo e di luogo dove nessun corrompimento può più sfiorarlo. Mai assenza è stata così presente. C’è attesa per i nomi degli assassini, mandanti ed esecutori, ma tutto è scontato, e tutto s’immiserisce di fronte alla confessione del Vescovo, un’ascesa dolorosa che trascende la pochezza senza riscatto del prelato e dell’uomo che lo incarna.  In questo capitolo si compie quello che, seguendo i sapienti, possiamo chiamare “mutamento di paradigma”, o passaggio dalla sacralità dei riti, delle chiusure e delle esclusioni alla teologia della carità, praticata da padre Gilio fino all’estremo sacrificio e teorizzata dal suo autore.

«Thomas Kuhn, il padre della suggestiva teoria del mutamento di paradigma, ha addotto un esempio metaforico per rappresentare ciò che accade nella coscienza del ricercatore nel momento del passaggio dal vecchio al nuovo paradigma. L’esperimento richiamato da Kuhn riguarda gli occhiali montati con lenti invertenti, ossia con lenti che capovolgono l’immagine. “Chi inforca questo tipo di occhiali”, dice Kuhn, “di primo acchito vede il mondo capovolto e subisce un disorientamento che mette in crisi ogni certezza.. Dopo una fase intermedia, caratterizzata da una visione confusa, ritorna a vedere gli oggetti come prima, sia pure capovolti.”

«Le lenti invertenti del Vescovo di Murtas sono costituite dallo specchio, davanti al quale il prelato, toccato dall’eroismo silenzioso di padre Gilio,  compie la sua metamorfosi tra speranza e disperazione, la disperazione di ciò che  è, e la speranza di qualcosa che ancora non appare. L’intera metafora è forse leggibile come decisione di Murtas di sottoporre a prova estrema la sua fede. Affidandosi alla capacità redentrice del racconto-confessione egli affronta i temi del più crudo dolore esistenziale e rievoca con afflato poetico le storie di dissoluzione e morte che ha incontrato nel suo pietoso attraversamento.

«Il libro di Murtas ha una dedica che mi tocca personalmente, alla quale voglio accennare non per esprimere la gratitudine che il gesto ispira, sentimento troppo privato per essere manifestato in questa sede, ma per mettere in rilievo come anche la dedica sia parte non secondaria della struttura narrativa che sapientemente Murtas ha dato al suo testo. E stato detto che la dedica di un libro ha qualcosa di magico, forse perché essa dà visibilità a quel luogo misterioso dove il corpo si annoda con l’anima. La dedica che Murtas mi ha donato viene da lontano, e racconta  attraverso quale impegno e quali rinunce egli sia giunto alla maturità di scrittura e di pensiero distillata in questo testo esemplare.

«Pensando agli impulsi generosi che spingono Murtas a dedicare i suoi libri, mi e tornato in mente un passo che Nietzsche dedica nella  Gaia scienza al sole:

«”O grande astro! Che sarebbe la tua gioia se non avessi nessuno a cui dare luce? Vorrei donare e distribuire, finché i savi tornassero a rallegrarsi della loro follia e i poveri della loro ricchezza…”.

«Prima di concludere mi preme chiarire che di proposito nelle cose che ho detto mi sono tenuto lontano da ogni referenzialità e ciò perché “Lo specchio del vescovo” è un romanzo nel quale l’autore è entrato da creatore, superando la materialità e la determinatezza di ciò che egli ha visto, sentito, pronunciato. I possibili riferimenti a una data realtà presenti nel testo di Murtas, che resta essenzialmente un’opera di invenzione e di finzione, acquistano altri echi, proprio per la trasfigurazione e l’innalzamento della realtà compiuti dalla forma, che diventa essa stessa contenuto. Una volta inseriti nel mondo della fantasia, i personaggi di Murtas rivendicano essi stessi la loro autonomia rispetto a qualsiasi realtà: un altro destino regola il loro nascere, il loro vivere e il loro morire».

 

Per “La figlia della Taliana”

Ospitata nella sede dell’antica e prestigiosa Arciconfraternita dei Genovesi e ad iniziativa degli Amici del libro, la presentazione del romanzo postumo di Maria Baldessari avvenne alla presenza di un folto pubblico. La dottrina dei relatori insieme con la qualità letteraria del testo stampato da Demos editore assicurò un alto standing alla serata. Bachisio Zizi ci mise del suo, tenne lezione, elevò lo spirito di tutti.

A quasi un anno dalla morte dell’autrice, giunta dopo molto, infinito, ingiusto soffrire, il libro onorava la memoria non soltanto di una scrittrice (in apparenza) alla sua prima e unica prova, ma di una intellettuale autentica dal fortissimo sentire civile e politico, di una insegnante di rara generosità – che da casa si portava dietro un grande e pesante registratore per far ascoltare ai suoi studenti dalla voce dei dicitori la lettura delle lettere dei condannati a morte della resistenza –, di una donna che aveva attraversato molte stagioni difficili nella sua formazione e negli assestamenti professionali, senza padre, nella precarietà lavorativa della madre vedova, in un ambiente che fino ai suoi dodici anni era stato estraneo di fatto (e forse ostile) al sentimento del sangue. Fino all’arrivo a Nuoro – la patria materna –, nei primi anni ’30, con tutto quanto ciò poteva significare in termini di socializzazione ed inserimento scolastico. Sorgeva il San Francesco allora, doveva essere clinica ginecologica ma poi fu ospedale omnibus… Veniva da Bologna una volta alla settimana il professor Delitala per le operazioni chirurgiche. Lo assistevano la Taliana e suor Giuseppina, una istituzione. L’esordio per la piccola era stato nella lingeria ospedaliera, aiuto di suor Luisa, un’altra istituzione pur se volubile e da non farci sempre affidamento perché malaticcia e anche bizzarra, con le sue preghiere recitate a salti… Gli studi come emancipazione, dalla licenza elementare fino alla laurea, nella Cagliari che rinasceva dopo la devastazione bellica. Ad ogni esame una discesa da Nuoro e, nei tempi ancora calamitosi, a bordo di un camion militare, in città la ospitalità nella foresteria dei cappuccini tana di pulci a chili. E prima, il corso magistrale e, in parallelo, l’impiego come contabile nella maggior impresa – la Ditta – della Barbagia intera…

Bachisio Zizi offrì, nella occasione della presentazione, alcune chiavi di lettura del romanzo autobiografico della sua Maria, proponendosi perfino come studioso del testo, filologo competente e scrupoloso… (ne sono evidenza grafica le riprese delle correzioni ora grammaticali ora soltanto lessicali).

 

«Sono grato agli “Amici del libro” e all’”Arciconfraternita dei genovesi”, le due benemerite istituzioni promotrici di questa iniziativa, che gratifica oltre ogni attesa, sia per il luogo che ci accoglie, così carico di storia, sia per il prestigio degli amici relatori, ai quali rivolgo il mio affettuoso grazie per la sapienza e la delicatezza con cui hanno parlato del libro e della sua autrice.

«Un grazie particolarmente sentito lo rivolgo alla dottoressa Cossu che, con una disponibilità e un impegno fuori dal comune, è stata la vera artefice dell’incontro, assecondata dalla sensibilità del prof. Lastretti che compie i suoi gesti generosi in punta di piedi.

«Io ho altri debiti di gratitudine verso la dottoressa Cossu per le attenzioni che generosamente ha prestato ad altre mie presenze negli ambienti culturali degli Amici del libro. E sono debiti che non conoscono prescrizioni né moneta che li saldi; questa consapevolezza mi porta a ricordare i debiti contratti con gli amici relatori per doni ricevuti in stagioni lontane che non si dimenticano.

«Giovanna Cerina, Sandro Maxia, Tonino Oppes mi hanno tenuto a battesimo come artigiano della scrittura nell’amata Nuoro, quando ancora ero considerato scrittore alla macchia secondo la felice definizione di Michelangelo Pira; di Tonino Oppes ricordo una intervista radiofonica di alcuni anni fa, condotta con una perizia e un garbo che riuscivano a rendere chiare le cose oscure; a Pina Solarino mi legano sentimenti di profonda stima consolidatasi da un dialogo a distanza, affidato ai silenzi.

«Un grazie commosso al pubblico, la cui presenza sento come omaggio generosamente reso alla memoria dell’autrice del libro.

«Io non mi azzardo ad affrontare nella sua interezza il testo della “Figlia della Taliana”: ci sono i pudori che frenano e ci sono le quattro relazioni  che compongono una splendida narrazione la cui continuità di discorso non ammette un di più né un di meno. Non voglio sciupare niente per cui concentrerò il mio intervento su uno dei percorsi del libro particolarmente caro all’autrice.

«Vorrei partire dalla considerazione che ogni libro, una volta pubblicato, si lascia dietro un “fuori testo”, una sorta di coacervo letterario in cui rifluisce tutto ciò che non ha potuto comparire nell’opera data alle stampe. Il “fuori testo” è un concetto ampio che include non solo gli elementi specificatamente narrativi, lasciati cadere per ripudio o disamore, ma anche i dubbi, i ripensamenti e  i pentimenti che hanno accompagnato l’impegno creativo dell’autore e che rientrano nella sfera dei cosiddetti “immateriali”.

«Questo riferimento riconduce alla “figlia della Taliana”,  il cui “fuori testo” acquista un rilievo particolare e al quale voglio accennare brevemente perché tocca la mia responsabilità di curatore dell’opera.

«“La figlia della Taliana” non era destinato alla pubblicazione, l’autrice sia nel corso della scrittura, sia dopo, ha sempre sostenuto che scriveva per se stessa, e per i figli, scartando fermamente ogni proposito di pubblicazione.

«Contravvenendo per amore non per vanità a quel divieto, ho recuperato il testo dal computer dove l’autrice faticosamente l’aveva collocato, e l’ho dato alle stampe, senza nulla mutare, anche se il testo riversato nel libro è parte di una narrazione più ampia. Non so quali varianti avrebbe potuto introdurre l’autrice al suo testo se avesse acconsentito alla pubblicazione, ma resta il mio turbamento per la trasgressione consumata ignorando perfino le riserve di una mia figlia che inizialmente aveva tentato di dissuadermi.

«Sarebbe  troppo lungo spiegare gli intendimenti e i sentimenti che mi hanno mosso in questa operazione editoriale: c’è stato certamente un apprezzamento riparatorio nei confronti di un testo che rivela solo alla distanza i suoi valori, celati per pudore dietro la linearità e leggerezza di una scrittura che non conosce concitazioni; ci sono stati gli incoraggiamenti degli amici carissimi Gianni Mattu e Leandro Muoni, ma c’è stato anche e soprattutto il proposito di dare visibilità, documentandola quasi, alla coerenza che caratterizza la natura e l’andatura dell’autrice, sia nella quotidianità del vivere, sia nella professione d’insegnante che ha esercitato per quarant’anni con passione e impegno. Forse nella cerchia dei “figli” cui lo scritto era destinato sono da includere gli alunni dell’autrice da lei considerati “figli dell’anima”. Sorprendentemente, quell’intento dedicatorio riflette il senso del libro, che nel recupero del passato mette in moto una memoria operosa che coniuga i suoi verbi al presente futuro.

«Anche se troppo coinvolto sentimentalmente, qualcosa di più pertinente vorrei dirla su “La figlia della Taliana”, sia pure tenendomi in bilico tra testo e fuori testo.

«So per dolorosa esperienza personale che i libri di narrativa non ammettono letture all’insegna dell’identificazione nel vano tentativo di trovare corrispondenze tra persone e personaggi. Una volta inseriti nel mondo della fantasia, i personaggi rivendicano essi stessi la loro autonomia rispetto a qualsiasi realtà: un altro destino regola il loro nascere, il loro vivere e il loro morire. E tuttavia devo prendere l’avvio proprio dall’identificazione del personaggio forse più congeniale all’autrice. Parlo del personaggio della Maestra, “sa mama ‘e siccu” direbbero a Nuoro, che poi s’identifica con Gonaria del “Giorno del giudizio”, che Salvatore Satta introduce col suo vero nome: Ignazia. La variante è opera sapiente e prudente del nipote di Salvatore Satta, il compianto Fausto Satta.

«L’esistenza della nostra autrice, che è anche personaggio della narrazione, è raffigurabile a un’ellisse, i cui fuochi sono, da una parte i luoghi dell’anima: Baselga e Nuoro e dall’altra, nella sfera degli affetti e degli apprendimenti, la madre e la Maestra. Il  libro racconta fra l’altro le distanze e le separazioni fra quei fuochi, che sembra non debbano incontrarsi mai, ma racconta anche la ricerca incessante da parte dell’autrice personaggio di un terzo fuoco, uno spazio perduto sentito come luogo di ricomposizioni, di intese e perfino di fusioni. La Maestra nel libro non ha un nome, ma l’autrice lo rivela indirettamente quando scrive: “La Maestra, fedele alla radice latina del suo nome, ardeva d’amore per tutte le creature”. E di quell’ardore si è nutrita l’esistenza dell’autrice personaggio nel sentire e nell’agire, non per fascinazione subita, ma per predisposizione d’animo. Ardore che si impone fin dalla prima apparizione della Maestra, la cui figura minuta muovendosi leggera nell’antica casa segnata dal dolore, sembra emanare una forza spirituale straordinaria, sublimata dalla musicalità della voce e dalla luce degli occhi.

«“Mi resi conto, annota l’autrice, del perché mia madre voleva che frequentassi la quinta con la sua maestra”…

«Ma la Maestra, attesa quotidianamente davanti alla sua casa dalle alunne che si contendono il posto al suo fianco, acquista voce e presenza con una forza evocatrice senza uguali quando esercita il suo ministero d’insegnante:”In classe la sua parola si caricava di magia e riusciva a sollevarci alle altezze da lei volute. La forza evocativa della sua immaginazione ci dava sensazioni ed emozioni vivissime ed era come se ci trovassimo di fronte alla fantasia fattasi voce, alla voce che raccontando storie di popoli e città diventava pittura,  mu­sica,  poesia; così riusciva a comunicarci il senso della storia, dell’arte, della vita”».

«La Maestra vive con le due sorelle, Faustina e Angelina, diversissime fra di loro, ma toccate entrambe dallo stesso male, un turbamento della mente che le porta a fuggire dagli altri e da se stesse per sottrarsi a supposti contagi sempre in agguato. La follia che aleggia sotto le volte monastiche dell’antica casa fa diradare le visite delle persone che un tempo cercavano e trovavano sollievo nelle parole consolatrici della Maestra. E l’autrice, alunna prediletta, finisce per rimanere l’unica frequentatrice della casa.

«”Anche nel cuore della notte, se scoppiava un temporale, avvolta nella mia mantella di ‘giovane italiana’ abbandonavo mia madre, per precipitarmi da lei che era terrorizzata dai tuoni e desiderava compagnia…”.

«Con amichevole preoccupazione, il dottor Mores, medico di famiglia e uomo di grande saggezza, suggerisce alla madre dell’autrice di distogliere la figlia dal frequentare la casa della Maestra, e parla della pazzia come male che contamina. E l’autrice annota malinconicamente:”… sarebbe stato imperdonabile abbandonarle in quella condizione di isolamento, ed a mia madre non avevo lasciato trapelare fino a che punto la situazione fosse divenuta drammatica”.

«I raffronti sono improponibili, soprattutto quando si cita Salvatore Satta, un gigante nel panorama letterario contemporaneo, ma il richiamo al personaggio di Gonaria del “Giorno del giudizio” aiuta a dare un senso, al di là del testo scritto, a tutto ciò che lega l’autrice alla sua maestra e alla casa sfiorata dalla follia.

«Le pagine che Salvatore Satta dedica alla vicenda di Gonaria e del gineceo in cui essa agisce con poetica insensatezza sono indimenticabili per profondità di analisi ed efficacia rappresentativa. Col distanziamento del narratore di razza, Salvatore Satta si cala nel mondo dolente di Gonaria e rivela le debolezze delle creature che lo popolano, stemperando nella sottile ironia la severità del giudizio che gli è propria. Per lui la follia è una distanza dalla ragione, un vuoto misurabile nelle devianze e stravaganze del vissuto quotidiano. Vissuto che esplora, scarnificandolo impietosamente, in tutte le sue pieghe, concludendo poi: ”Gonaria sa tutto di Dio e non sa nulla della vita…”.

«Ciò che ci attendiamo da un grande scrittore non sono le verità storiche, ma le verità artistiche. E Salvatore Satta eternizza il suo personaggio strappandolo dalle miserie della vita mortale e innalzandolo al suo mondo poetico, bello e terribile, insieme agli altri peccatori chiamati all’inesorabilità del suo giudizio.

«La Figlia della Taliana il suo personaggio lo vive carnalmente prima che letterariamente, tutto ciò che essa dice e tace della sua Maestra scaturisce da esperienze vissute al limite di quella immedesimazione paventata dal dottor Mores. E tuttavia saranno proprio i libri suggeriti dal dottor Mores a dare, inconsapevolmente, l’antidoto per evitare la contaminazione temuta.

«”Quelle letture radicarono in me la convinzione che poeti, eroi, mar­tiri e santi siano tormentati tutti da un’idea fissa, e questo aumentò la mia considerazione per le sorelle Sanna, così al di sopra della gente comune e delle intelligenze normali, e al di sotto delle norme che regolano la vita di tutti i ‘benpensanti’”.

«Ma chi veramente ha inseminato nell’anima e nella mente della Figlia della Taliana l’antidoto per la salvezza o salvazione è la Maestra col suo ardere d’amore per tutte le creature.

«”L’amore è la forma più alta di follia”, predicava Platone, per il quale la follia è un’esperienza dell’anima, e le esperienze dell’anima sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e disporle in successione ordinata…

«Nel libro della Figlia della Taliana la Maestra occupa la scena come persona e come personaggio, due ruoli che sembrano imporsi per necessità nella loro intercambiabilità di fronte alla singolarità di questa donna che non ha dipendenze d’autore e sembra scaturire da un prodigio della natura. In quella sua vaghezza poetica c’è l’ignoto, non come un vuoto nulla, ma come ciò che pur sfuggendo alla logica vive dentro ogni esperienza… Di quel fuoco si è nutrita l’anima della figlia della Taliana, fuoco che ha lambito anche me.

«L’impulso che guida la Maestra nel suo rapporto col mondo  è la carità, intesa  come l’unica strada che congiunge l’uomo a Dio. E la Figlia della Taliana ricorda: “… Mi confidò che aveva rinunciato a farsi suora perché non ammetteva il ricorso ad un’autorizzazione per soccorrere chi avesse urgente bisogno di aiuto: il suo spirito di carità non tollerava né impedimenti né indugi al bene ope­rare”.

«Ricordando il perentorio giudizio di Salvatore Satta, cosa può sapere della vita questo personaggio che considera la carità e l’amore  “doverose restituzioni”? La nostra autrice ricorda:”Nella stanza da pranzo, proprio come se fosse il muro del pianto, transitavano persone di ogni età e di ogni condizione sociale, ciascuna con una sua storia ed una sua croce: ex alunne, parenti poveri, parenti illu­stri, vicine di casa, religiosi e amici di vecchia data, e tronfie nobil­donne col costume orlato di damasco e  ampi scialli frangiati di seta.

«”Con amorevole comprensione tutto si ascoltava in casa Sanna, e tutti trovavano sollievo nelle parole consolatrici che la Maestra  sape­va trovare, per infondere una speranza, placare uno sdegno, formulare un augurio”.

«Nell’amore praticato dalla Figlia della Taliana non c’è insensatezza, se mai una consapevolezza che innalza e redime, come confermano tre passaggi cruciali del libro che, a parte la felicità espressiva, conducono a quel male del vivere cantato da Salvatore Satta. Ecco la Maestra, colta in uno dei suoi gesti poetici capaci veramente di scardinare le norme che regolano la vita di ogni benpensante:

«”Certe notti afose d’estate mi pregava di accompagnarla in cattedrale: avvolta nel suo nero drappo, leggera come un’ombra sfiorava appena la terra; toccato il portone chiuso della chiesa, si chinava a baciarne la soglia, mormorando una sua preghiera; poi mi faceva sedere sulla gradinata e guardava il cielo rapita: il raggio della luna riempiva di luce i suoi occhi, e in un sussurro d’estasi le sue labbra recitavano il Cantico delle creature”.

«Ed ecco Angelina, la sorella minore della Maestra. Il turbamento che ci assale di fronte alle sue devianze è al limite della scrittura:

«“Consapevole delle sue anomalie, affinché la dignità della famiglia non ne soffrisse, lei si isolava sempre in cucina. Pallidissima, con gli occhi tur­chini e una massa di capelli crespi arruffati, toccava ogni cosa con dei pez­zetti di carta e sorbiva il cibo direttamente dal piatto, senza far ricorso alle posate, ma la sua indole mite e discreta toglieva ogni rozzezza a quel fare primitivo”.

«In Faustina, la terza sorella che, citando Sant’Agostino, amava ripetere che la prima carità comincia da noi stessi, la follia esplode in una notte di dolore e terrore con una violenza che tutto sconvolge e travolge. La Figlia della Taliana rivive quel suo gesto che nessuno ha mai condannato, anzi; e sullo sfondo c’è la Maestra che tutto muove, anche quando tace:

«“Piegata in due come una cariatide, la Maestra teneva la testa fra le gi­nocchia per non sentirla: su quel mucchietto di ossa sembravano essersi date appuntamento le sofferenze di tutta l’umanità, ogni urlo di Faustina lo sentivo come una martellata che conficcasse altre spine nel capo della mia maestra… Le ore non passavano più. Ma ad un certo punto, rompendo ogni freno,  Faustina incominciò a gridare:

- Io brucio, una goccia mi è venuta addosso.

«”Anche la resistenza  dei  miei  nervi era giunta al limite: afferrato il bicchiere, in un impeto di follia le scaraventai addosso tutta l’acqua che conteneva.

«”Ne seguì una scena indescrivibile: col viso grondante, le vesti solle­vate senza pudore,  più nessuna paura di urtare contro qualcosa o qual­cuno,  Faustina girava per tutta la stanza gridando con quanto fiato aveva in corpo:

- Maria assassina! Maria assassina!

«”Attraversai di corsa la città deserta ancora immersa nel sonno, per invocare l’intervento del nipote che dirigeva l’ospedale…

«”L’indomani la Maestra mi fece avvertire che un’autoambulanza aveva trasportato Faustina all’ospedale di Sassari e, se volevo, potevo riprendere il mio ruolo di compagna delle sue notti bianche…”.

«Vorrei tornare all’ellisse della Figlia della Taliana, con quei due fuochi, la madre “di latte” e la Madre “de siccu”, che non s’incontrano, né si scontrano. In questa vicenda, un racconto nel racconto, sul quale non a caso ho concentrato il mio modesto intervento, affidandomi a una rilettura del libro, c’è il dramma inespresso della Taliana madre, che con muto dolore vede la figlia correre insonne verso la luce accecante che si irradia dall’ardore della Maestra. E’ l’accecamento della figlia, falena indifesa, che lei paventa. Non è in competizione con la Maestra, alla quale è legata da antica stima, né ha dato ascolto al monito di dottor Mores, imponendo insensati divieti, ma sente che  la figlia tende a collocarsi mentalmente e anche sentimentalmente su orizzonti che sfuggono alle sue cure protettive. Ma tutto viene da lontano, la vicinanza della Maestra ha solo accelerato un processo  che era già in atto.

«C’è un passaggio rivelatore nel libro, che, anche se fuggevolmente, dà conto della precoce autonomia di giudizio della figlia: “Dubbi e contraddizioni ogni tanto affioravano e intaccavano l’identità di vedute fra me e mia madre,  minacciando la nostra armonia: che tutti fossero ‘interessati’ e solo noi non lo fossimo per me non era verosimile”.

«Ma cosa pensa la figlia bambina delle rigidità e degli eccessi di  questa madre coraggio? La narratrice ne parla con misura in una delle pagine più toccanti del libro, che meriterebbe di essere richiamata anche perché il ritratto della madre, tracciato con mano felice, fa pensare a quel luogo misterioso dove il corpo si annoda con l’anima: per brevità leggo solo il brano conclusivo:

«”«”Di mia madre comunque mi sentivo sempre orgogliosa, e quando la sera potevamo recarci insieme alla funzione religiosa mi aggrappavo lieta al suo braccio e  con la testa rovesciata all’indietro contavo le stelle: la loro luce mi riempiva di gioiosa fiducia.

«Dicevo della inquietudine che assale la madre quando avverte che il vigore e l’inventiva che l’avevano sostenuta negli attraversamenti della sua travagliata esistenza stanno venendo meno. La stanchezza tocca l’anima più che il corpo, e quando sente prossima la fine, alla figlia che non può più proteggere, può dire soltanto: “- Addio Màri, io me ne vado, ti lascio un esempio di forza: sii forte anche tu…”.

«Nello smarrimento dell’ora, la figlia pensa ancora una volta di trovare approdo presso la Maestra, nell’antico palazzo dove il pianto aveva corroso i muri e le stesse fondamenta.

«E qui invoco la vostra pazienza e comprensione per la lettura distesa che devo pur fare dell’atto finale del dramma:

«”Il  pugno di ferro del battente ricadde di peso più volte sul vecchio portone, propagando nel silenzio mattutino l’eco fragorosa di quei colpi assordanti.

«”Ma nessuno si affacciò. Intervallati da tre lunghe attese, i secchi colpi vibrati con ulteriore energia, ancora si spensero desolatamente, come respinti dallo  spessore di un sonno che ricordava la morte.

«”E nessuno comparve: quel Dio sordo alle mie preghiere aveva reso sorda anche la Maestra, sempre insonne e vigile per cogliere il più lieve rumore della strada, sempre sul chi va là e pronta ad accogliermi con manifesta gratitudine, quando i tuoni o altro mettevano in subbuglio il suo ipersensibile sistema nervoso.

«”Alla fine, dentro di me udii la voce di mia madre infrangere la bar­riera di quel silenzio e ripetermi, come ai tempi della crisi di Faustina: “Torna a casa,  Màri”.

«”Dovevo essere “forte”,”avere coraggio”, sottrarmi a quell’affetto di cui lei si era sentita defraudata, allorché le mie cure e le mie confidenze privilegiavano le Sanna.

«”Su quel portone ostinatamente sbarrato lessi i segni del mio destino e della volontà di mia madre. E tornai a casa”.

«Così si chiude il racconto della Figlia della Taliana, una chiusura che apre a un nuovo inizio. Non è un ritorno al punto di partenza: troppe cose sono mutate e troppe credenze sono state scardinate. La figlia si è “contaminata” e arricchita di conoscenza nelle tappe dei suoi attraversamenti, ma si porta dietro il viatico della madre, vivificato dal molto che la Maestra, nella scuola e nella vita,  amorevolmente ha inseminato nel suo cuore e nella sua mente. E la casa, simbolo d’immutabilità e di permanenza, è forse il terzo fuoco dell’ellisse a lungo cercato, uno spazio di possibili intese, che non conosce esclusioni».

 

 

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