L’Occidente senza strategie davanti alla ferocia del Califfo, di Alberto Flores d’Arcais

Anche la reazione dell’America appare blanda rispetto alla pericolosa avanzata degli jihadisti e dei tagliagole che continuano ad alzare il tiro.


Con il video della barbara uccisione di James Foley da parte di un tagliagole mascherato dell’Is, l’autoproclamato Califfato (o Stato Islamico) ha brutalmente alzato la posta in gioco nell’area più calda (e pericolosa) del mondo. La decapitazione del freelance americano, seguita – secondo un macabro rituale – ai bombardamenti decisi (tardivamente) dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama per mettere un freno ai massacri indiscriminati di cristiani, yazidi (e musulmani non allineati) e al rapimento e conseguente riduzione in schiavitù delle loro donne, segna il definitivo cambiamento di una strategia che andava avanti da anni. Da una visione di stampo medievale e regionale (il Califfato) rivolta ai musulmani del Medio Oriente e del Golfo si passa alla sfida aperta all’Occidente e ai suoi cittadini. Utilizzando per una violenza disgustosa ed atavica i più moderni mezzi di comunicazione. Un singolo atto di terrore (per quanto orribile) cambia di poco quanto accade sul terreno, ma ha un significato militare-psicologico di notevole impatto. Serve per dimostrare al nostro mondo – che troppo spesso ha chiuso gli occhi di fronte alla barbarie islamica – che nessuno (tantomeno i “prigionieri”) può sentirsi al sicuro, serve a rassicurare i fanatici militanti – quelli già in armi e quelli che da diverse parti del mondo (anche occidentale) sono pronti ad arruolarsi – che le bombe dei caccia americani e qualche rovescio militare non fanno paura. Usare gli ostaggi per vendetta, per seminare terrore, per una dichiarazione “politica” o per (ed è la maggioranza dei casi) ottenere milioni di dollari come riscatto, è diventata un’arma abituale nell’arsenale degli jihadisti, un’arma che non lascia immune, nelle zone di conflitto, nessuno: che si tratti di volontari, di lavoratori, di giornalisti, a volte di semplici turisti. Grazie ai recenti raid dell’aviazione americana, i peshmerga del Kurdistan hanno riconquistato una punto strategico decisivo come la diga di Mosul, ma ogni giorno che passa l’Is continua a rafforzarsi in altre aree sunnite dell’Iraq. Senza l’appoggio dell’aviazione Usa (e delle sue bombe) curdi ed esercito regolare (quello che ne rimane) iracheno, faticano a frenare l’avanzata degli jihadisti e lo stesso avviene nella vicina Siria, dove solo negli ultimi tre giorni l’esercito del Califfato ha fatto suoi decine di villaggi attorno alla città strategica di Aleppo. Ottenendo un doppio risultato: la conquista di un territorio (che ridisegna la mappa) e il controllo (con il terrore) della popolazione civile che rende più difficile un’azione militare. In città come Mosul e Falluja (Iraq) o Raqqa (Siria) gli uomini armati e a volto coperto – che abbiamo imparato a conoscere dai video di propaganda – vivono nel tessuto cittadino, sono parte integrante della struttura sociale e urbanistica. Rendendo eventuali bombardamenti ad altissimo rischio di “danni collaterali”, brutto eufemismo per indicare la possibile morte di migliaia di civili innocenti. Anche di fronte a questo tragico quadro, la Casa Bianca di Obama sembra restia a quello che gli analisti del Pentagono ritengono l’unico possibile intervento per sconfiggere in modo definitivo i jihadisti: l’invio di truppe di terra. I famosi “boots on the ground”. Il brutale assassinio di James Foley ha provocato durissime parole di condanna, grande rabbia e nuovi (limitati) raid aerei, ma niente fa pensare che Obama stravolga una strategia che limita l’intervento alla protezione del personale americano ancora presente in Iraq, alle difesa delle infrastrutture più importanti (come i pozzi petroliferi) e alla salvezza dei civili dove è possibile. L’unica escalation sarà fatta in silenzio, dando alla Cia nuovi mezzi e più uomini (anche delle Forze Speciali) per intervenire in operazioni “top secret”. E l’Europa? Ancora una volta sembra divisa e indecisa sul da farsi. L’invio di armi ai curdi è un segnale importante (e anche l’Italia fa la sua parte), ma di fronte a una sfida epocale come quella lanciata dal “Califfo” al Baghdadi, serve certamente qualcosa di più.

 

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