Basi e poligoni in Sardegna: ma il presidente Pigliaru fa il gioco dei militari? di Vito Biolchini
L’articolo è stato pubblicato nel sito dell’Autore il 10 agosto 2014 alle 20:07 1
È proprio vero che, come titola oggi l’Unione Sarda in prima pagina, per la Commissione Difesa della Camera “i poligoni non si toccano”? A leggere il documento finale in realtà questa è solo la segreta speranza dei militari e del governo Renzi, giacché a proposito il parlamento è stato molto chiaro:
L’indagine conferma la validità degli obiettivi della dismissione dei poligoni di Capo Teulada e di Capo Frasca e della riqualificazione del poligono di Salto di Quirra, già individuati al Senato nella scorsa legislatura dalla Commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito (ecco il documento).
Dunque non una ma addirittura due commissioni d’indagine parlamentari hanno stabilito che Teulada e Capo Frasca debbano chiudere e che Quirra debba essere riqualificata (cioè ridimensionata). Il problema è che questo obiettivo viene subordinato ad una serie di condizioni che appaiono difficilmente soddisfacibili.
La prima passa per un riequilibrio del peso delle servitù militari: per un poligono che chiude nell’isola ce ne deve essere un altro che apre da qualche altra parte. Ma dove? In Italia o in Europa, giacché le basi sarde sono utilizzate da forze armate che fanno parte della Nato? La commissione ha preferito non esprimersi a riguardo, confinando esplicitamente il tema del riequilibrio tra quelli che potranno essere affrontati addirittura nel lungo periodo (il che politicamente vale come un “mai”).
La seconda condizione riguarda la tutela della salute, dell’ambiente e del paesaggio. Qui le carte da giocare sono evidentemente di più, viste le inchieste in corso che riguardano casi di militari deceduti per malattie contratte durante la permanenza nei poligoni e lo stravolgimento di aree di grande pregio naturalistico ed archeologico (Capo Teulada sotto questo aspetto grida vendetta). Che i poligoni inquinino va da sé, e la Commissione lo conferma clamorosamente:
“Un’indagine ambientale promossa dal Ministero della difesa certifica un inquinamento incontrovertibile a Quirra”;
“A Capo Frasca sarebbero documentate forti e gravi violazioni delle norme minime di sicurezza dei lavoratori e un’elevatissima incidenza di tumori tra dipendenti sia civili che militari”;
“A Capo Teulada i monitoraggi ambientali hanno rivelato una contaminazione da torio per la quale saranno avviate bonifiche adeguate. Peraltro l’autorità giudiziaria non ha autorizzato l’Esercito italiano ad avviare le opere di bonifica in quanto il territorio sarebbe sottoposto a sequestro preventivo per un ipotesi di reato di inquinamento ambientale”.
Tuttavia nemmeno l’elemento ambientale sembra essere decisivo, visto che per i militari “sono i modi di gestione (dei poligoni, ndc) a rappresentare le criticità”. Una serie di bonifiche ad hoc e una riperimetrazione (ma attenzione a questo tema, che nasconde la vera grande fregatura dietro l’angolo) potrebbero bastare a tacitare le critiche.
Poi c’è la questione economica. Per il capo di Stato Maggiore quando si parla di chiusura dei poligoni è necessario tenere nella giusta considerazione
“l’impatto sul piano occupazionale qualora a tali processi non si accompagni una progettualità su forme di sviluppo alternativo”.
Questa posizione dei militari è la più vergognosa (non trovo altre parole) giacché è la stessa commissione ad ammettere che
Nel corso del dibattito è emerso come in Sardegna, a differenza di altre regioni, le servitù militari non si sono tradotte in un’interazione economica in termini positivi per le popolazioni e per i territori. D’altra parte, la forma di servitù militare, quale è il poligono, è quella che solitamente porta meno benefici a livello locale a fronte di un impatto violentissimo sul piano ambientale.
Non solo, la Commissione dichiara senza dubbio alcuno che
la ricaduta positiva sul territorio dell’attività del poligono di Teulada è pari a zero.
“Pari a zero”. I poligoni di Quirra, Teulada e Capo Frasca e la base di Decimomannu sono cosa ben diversa dalla base americana di La Maddalena, dove la presenza di militari aveva una oggettiva ricaduta economica. Sul fronte delle alternative economiche la politica, se volesse, avrebbe gioco facile a garantire poche centinaia di buste paga in cambio della chiusura delle basi.
E invece cosa succede? L’impressione è che la politica si nasconda dietro le posizioni dei militari. Lo fanno smaccatamente sia il centrodestra (e il dibattito che in consiglio regionale ha preceduto la partecipazione del presidente Pigliaru alla conferenza nazionale sulle servitù lo ha dimostrato) sia il governo Renzi, totalmente appiattito sulle ragioni dello Stato Maggiore.
Differente è invece la posizione del Pd, e bisogna dare atto al parlamentare Giampiero Scanu di essersi sempre contrapposto ai militari. Ma tra gli interessi della Sardegna e la fedeltà al governo, il Pd isolano cosa sceglierà?
In attesa di scoprirlo, prendiamo atto che nel frattempo i militari hanno capito che alla lunga la loro battaglia è perdente e che ora devono attestarsi su posizioni diverse. Nel documento c’è scritto chiarissimamente che sono disposti a ridurre le attività a fuoco, sia complessivamente che nei periodi estivi, e di restituire alle comunità pezzi di territorio pregiati come Porto Tramatzu e alla spiaggia «Sabbie bianche»: una ritirata strategica. Sono perfino disposti a dotare di maggiori servizi le basi e i poligoni, con l’obiettivo di superare il concetto di “servitù militare”, che evidentemente inizia ad essere indigeribile per gran parte dell’opinione pubblica isolana, e addirittura di aumentare i controlli ambientali (hanno istituito la figura dell’esperto ambientale quale consulente che affianca i comandanti delle basi). La parola chiave è “mitigazione”.
I militari non escludono nemmeno l’ipotesi di una riperimetrazione dei poligoni, “tenuto conto che tale perimetrazione è stata operata nel 1956 e molto probabilmente corrispondeva a esigenze che in parte possono essere mutate”; però in sostanza nulla sarebbe destinato a cambiare perché
le dimensioni attuali dei poligoni contemplano la previsione delle cosiddette «campane di sicurezza», necessarie a preservare la popolazione civile da danni derivanti da sistemi d’arma ad impatto superiore a quelli che potevano essere utilizzati proprio alla fine degli anni ’50.
Poligoni più piccoli, campane di sicurezza più ampie, e alla fine tutto resterebbe com’è: geniale, no?
Eppure paradossalmente, al momento i militari offrono più di quanto il presidente Pigliaru (dopo il gesto clamoroso della mancata firma sul protocollo d’intesa al termine della Conferenza nazionale sulle servitù militari) addirittura sembra chiedere. Le posizioni della Regione sono state così riassunte in un comunicato stampa inviato lo scorso 30 luglio, al termine di un incontro traPigliaru e il sottosegretario alla Difesa Rossi:
Le richieste che la Sardegna ha portato al tavolo di giugno sono nell’ottica dell’avvio di un processo di riduzione dei gravami militari nell’isola, di riconversione delle attività svolte nei poligoni con l’impegno ad una destinazione alla Regione Sardegna di programmi di ricerca e sviluppo in misura almeno pari ai gravami, di definizione di misure compensative così come di ampliamento del periodo di interruzione delle esercitazioni nella stagione estiva, oltre che della tutela ambientale e della salute attraverso l’istituzione di osservatori ambientali permanenti e indipendenti che assicurino una trasparente informazione ai cittadini.
Nessuna chiusura di nessun poligono, nessun richiamo alle bonifiche, solo un vago accenno ad ipotetiche “misure compensative” (che potrebbero essere anche quei servizi aggiuntivi legati alla protezione civile che consentirebbero alle basi di non essere più espressione delle “servitù militari”), neanche la richiesta di maggiori indennizzi (come giustamente proposto da NicolòMigheli nel suo intervento dal titolo “I poligoni non si toccano”, nel quale scrive “Se così deve essere, facciamoci pagare e molto”), ma solamente un percorso “nell’ottica dell’avvio di un processo di riduzione dei gravami militari nell’isola…”. Letta così, ci sarebbe da dare ragione al ministro Pinotti secondo cui la mancata firma di Pigliaru sarebbe maturata solo “in ragione di una contingenza legata alla stagione elettorale che la Sardegna ha attraversato nei mesi scorsi”…
Una “contingenza”, cioè un gioco delle parti insomma, perché in realtà questo governo nazionale e questa amministrazione regionale sembrano non avere alcuna intenzione di operare un ridimensionamento vero delle servitù in Sardegna, se è vero (come è vero) che la giunta Pigliarusi appresta ad avanzare delle richieste così blande che sono già state avanzate autonomamente dai militari.
Il punto di partenza della trattativa dovrebbe essere invece proprio il documento della commissione Difesa della Camera che impone l’indicazione di
una tempistica precisa per il piano di dismissione, precisando con quali risorse si fanno gli interventi, con quali strutture di coinvolgimento, di quali imprese e soprattutto con il pronunciamento del popolo sardo attraverso la sua massima assemblea rappresentativa. La Sardegna dovrà indire la sua Conferenza regionale sulle servitù militari, come è avvenuto in passato.
La società sarda è matura ed è pronta a combattere una battaglia per un forte ridimensionamento delle servitù militari nell’isola. Perfino il parlamento italiano dichiara che da noi la situazione è insostenibile. Il presidente Pigliaru decida da che parte stare.