I Cristiani in fuga dall’Iraq e l’interventismo di Obama, di Vittorio Zucconi
LA REPUBBLICA - 08 agosto 2014
COME il colpevole condannato a tornare sul luogo del delitto, così oggi l’America medita di tornare con le armi sul cadavere dell’Iraq che aveva lasciato a decomporsi. SUI molti cadaveri – scrive Vittorio Zucconi su LA REPUBBLICA -, perché finalmente anche Barack Obama ha ammesso che l’avanzata della nuova al Qaeda 2.0, rinnovata e addirittura peggiorata nella ferocia, nel fanatismo e nei finanziamenti, l’Is, è diventata ‘una catastrofe umanitaria’. ‘Corre veloce come un treno’, dice il suo portavoce, travolgendo con i cristiani in fuga migliaia di innocenti nella sua corsa e riportando l’Iraq a quei massacri tribali, etnici e religiosi di Saddam che oggi rivediamo. Che cosa possa fare concretamente questa amministrazione americana che aveva sperato di poter abbandonare quel Paese al finto governo di al Maliki e al suo esercito fantoccio dopo aver creduto di poterlo ‘democratizzare’ è ben poco. A Washington, di fronte alla processione biblica di sfollati, profughi, cristiani e non cristiani falciati dal treno impazzito dei terroristi organizzati, si parla di bombardamenti, di droni, di immancabili ‘operazioni chirurgiche’ con armi intelligenti, le stesse, stoltissime, che abbiamo visto all’opera fino a ieri con le insegne israeliane a Gaza. Soltanto la possibilità di un intervento di forze armate di terra è stato escluso dal portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, e sarebbe difficile immaginare un lancio di paracadutisti americani a Mosul, Raqqa, Hawja, nelle città nei villaggi ormai nelle mani dei jihadisti dell’Is, acronimo di Stato Islamico. Le battaglie campali e decisive contro formazioni organizzate di guerriglieri sono un’illusione che, prima il Vietnam e ora l’Afghanistan, hanno cancellato dal pensiero strategico, ora alle prese con le ‘guerre asimmetriche’. I sofisticati, spregiudicati strateghi di questa avanzata contro Baghdad sono crudeli, fanatici, sanguinari, ma non sono idioti. Si dileguerebbero nella sabbia sui loro pick up armati con lanciagranate e mitragliatrici, per ricomparire poi non appena le truppe americane si ritirassero. Un classico dilemma si apre dunque davanti a un Obama che aveva creduto, per mancanza di alternative, alla ‘fiction’ della neonata e autonoma democrazia irakena (quella del voto con i pollici inchiostrati dalla propaganda bushista) e aveva dovuto rispondere alla domanda di ‘riportare i nostri ragazzi e ragazze a casa’ dopo 4.486 caduti e 35 mila feriti. Non può ignorare quella straziante, oscena teoria di decine e decine di migliaia di persone lungo i sentieri delle lacrime e del sangue che cercano di sfuggire dal piccolo olocausto cristiano voluto dai jihadisti, perché la decomposizione dell’Iraq resta un prodotto diretto della sequenza di errori e dalla miopia arrogante della gestione Cheney-Rumsfled. Ma non può tornare in forze perché questo, oltre a essere strategicamente e politicamente non fattibile, puntellerebbe quel regime del Quisling sciita, Nuri al Maliki, del quale, dopo averlo costruito, ora Washington vuole liberarsi. La inascoltata profezia del generale Powell, quando aveva avvertito la gang dei neo-con che in guerra vige la ‘regola del negozio di porcellane’, e quello che rompi diventa tuo, ha reso invincibile la guerra in Iraq come quella in Vietnam, perché fondata sulla eterna illusione di poter ‘costruire nazioni’ come castelli di Lego. Gli Stati Uniti, che oggi hanno il volto e la voce di Barack Obama, sono prigionieri di una trappola che essi stessi hanno costruito, come già notammo nei primi mesi della facile spallata al guscio vuoto del regime saddamita. Il presidente, che mai ha brillato per fermezza e per decisionismo nonostante oggi la Destra lo accusi, grottescamente, di eccesso di autoritarismo, oscilla fra il fronte ucraino, la Siria, Gaza, l’Afghanistan, dove è stato ucciso da un assassino in divisa dell’esercito afghano il generale americano Harold Greene. Non esiste, per nessuna di queste catastrofi, una soluzione semplice e immediatamente praticabile, anche se ‘immediatamente’ è l’avverbio più usato a Washington. La strage e la cacciata dei cristiani, come dei non cristiani, degli Shia, degli Zoroastrani dal Nord Iraq da parte dei peggiori ceffi dell’estremismo Sunni (si dice finanziato segretamente dai Sauditi, che non potevano tollerare un Iraq Shia dunque appendice dell’odiato Iran) costringerà Washington a fare qualcosa. Il do something è il mantra del pubblico di fronte a eventi come questo, prima di trasformarsi nel ‘tutti a casa’ e gli Usa sono quanto di più vicino a una democrazia diretta l’Occidente conosca, dunque esposti al vento degli umori prevalenti. Voleranno qualche drone, qualche missile, qualche bomba sui centri controllati dai veri vincitori della operazione Iraqi Freedom, quelli che ora potrebbero davvero proclamare il ‘Missione Compiuta’. Ma i cocci resteranno nelle fosse comuni, aperte da coloro ai quali l’invasione scellerata del 2003 spalancò le porte della Mesopotamia.