La buona notizia secondo Giorgio Agamben, di Gianni Mula
Giorgio Agamben è oggi uno dei più importanti filosofi contemporanei. Quasi trent’anni fa (1985) Adriano Sofri, probabilmente in un amichevole tentativo di rendere il personaggio interessante ai lettori di Reporter, lo definì un “filosofo filopoeta”, come a dire, all’incirca, «Questa è un’intervista a un tipo strano, figlio di un proprietario di sale cinematografiche a Roma, che da ragazzo andava al cinema anche due volte al giorno, che a 22 anni ha interpretato l’apostolo Filippo nel Vangelo secondo Matteodi Pasolini, che si è poi laureato in legge con una tesi su Simone Weil e successivamente convertito alla filosofia partecipando a due seminari di Heidegger in Provenza. Nel mentre ha sviluppato una passione e una riconosciuta competenza in campo filologico, e per di più scrive libri difficili da capire che pochi leggono. Visto che tanti me ne parlano bene dev’essere un personaggio notevole, e potrebbe diventare famoso, anche se i suoi primi tentativi nel mondo accademico si sono rivelati infruttuosi»
Abbia avuto o no Sofri l’intuizione che gli attribuisco, Agamben è in effetti diventato famoso, anche se molto più all’estero che in Italia. A partire dal 1995, anno della pubblicazione di Homo sacer(Einaudi 1995 e 2005), è passato dallo status di brutto anatroccolo che non riesce neanche a trovare un posticino nell’accademia a quello di “star” filosofica internazionale. I suoi libri, anche quelli precedenti al grande successo che è stato da subito Homo sacer, sono stati tradotti in tutto il mondo e hanno dato luogo a un’impressionante mole di letteratura critica. Tanto che, come dice Carlo Salzani, autore di una recente Introduzione a Giorgio Agamben (Il melangolo 2013), «Da qualunque prospettiva si parta è indubbio comunque che non è ormai possibile discutere di concetti come biopolitica, sovranità, vita, sacertà (per nominarne solo alcuni) senza fare in qualche maniera i conti con la filosofia di Agamben».
Questo vale anche nel caso della buona notizia annunciata da Gesù. Agamben ne presenta un’analisi differente ma consonante con quelle di Ivan Illich e Charles Taylor che abbiamo visto nelpost precedente. Per lui la rinuncia al pontificato di Benedetto XVI è l’esplicita ammissione dell’esistenza di un conflitto tra legittimità e legalità, cioè tra i valori che la Chiesa vuole trasmettere e la dottrina formale che dovrebbe incorporarli. Un conflitto che caratterizza globalmente il nostro tempo perché non è limitato alla religione ma è presente anche in politica, in economia e in ogni tipo di potere istituzionale. Dice Agamben (nel libro Il mistero del male - Benedetto XVI e la fine dei tempi – Laterza 2013, pp. 6-8): «I poteri e le istituzioni non sono oggi delegittimati perché sono caduti nell’illegalità; è vero piuttosto il contrario, e cioè che l’illegalità è così diffusa perché i poteri hanno smarrito ogni coscienza della loro legittimità. … L’ipertrofia del diritto, che pretende di legiferare su tutto, tradisce … la perdita di ogni legittimità sostanziale. … Per questo il gesto di Benedetto XVI ci appare così importante. Quest’uomo, che era a capo dell’istituzione che vanta il più antico e pregnante titolo di legittimità, ha revocato col suo gesto il senso stesso di quel titolo. Di fronte a una curia che, del tutto dimentica della propria legittimità, insegue ostinatamente le ragioni dell’economia e del potere temporale, Benedetto XVI ha scelto di usare soltanto il potere spirituale, nel solo modo che gli è sembrato possibile, cioè rinunciando all’esercizio del vicariato di Cristo. In questo modo la Chiesa stessa è stata messa in questione fin dalla sua radice».
Dal punto di vista di Agamben che la buona notizia sia difficile da ritrovare nell’insegnamento ufficiale della Chiesa (a differenza che nella testimonianza di vita di tanti suoi membri) è un segno che la gerarchia ecclesiale (con l’attiva collaborazione di molti laici) è diventata incapace di testimoniare la fonte della propria legittimità. Che non sta tanto nel fatto che Cristo abbia o no inteso fondare una chiesa quanto nella consapevolezza che la giustizia di Dio è misericordia. Sostituire sistematicamente alla misericordia del messaggio evangelico la (propria interpretazione della) lettera della legge significa tradire la buona notizia: se ne può discutere quanto si vuole, ma è sicuro che il messaggio di liberazione annunciato dal Cristo era rivolto soprattutto agli strati sociali più deboli, agli emarginati, ai sofferenti.
Nel suo ultimo libro (pubblicato postumo - Ontologia della libertà – Einaudi 2000) Luigi Pareyson, filosofo esistenzialista cristiano, maestro di Vattimo, Eco, Givone e tanti altri, scriveva che: «Il linguaggio adatto alla libertà non è quello della logica, ma quello della storia e del mito, che ne racconta fedelmente gli atti imprevedibili e i fatti indeducibili, come in un racconto ... ». Un messaggio di liberazione e di libertà come il messaggio cristiano non può essere racchiuso a forza in un sistema di leggi, che per sua natura è costretto a restare nei limiti della logica, ma deve essere raccontato. L’origine del conflitto tra legittimità e legalità individuato da Agamben sta appunto nel rifiuto della gerarchia vaticana di riconoscere questa impossibilità: torneremo su questo tema e sulla sua rilevanza per comprendere la perversione della buona notizia compiuta dalla modernità. Per intanto vi lascio con l’intervista che Agamben ha recentemente concesso alla giornalista Juliette Cerf. Il testo francese originale si trova sul sitowww.telerama.fr.
Buona lettura!
Il pensiero è il coraggio della disperazione
Juliette Cerf intervista Giorgio Agamben
Juliette Cerf: Anche Berlusconi è caduto, come molti altri leader europei. Dopo i suoi scritti sulla sovranità, che riflessioni le vengono in mente?
Giorgio Agamben: Che i pubblici poteri continuano a perdere legittimità. Un sospetto reciproco si è inserito tra autorità e cittadini. A causa di questa crescente diffidenza alcuni regimi sono stati rovesciati. È naturale che le democrazie siano molto preoccupate: è difficile spiegare perché una democrazia debba avere leggi sulla sicurezza due volte più opprimenti di quelle del fascismo italiano. Per il potere ogni cittadino è diventato un potenziale terrorista. Si pensi che presto sarà inserito nella carta d’identità di ogni cittadino un apparecchio biometrico pensato in origine per il controllo dei criminali recidivi.
La crisi è legata al fatto che il potere economico conta ormai più del potere politico?
Nella medicina antica la crisi indicava il momento decisivo della malattia. Ma nel mondo di oggi la crisi non indica più un particolare momento, perché è nella natura stessa del capitalismo, è il suo motore interno. C’è sempre una crisi perché la sua esistenza, reale o presunta, permette alle autorità di invocare la necessità di misure straordinarie e di imporre così misure che non sarebbero mai in grado di imporre in periodi normali. Per strano che possa sembrare uno stato di crisi corrisponde perfettamente a ciò che in altri tempi nell’Unione Sovietica si chiamava «rivoluzione permanente».
La teologia svolge un ruolo molto importante nella sue riflessioni filosofiche. Come mai?
Le mie ricerche dimostrano che le società moderne pretendono di essere laiche ma non lo sono, perché sono governate da concetti teologici secolarizzati tanto più potenti quanto meno siamo consapevoli della loro origine. Non capiremo mai che cosa succede oggi se non ci renderemo conto che il capitalismo è, in realtà, una religione. Una religione, come diceva Walter Benjamin, che è la più feroce di tutte perché priva di misericordia e redenzione … Prendiamo la parola ‘fede’, di solito riservata alla sfera religiosa. Il termine greco corrispondente ad essa nei Vangeli è pistis. Un giorno, passeggiando per una via di Atene, uno storico delle religioni che cercava di capire il significato di questa parola, si rese improvvisamente conto di un cartello che diceva «Trapeza tes písteos». Andò fino ad esso, e si rese conto che si trattava di una banca: Trapeza tes písteos significa: ‘banca di credito’. È stata un’illuminazione.
In che senso?
Pistis, la fede, è il credito che abbiamo con Dio e che la parola di Dio ha con noi. Ma credito è anche ciò attorno a cui ruota quella parte importante della nostra società che riguarda il denaro, del quale la Banca è il tempio. Com’è noto, il denaro non è altro che un credito: sulle banconote in dollari e sterline (ma non sull’euro: il che che avrebbe dovuto far sollevare qualche sopracciglio …), si può ancora leggere che la banca centrale pagherà al portatore l’equivalente di quel credito. La crisi è stata scatenata da una serie di operazioni con crediti che sono stati rivenduti decine di volte prima di poter essere realizzati. Attraverso il governo del credito la Banca ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e manipola la fede e la fiducia dell’uomo. Oggi la politica è in ritirata perché il potere finanziario, sostituendosi alla religione, si è appropriato di ogni fede e di ogni speranza. Gli europei non possono sperare di capire il presente senza misurarsi col proprio passato. Ecco il perché delle mie ricerche sulla religione e sul diritto: il metodo archeologico mi sembra essere la strada migliore per arrivare al presente.
Che cosa è questo metodo archeologico?
Si tratta di una ricerca dell’archè, che in greco significa inizio ecomandamento. Nella nostra tradizione, l’inizio è sia ciò che dà vita a qualcosa che il principio che ne governa la storia. Ma non si tratta di un inizio che può essere datato o comunque precisato cronologicamente, ma di una forza che continua ad agire nel presente, proprio come l’infanzia, secondo la psicoanalisi, determina l’attività mentale dell’adulto, o come il big bang, che secondo gli astrofisici ha dato vita all’Universo, continua ancora oggi l’espansione. L’esempio tipico di questo metodo sarebbe la trasformazione dell’animale nell’uomo (l’antropogenesi), un evento cioè che immaginiamo necessariamente avvenuto, ma che non ha esaurito la sua azione: l’uomo sta sempre imparando a diventare umano, e quindi anche a restare disumano, animale. La filosofia non è una disciplina accademica, ma una maniera di confrontarsi con questa trasformazione che non finisce mai di accadere e che è decisiva per l’umanità o per la disumanità dell’uomo: sono domande molto importanti, a mio avviso.
Mi pare che dai suoi lavori emerga una visione del divenire umano piuttosto pessimista.
Sono lieto di questa osservazione, perché in effetti sono spesso giudicato pessimista pur senza esserlo, almeno a livello personale. Pessimismo e ottimismo sono concetti che non hanno nulla a che fare col pensiero. Debord citava spesso una lettera di Marx che diceva: le condizioni disperate della società in cui vivo mi riempiono di speranza. Ogni pensiero radicale si mette sempre dal punto di vista della disperazione più estrema. Anche Simone Weil ha detto:Non mi piacciono coloro che scaldano il cuore con speranze vuote. Il pensiero, per me, è proprio questo: il coraggio della disperazione. E non è questo il massimo dell’ottimismo?
Secondo lei, essere contemporanei significa percepire l’oscurità, e non la luce, della propria epoca. Come possiamo capire quest’idea?
Essere contemporanei è rispondere alla domanda che viene posta dall’oscurità del tempo in cui si vive. Nel l’universo in espansione lo spazio che ci separa dalle galassie più lontane cresce a una tale velocità che la loro luce non può mai raggiungerci. Percepire nell’oscurità del cielo questa luce che cerca di raggiungerci, ma non può – questo è essere contemporanei. Vivere il presente è per noi la cosa più difficile. Perché un’origine, ripeto, non si limita al passato: nel presente è un turbine, secondo l’immagine molto bella di Benjamin, un abisso. E nell’abisso siamo trascinati. Ecco perché si dice che il presente è il tempo che rimane non vissuto.
Chi è più contemporaneo, il poeta o il filosofo?
Non mi piace contrapporre poesia e filosofia perché entrambe queste esperienze avvengono all’interno del linguaggio. La verità abita nel linguaggio, e diffiderei di qualsiasi filosofo che lasci ad altri – filologi o poeti – il compito di prendersi cura di questa casa. Dobbiamo prenderci cura del linguaggio, e uno dei problemi fondamentali con i media è che non se ne curano. Anche il giornalista è responsabile del linguaggio che usa, e da quello sarà giudicato.
In che modo il suo recente lavoro sulla liturgia ci dà una chiave per capire il presente?
Analizzare la liturgia è toccare con mano un immenso cambiamento nel nostro modo di rappresentare l’esistenza delle cose. Nel mondo antico esistere era essere presente. Nella liturgia cristiana l’uomo è quello che deve essere e deve essere quello che è. Oggi invece giudichiamo la realtà di una cosa dai suoi effetti. Non concepiamo più un’esistenza priva di effetti, di conseguenze. Non è reale che ciò che ha effetti – ed è quindi efficace e governabile -. È compito della filosofia pensare una politica e un’etica libere dai concetti di dovere e di efficacia.
Ad esempio pensando l’in-operosità?
Insistere sul lavoro e sulla produzione è scegliere una strada sbagliata e nefasta. La sinistra si è smarrita quando ha adottato queste categorie che sono al centro del capitalismo. Ma dobbiamo precisare che l’in-operosità, per come io la intendo, non è né inerzia né pigrizia. Dobbiamo liberarci dal lavoro in un senso attivo – mi piace molto la parola francese désoeuvrer, in-operare. È un’attività che rende in-operanti tutte le funzioni sociali dell’economia, del diritto e della religione, liberandole così per altri possibili usi. Perché è proprio della natura umana scegliere di ignorare le funzioni sociali assegnate e ad esempio scrivere poesie ignorando la funzione comunicativa del linguaggio, o parlare o baciare, ignorando che la bocca serve prima di tutto per mangiare. Nell’Etica a Nicomaco Aristotele si chiede se ci sia un compito proprio dell’uomo. Il lavoro del flautista è quello di suonare il flauto, e quello del ciabattino è fare le scarpe, ma c’è un opera dell’uomo in quanto tale? Avanza poi l’ipotesi, ma l’abbandona ben presto, secondo la quale l’uomo è nato senza alcun compito pre-definito. Tuttavia questa ipotesi ci porta al cuore di ciò che significa essere umani. L’uomo è l’animale in-operoso, che non ha un compito biologico assegnato, o una funzione chiaramente prescritta. Solo un essere che può fare può scegliere di non fare. L’uomo può fare di tutto, ma non c’è niente che sia obbligato a fare.
Lei ha studiato legge, ma, in un certo senso, tutta la sua filosofia cerca di liberarsi dalle leggi.
Lasciando la scuola secondaria, avevo un solo desiderio – quello di scrivere. Ma questo desiderio che cosa significa? Scrivere – ma che cosa? Credo fosse un desiderio di rendere possibile la vita. Quello che volevo non era scrivere quanto poter scrivere. Era un gesto inconsapevolmente filosofico, la ricerca delle possibilità insite nel vivere, che è una buona definizione di filosofia. La legge invece si occupa del necessario, non del possibile. Ma se ho studiato legge, è stato perché non avrei certo potuto accedere al possibile senza passare per l’esperienza del necessario. In ogni caso i miei studi di giurisprudenza mi sono stati molto utili perché il potere ha abbandonato i concetti politici a favore di quelli giuridici. La sfera giuridica cresce sempre: si fanno leggi su tutto, anche in settori dove una volta sarebbe stato impensabile. Questa proliferazione di leggi è pericolosa perché non lascia spazio alla libertà del cittadino: nelle nostre società democratiche non c’è nulla che non sia regolamentato. Dai giuristi arabi ho imparato una cosa che mi è piaciuta molto. Essi rappresentano la legge come una sorta di albero, con a un estremo ciò che è proibito e all’altro ciò che è obbligatorio. Per loro il compito del giurista è stare tra questi due poli, cioè studiare tutto quello che si può fare senza essere sanzionati giuridicamente. Questo spazio di libertà continua a restringersi, mentre dovrebbe aumentare.
Nel 1997, nel primo volume della serie Homo Sacer, lei ha scritto che il campo è la norma del nostro spazio politico. Da Atene ad Auschwitz …
Mi è stata molto rimproverata l’idea che il campo abbia sostituito la città come il nomos (la norma, la legge) della modernità. Ma io non guardavo al campo come fatto storico, ma come matrice nascosta della nostra società. Che cos’è un campo? Si tratta di una parte del territorio che è al di fuori dell’ordine giuridico-politico, una materializzazione dello stato di eccezione. Oggi, lo stato di eccezione e di depoliticizzazione ha invaso tutto. Nella città moderna lo spazio monitorato da telecamere a circuito chiuso è pubblico o privato, interno o esterno? Si diffondono nuovi tipi di spazio: il modello israeliano dei territori occupati, con tutti gli ostacoli per escludere i palestinesi, è stata adottato a Dubai per creare isole turistiche iper-protette …
A che punto è Homo sacer?
Quando ho iniziato questa serie, quello che mi interessava era il rapporto tra diritto e vita. Nella nostra cultura, la nozione di vita non è mai definita, ma è continuamente decomposta: c’è una vita caratterizzata politicamente (bios), la vita naturale comune a tutti gli animali (zoé), la vita vegetativa, vita sociale, ecc. Potremo mai arrivare a una forma di vita che resista a queste divisioni? Attualmente sto scrivendo l’ultimo volume di Homo sacer. Giacometti ha detto una cosa che mi è piaciuta molto: non si finisce mai un dipinto, lo si abbandona. I suoi quadri non sono finiti; il loro potenziale non si esaurisce mai. Mi piacerebbe che lo stesso si potesse dire di Homo sacer, che è stato abbandonato, ma non finito. Credo inoltre che la filosofia non dovrebbe consistere troppo di affermazioni teoriche – a volte la teoria deve mostrare la sua insufficienza.
È questo il motivo per cui oltre a saggi teorici lei ha sempre scritto anche testi più brevi, più poetici?
Sì, proprio così. Questi due registri di scrittura non stanno in contraddizione tra loro, anzi spero che talvolta i loro cammini si incrocino. È stato durante la scrittura di un libro massiccio, Il regno e la gloria, che descrive una genealogia del governo e dell’economia, che mi ha colpito con forza l’idea di in-operosità, che ho poi cercato di sviluppare in modo più concreto in altri testi. Questi incroci sono l’essenza del piacere di scrivere e di pensare.
(Traduzione di Gianni Mula)