Una donna: Rina Fancellu, di Federico Francioni
Sommario: Fine di un’epoca. L’inclinazione. Una stagione irripetibile. L’impegno personale. La società conviviale. Per concludere.
Fine di un’epoca. Con la recente scomparsa di Rina Fancellu Pigliaru (1925-2014), finisce un’epoca per la storia e la cultura dell’isola; non è esagerazione affermarlo. Il Novecento si allontana ancor più da noi ed assumerebbe contorni sempre più sfumati se non ci impegnassimo a ricostruire storie, problemi, vicende collettive, profili e percorsi personali.
Sarebbe profondamente sbagliato vedere in Rina solo la moglie del filosofo Antonio Pigliaru, morto nel 1969 all’età di 46 anni. Significherebbe infatti operare la grave reductio di una figura, di una personalità, al livello di ombra, per quanto cara, discreta e gradevole.
In realtà Rina, dolce, fine, sensibile, aveva mostrato tutta la sua determinazione, anzi, una ferrea capacità di scelta quando, dopo essersi innamorata di Antonio, aveva deciso di sposarlo, contro remore e resistenze, in primo luogo, dei propri familiari che le sconsigliavano vivamente di unirsi in matrimonio ad un uomo dal fisico così gracile. Aveva invece insistito nel cammino intrapreso ed aveva realizzato il suo sogno, il suo progetto, dando inoltre ad Antonio tre figli: Giovanni, Francesco (attuale presidente dell’Esecutivo regionale) e Amelia Maria che, forse più dei fratelli, nel sorriso ricorda il padre.
L’inclinazione. Rina non solo come madre, ma anche e soprattutto come donna: un testo recente della più matura e profonda indagine filosofica femminista ci ha come preso per mano e, grazie anche ad una scrittura originale e coinvolgente, ci ha spiegato che è proprio della condizione femminile l’inclinazione, il tendersi, l’inchinarsi, non solo verso i piccoli, ma anche verso qualcuno o qualcosa, insomma, il prendersi cura. Di contro, si delinea come tratto costituente della dimensione maschile la rettitudine, associata alle vicissitudini del Soggetto, dominante nelle diverse fasi storiche del pensiero occidentale. Così si è espressa Adriana Cavarero, autrice di un libro recensito sul quotidiano “Il Manifesto” da Alessandra Pigliaru, studiosa, filosofa e femminista che tiene alto il vessillo – non è retorica affermarlo – di un cognome così importante nella storia della cultura, in Sardegna e non solo.
Ecco: Rina ha rappresentato, in modo davvero eccezionale, la capacità di inclinazione su cui ha scritto la Cavarero: volontà di accudire, di prendersi a cuore persone, problemi, cose, oltre la prassi di seguire ed assecondare Antonio: animatore, suscitatore di energie, organizzatore instancabile, nonostante la malattia, docente che, sino all’ultimo giorno di vita, si può dire, fa lezione nell’Università di Sassari (le ultime sono state trascritte e pubblicate da Antonio Delogu e Raimondo Turtas; una bibliografia è stata curata da Francesco Sechi); un intellettuale dotato di un carisma vero che più nessuno, dopo di lui, ha mostrato di possedere; una dote, un dono che, insieme a tante qualità, gli ha permesso di riunire intorno a sé donne e uomini di orientamento diverso: Manlio Brigaglia, Salvatore Mannuzzu, Giuseppe Melis Bassu ed altri suoi stretti collaboratori si rivolsero all’avvocato nuorese Gonario Pinna, ad Ignazio Delogu, a scienziati e medici come Bruno Corticelli, Carlo Grassi, M. Pasargiklian e Italo Simon, ad esponenti politici come il democristiano Nino Carrus ed Umberto Cardia (consigliere regionale e parlamentare del Pci), ad Angiolina Arru, Elisa Spanu Nivola, Paola Pittalis, Paola Ruju, al regista Fiorenzo Serra, ai pittori Filippo Figari ed Eugenio Tavolara, a Giorgio Macciotta ed a Salvatore Sechi per arrivare al poliedrico e geniale architetto Antonio Simon Mossa, sardista ed indipendentista. Tanti altri nominativi si potrebbero e dovrebbero aggiungere. Un libro di Mavanna Puliga ci aiuta a ricostruire l’itinerario filosofico, esistenziale, intellettuale di Pigliaru e la temperie di quegli anni.
Una stagione irripetibile. Nell’appartamento della palazzina liberty di via Manno 13 a Sassari – con la porta quasi costantemente aperta (è stato detto più volte, ma va ribadito) – entrai per la prima volta a 15-16 anni, studente liceale, insieme ad altri giovani, riuniti da Pigliaru che voleva discutere con noi di impegno per la pace contro le minacce ed i venti di guerra, provenienti dal Vietnam e da altri contesti. Le prime letture di elzeviri e di terze pagine sui quotidiani mi facevano sentire legittimato a ripetere banalità o a nàrrere istumbonadas (istumbonada, come scrive Max Leopold Wagner nel Dizionario etimologico sardo, significa “colpo di fucile di grosso calibro”, insomma, “sparata”): Pigliaru ascoltava pazientemente, limava, correggeva, suggeriva letture per andare oltre la superficie dei fenomeni. Lo vidi per l’ultima dopo il Sessantotto, quando mi recai a casa sua con Guido Melis: avessi seguito l’esortazione – che ci rivolse allora – a leggere la Bibbia ed il Vangelo, oggi, se non altro, avrei qualche strumento in più per studiare criticamente il rapporto filosofia-religione.
Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico: il testo del 1959, ormai classico, ma oggetto di attacchi da parte di fascisti ed anche di intellettuali di pseudo sinistra (leggere per credere) che l’hanno accusato di giustificare la violenza; figurarsi se ciò può essere addebitato ad un uomo di profonda fede cristiana come Pigliaru, proprio a lui! Lui che era fermo, tra l’altro, nel sostenere che lo scontro inevitabile fra codice e Stato porta la società agropastorale alla catastrofe. Ma certi studiosi questo libro l’hanno davvero letto e meditato?
La stagione della rivista “Ichnusa” (si veda al riguardo la ricostruzione di Salvatore Tola) rappresenta una fase irripetibile della storia isolana, con la quale tutti dovrebbero misurarsi, senza agiografie, celebrazioni o conformismi di sorta; anche per intraprendere – come sarebbe giusto, doveroso e, del resto, in sintonia con lo stesso insegnamento pigliariano, socratico e dialogico – percorsi diversi e perfino divaricanti. Pigliaru, per esempio, non faceva riferimento al sardo come lingua, ma adoperava, in modo assai riduttivo, il termine “dialetto” (e ciò dopo quanto aveva pubblicato lo stesso Wagner): orbene, è anche nella sua rivista che prende l’avvio – grazie al contributo determinante di Michelangelo Pira – il dibattito che porterà alle rivendicazioni sul bilinguismo giuridico (strenuamente avversato da un altro stretto collaboratore di “Ichnusa”, Sandro Maxia, docente nell’Università di Cagliari).
Insomma, autonomisti, sovranisti, indipendentisti, tutti coloro che intendono gettare le basi affinché il Popolo, anzi, la Nazione sarda possa autodeterminarsi, decidere in piena libertà del proprio destino, rimarranno inevitabilmente più poveri e deboli se non faranno i conti – sino in fondo - con questa eredità.
L’impegno personale. Nell’appartamento di via Manno, Rina non ha esercitato solo il ruolo della padrona di casa, insuperabile nel mettere a proprio agio tutti gli ospiti, famosi o meno che fossero. Dopo la scomparsa di Antonio non fu solo sollecita e premurosa custode delle opere e delle carte lasciate dal marito, non si occupò solo della pubblicazione e della ristampa degli scritti di lui. La Cooperativa “Iniziative culturali” fu l’organismo tramite il quale Rina fu attiva a Sassari e nell’isola, fu presente con discrezione a conferenze e dibattiti, promossi insieme a Rina Delitala, Giuseppe Doneddu, Nennella Masia, Alberto Merler, Antonello Ruzzu, Simone Sechi, Lucia Tavera ed altri (fra questi, chi scrive). Ricordo in particolare negli anni ottanta il ciclo di incontri “Oltre il silenzio”, pensato in primo luogo da Antonello per ricordare il comune amico Riccardo Lai. In tante occasioni l’aula magna dell’Università di Sassari ed altre sedi si riempirono di cittadini ansiosi di confrontarsi, di opporsi al clima di restaurazione seguito alla stagione di lotte degli anni settanta, interessati ad ascoltare le relazioni di Alberto Azzena, Gianni Baget Bozzo (allora socialista e parlamentare europeo), Domenico Corradini, Paolo Fois, Luigi Manconi ed altri.
L’impegno della Cooperativa andò svolgendosi anche in collaborazione con la Lega per la liberazione e per i diritti dei popoli (a Sassari venne l’arcivescovo Hilarion Capucci), l’Arci, il Wwf, la Lega Ambiente: nell’ambito della battaglia contro l’energia nucleare, in vista del referendum del 1987, venne organizzato al teatro “Verdi” un concerto, “Sassari contro il nucleare”, presentato da Sante Maurizi, che fece registrare una larga affluenza di pubblico. Venne promosso un dibattito non reticente sull’indagine giudiziaria a carico degli indipendentisti, sull’inchiesta ed il processo che portarono in seguito all’ingiusta detenzione ed alla condanna di Bainzu Piliu. Temi e problemi su cui altre forze, associazioni e mass-media preferirono rimanere allineati e coperti. Per non parlare del costante impegno di Rina per la pubblicazione di volumi di autori diversi, fatti stampare dalla Cooperativa come casa editrice. Brigaglia volle intitolare ”Iniziative culturali” nel solco di una grande eredità un articolo di Rina che sulla seconda “Ichnusa” (n. 19, 1989) tracciava un bilancio dell’attività svolta.
La società conviviale. Rina rappresentava, nel senso più alto e congruo del termine, l’ospitalità, elemento fondamentale in una società per tanti aspetti conviviale come quella sarda (non sembri mitizzazione sostenerlo): quell’ideale utopico, non astratto, di convivialità, fatto innanzitutto di assenza di strumentalità, studiato e sognato da Ivan Illich, diventava qualcosa di concreto: negli anni ottanta e novanta era un piacere trovarsi a quella tavola con i suoi figli ed inoltre con Onorio Gobbato, Marcello Lelli, Marina Saba, con medici, scienziati, artisti e filosofi – fra i quali vorrei almeno ricordare il carissimo e compianto Giulio Girardi, maestro della teologia della liberazione. Da queste riunioni conviviali ci si congedava con la sensazione di essere pronti per nuove sfide, per altre intraprese collettive.
Ricordo una delle ultime riunioni a casa di Rina, con Michela Murgia e Giorgio Baratta, altro intellettuale socratico e dialogico, che ci esortava a raccogliere contributi su Pigliaru lettore di Antonio Gramsci, i quali poi vennero effettivamente riuniti in un volume edito nel 2010 dalla Cuec di Cagliari. Il soldino dell’anima, questo il titolo, riunì scritti ed interventi – oltre che di Rina e dello stesso Baratta – di Giulio Angioni, Francesco Carta, Paolo Carta, Francesco Cocco, Gianluigi Deiana, Mannuzzu, Attilio Mastino, Benedetto Meloni, Michela Murgia, Alessandra Pigliaru, Vindice G. Ribichesu, Giorgio Serra e di chi scrive. Fino a poche settimane prima di morire, Baratta telefonò con pazienza e modestia per sollecitare l’apporto di ognuno di noi.
Nella vita quotidiana di Rina c’era spazio anche per le battute, lo scoppio di risate, il divertimento: ricordo in particolare una festa di Carnevale alla quale Doneddu – ordinario di Storia economica nell’Ateneo turritano, studioso di valore, sempre pronto però alla battuta, al frizzo ed al motteggio – si presentò mascherato da improbabile arcivescovo: potete immaginare il senso di straniamento, la sorpresa dei passanti quando, conclusa la serata, Giuseppe uscì su via Manno, impartendo una sorta di benedizione urbi et orbi, per fare ritorno a casa. Una volta ad Alghero, città che amava, dove trascorreva le vacanze estive – e dove purtroppo è mancata, complice una brutta caduta – Rina ci interrogava con candore sui significati del termine “pistola”: partendo dalla dimensione dialettale milanese e padana, si finì con l’approdare ad inevitabili implicazioni fallocratiche e fallocentriche. Eravamo in auto, se non erro, con Sabina Dore: guidava Rina che scoppiava in una sonora risata, perdeva quasi il controllo del volante, andava a sbattere contro il marciapiede, ma rimetteva prontamente il mezzo in carreggiata.
Per concludere. Rina era rimasta piuttosto perplessa quando il marito, una volta, l’aveva invitata a preparare sa banca, o sa mesa de sos mortos, per la notte che conduce al 2 novembre: era un modo per ricordare degnamente i familiari scomparsi, secondo una tradizione rimasta viva a lungo; ciò chiaramente non presupponeva più la credenza che essi “tornassero” per assidersi al banchetto preparato dai vivi che, del resto, avrebbero consumato all’indomani il cibo imbandito.
Negli anni settanta, non molti anni dopo la scomparsa di Antonio, aveva superato una grave malattia: «Non ce l’ho fatta a morire», ci aveva detto, piuttosto provata, ma poi aveva trovato dentro di sé la forza fisica e spirituale per andare avanti. Ora che non ci sei più, cara Rina, non diremo soltanto che ci sentiremo vicini a te, ma anche e soprattutto che tu, con dolcezza, costanza e sempre col sorriso, ti inclinerai verso di noi, ci esorterai alla cura di legami, relazioni, temi, problemi, oggetti, singole persone in carne ed ossa. Ci consiglierai, ci darai orientamento ogni qualvolta ci rivolgeremo a te. Con la retorica si direbbe che sei stata moglie e madre esemplare. Senza retorica affermiamo convinti che sei stata una donna, un’amica; e scusate se è poco.