MA NELLA CHIESA SARDA C’È ANCORA UN’IPOTECA DI SUDDITANZA? di Paolo Fadda
L’articolo è stato pubblicato nel sito di CRESIA.INFO il 5/07/2014. Paol0 Fadda è il presidente dell’associazione Cresia. Con un importante commento di Mario Puddu.
Che la Chiesa sarda non stia attraversando uno dei periodi di massimo fulgore (se non proprio di evidente declino) può rilevarsi – così ci segnala un amico – dalla deludente intervista che l’emerito della diocesi di Iglesias, monsignor Tarcisio Pillolla, ha concesso nei giorni scorsi al giornalista Paolo Paolini de L’Unione Sarda (pubblicata sabato 5 luglio u.s.).
Che l’amico non abbia poi tutti i torti, è certamente condivisibile, giacché quel che appare, leggendola, è la presenza di una gerarchia ecclesiastica distratta od assente da quel che è avvenuto ed avviene tra i fedeli e le parrocchie dell’isola e, soprattutto, che voglia continuare, per quieto vivere, a tenersi distante da ogni analisi, e da ogni giudizio, su quel che è divenuto lo “stato attuale” della Chiesa isolana. E di quelli che sono stati dei momenti di gravi turbamenti e di forti tensioni, determinati purtroppo, come è ben noto, da “un pastore che non aveva fatto proprio l’odore delle sue pecore”, per dirla con un’espressione molto cara a papa Francesco.
Prendiamo spunto quindi da quell’intervista, così triste e deludente, non per contestare, od argomentare diversamente, alcune delle affermazioni ivi contenute, quanto per avviare una più ampia riflessione proprio su quel che s’è appena detto: sullo stato attuale della Chiesa sarda. Proprio perché ce lo sollecitano le risposte, sfuggenti e – per certi versi – farisaiche, fornite al giornalista (che le avrebbe classificate, chissà poi perché, con sottolineatura irridente, democristiane). Sviando completamente – per scelta più che per pudore – da quel che è sotto gli occhi di tutti, quasi non avesse mai messo piede nel c.d. “college Sant’Efisio”, o che nulla abbia saputo dei rapporti incestuosi con il potere politico regionale (con assessori designati da un vescovo come ringraziamento per un appoggio elettorale). Tanto da far titolare il testo dell’intervista “La mia Chiesa senza peccato”!
L’occasione quindi c’è parsa propizia per aprire un approfondimento proprio sulla Chiesa sarda, sul suo episcopato, sulla sua presenza all’interno, ed a fianco, dell’intera comunità isolana. E questo perché mons. Pillola, insieme ad altri presuli ricordati nell’intervista citata (Alberti, Mani, Miglio), sono stati, e sono, parte importante di questa nostra Chiesa isolana.
Vorremmo iniziare questo nostro discorso proprio partendo dal Concilio plenario sardo, conclusosi nel 2000 dopo otto anni di lavori e di elaborazioni molto intensi, sulla scia delle tante novità pastorali apportate dal Vaticano II, che fu certamente uno dei momenti più alti della cattolicità sarda. Lo aveva avviato, ricordiamolo, un esimio arcivescovo di Cagliari come Canestri e l’avrebbe poi concluso un suo successore, come presidente della Conferenza episcopale sarda (CES), mons. Ottorino Alberti. Quel concilio introduceva, fra le altre, due significative ed importanti novità:
I. la necessità di trovare un’unità fra le dieci diocesi presenti nell’isola, accentuando e realizzando un’effettiva comunione di intenti e di azioni condivise, anche con la costituzione di un “Centro regionale della pastorale”, perché diventi il punto di sintesi e di coordinamento fra tutte le dieci diocesi isolane;
II. l’esigenza che i laici divengano “soggetti” della pastorale sia nel momento ideativo e decisionale che in quello attuativo. Collaboratori diretti ed indispensabili per vescovi e parroci, realizzando così, nei fatti e fra tutti i battezzati, un profondo nuovo e pieno “senso della Chiesa”, come popolo di Dio che è in Sardegna.
A distanza ormai di 14 anni, di quel concilio s’è perduta la traccia: anzi – per essere più precisi – se ne è voluta cancellare o disperdere ogni traccia. Il fatto che tutto questo fosse avvenuto allorché alla presidenza della CES giunge il nuovo presule di Cagliari, Giuseppe Mani, non è solo una coincidenza. Perché da allora sarebbe iniziata, come molti indizi confermeranno, una sorta di desardizzazione dell’intero presbiterio sardo (anche con l’invio “altrove” dei nostri seminaristi), e più in generale, della soppressione d’una pastorale unitaria, disconoscendo l’esigenza di dover rispondere con un’unica azione a spazio regionale all’evangelizzazione dell’intera popolazione dell’isola provata ed afflitta da tante e continue difficoltà e contagiata dal virus della secolarizzazione.
Mentre si sarebbe sempre più allentata, fin quasi ad annullarla del tutto, quella sinodalità della Chiesa che era uno dei suoi più probanti valori. Lasciando campo ad un’autocrazia esasperata, con emarginazioni sempre più numerose, ad iniziare da quella del laicato.
Ora, di fronte a queste decisioni (fortemente ed autoritariamente sostenute ed ottenute da quel vescovo) si dovette registrare la resa incondizionata degli altri componenti della CES, seppure anagraficamente sardi, resisi però succubi degli ordini di un presidente-generale ed ex ordinario militare. Eppure a far parte di quella Conferenza vi era anche mons. Pillolla, che, come Tiddia e Piseddu, aveva partecipato al varo del documento conclusivo di quel Concilio.
Non si alzarono voci, o vi furono solo dei timidi sottovoce, non solo per contrastare quella colonizzazione in atto della Chiesa sarda, ma per il voluto e praticato disconoscimento – più volte proclamato pubblicamente da Mani – degli indirizzi indicati dal Plenario sardo per la Chiesa del terzo millennio (tanto da aver pubblicamente affermato che come suo predecessore a Cagliari riconosceva mons. Bonfiglioli…).
Ora, che si sia accettato supinamente quel disconoscimento degli indirizzi conciliari, non fa certo onore a chi ancora oggi non intende dare un giudizio su chi ne fu autore.
Si sono ricordati questi fatti, proprio per avere sentore quali tristi vicende abbiano interessato la Chiesa sarda. E di cui quest’intervista con mons. Pillolla può essere presa come una cartina di tornasole. Ora, leggerne il testo come pubblicato dal quotidiano cagliaritano – confessiamolo – ci ha fatto molto male. Perché se questa è la realtà della nostra Chiesa, ci sarebbe proprio da aggiungere (come ha concluso l’amico che ci ha segnalato l’articolo) “povera nostra chiesa”! Anche per questo non abbiamo inteso pubblicarne il testo integrale, per rispetto ai nostri lettori, innanzitutto, ma anche per lo stesso mons. Pillolla. D’altra parte, parafrasando il Manzoni, non avere difeso il pregevole ed importante lavoro portato avanti dal Concilio plenario sardo, dimostrava ad abuntatiam che di coraggio fra i nostri presbiteri con mitria e bacolo se ne trovava davvero molto poco!
Aggiungiamo che per un troppo lungo tempo – purtroppo – la Chiesa sarda è stata una sorta di colonia, dell’episcopato spagnolo prima e di quello sabaudo dopo, e da questa sudditanza trova ancora molta difficoltà a liberarsi, nonostante siano ormai dei sardi doc i nove decimi dei presuli a capo delle nostre diocesi. E se ancor oggi non si è ancora trovato la volontà (o la capacità o il coraggio) di attuare i postulati conciliari, mettendo in campo modi e sostanza per dare spazi autonomi ed unitariamente “sardi” ad una Chiesa di Cristo che diventi veramente il punto di riferimento, di speranza e di salvezza per l’intero nostro popolo, non si può essere molto ottimisti sul presente della nostra Chiesa sarda. Ancora indecisa e pigra nel seguire gli insegnamenti e lo sprone che quotidianamente perviene a noi tutti da papa Francesco, perchè la bussola conciliare guidi anche il nostro cammino di sardi. Certi, come siamo, che l’odore delle pecore sia eguale nelle greggi delle nostre dieci diocesi, e che ci sia bisogno, quindi, di un’unica pastorale!
By Mario Pudhu, 25 luglio 2014 @ 22:15
Est istória chi «la Chiesa sarda è stata una sorta di colonia, dell’episcopato spagnolo prima e di quello sabaudo dopo, e da questa sudditanza trova ancora molta difficoltà a liberarsi, nonostante siano ormai dei sardi doc i nove decimi dei presuli a capo delle nostre diocesi».
Sa chistione de is Sardos, sa sola vera e manna chistione de is Sardos, est sa dipendhéntzia política de su pópulu nostru de un’istadu istràngiu, su èssere sa Sardigna una colónia (e no serbit a precisare àteru de custu foedhu). Sinono no si podet cumprèndhere poite sa Sardigna est istétia «una sorta di colonia dell’episcopato spagnolo» e «sabaudo» e apustis de s’italianu a sa matessi manera, chentza dèpere fàere peruna precisatzione, de unu séculu e mesu a como asuta de s’Itàlia, e no, poneus, de s’obispau francesu.
Su cuncetu de «Chiesa sarda» andhat precisau méngius: naraus prus precisamente is predis e is píscamos e no ca is àteros Sardos no ant tentu e teneus sa responsabbilidade de su fàere nostru ma ca is Pastores funt unos cantu passos prus ainnanti de is brebès e a dónnia modu faent is Pastores (fintzes si est prus de seguru chi no totus dhos depeus cunsiderare de sa matessi idea e cumportamentos, ma a dónnia modu no a su puntu de mancu pentzare a s’iscabbúllere de su colonialismu italianu). Preides e píscamos ant papau e assimilau totu su colonialismu chi at fatu s’Itàlia in Sardigna. Antzis ant aciuntu àteras duas partes: in seminàriu dhis ant fatu ancora peus su “lavaggio del cervello” proibbendhodhis de foedhare in sardu (mancu nomenau, comente si liget in su “Regolamento per gli alunni dei pontifici seminari regionali d’Italia”, cap. Disciplina, art. 42: «È sempre proibito schiamazzare, zufolare, cantare canzoni profane, fumare, parlare in dialetto: in ogni occasione si usi la lingua italiana», pag. 19, editzione 1950, Tipografia Poliglotta Vaticana, e po no foedhare de comente faiant controllare is seminaristas s’unu cun s’àteru). Incasellaos e cunfirmaos in su «dialetto» e in sa «regione» (e iat a èssere interessante a ischire si e ite dhis ant fatu istudiare de is Sardos e de sa Sardigna in cust’òpera de “occultamento”!) italianizaos e ‘civilizaos’ in sa ‘méngius’ manera italiàrgia, chie at mai prus tentu sa capacidade de èssere sardu cun is Sardos? Fortzis unu pagu ma solu a iscusi e in privau, ma mai faendho is preides o is píscamos e in púbblicu.
S’àtera parte est sa cunfúsione de s’amore cun s’acetatzione de su domíniu, coment’e chi a s’iscabbúllere de su domíniu siat su cretinismu de is gherras chi s’ant bene bene cravau in conca po su praiotismu italianu, e pagu importat si faent sa figura de pàrrere prus preíderos de s’istadu italianu chi no de sa Crésia de Cristos.
Po cussu etotu a foedhare de unidade fintzas solu de pastorale po is Sardos est a pònnere sa chistione de sa natzione sarda suta de domíniu, ca a foedhare de unidade de is Sardos est a foedhare de sa natzione sarda distinta, diferente, dominada e isperdindhosi. Ma ite cristianésimu est un’educatzione a totu is cumportamentos de sa dipendhéntzia? Est custa sa libbertade e responsabbilidade de is fígios de Deus? Po no arreconnòschere sa realtade istórica de is Sardos est méngius a cuare totu e a sighire a faere finta de nudha?
Connoschendho in cuncretu preides tocat a cumprèndhere cantas e cales dificurtades tenent a fàere is Sardos cun is Sardos (in Sardigna!). Ma assumancu is làicos ndhe podiant cambiare e foedhare e pònnere sa chistione a is Pastores puru e custu interventu de Paolo Fadda dh’agato bonu e a propósitu, innanti chi is preides serbant solu po acumpangiare mortos a campusantu in sa via de sa desertificatzione de sa Sardigna. A dónnia modu, po si fàere un’idea iat a bastare de lígere is giornales diocesanos (assumancu is chi connosco deo), cun totu chi funt in manos giai totus de is làicos, e osservare comente, po nàrrere un’argumentu decisivu, sa limba de is Sardos, si est meda dha manígiant “con le pinze” che a su peus infetu, bista che a su fumu de su tebbacu o su “schiamazzare” de is maleducaos o inderetura càusa de cancru e àteros infetos graves. Podiant èssere un’ispàtziu ue su sardu no benit cuau, bogau in bregúngia e lassau iscumpàrrere, ma avalorau in totu su chi tenet de bonu, normalidade de su èssere Sardos cristianos in Sardigna.