Se le cose stanno così ci rivolgeremo a Madrid (III), di Nicolò Migheli

Questo articolo conclude i due pubblicati il 12 ed il 16 luglio 2014.


Anderson soppesò ancora una volta le parole e aggiunse sibillino: «Nel 1861 noi inglesi abbiamo fatto l’unità d’Italia, ora potremmo anche disfarla.». Quelle parole una volta avrebbero sconvolto il Presidente, si sarebbe sentito un traditore, però molta acqua, neanche tanto pulita, era passata sotto i suoi ponti. Forse non si sarebbe arrivati all’indipendenza, ma di sicuro il peso dell’isola a Roma sarebbe stato diverso. Bisognava contattare Felipe, non poteva farlo certo lui, bisognava trovare un ambasciatore, uno vicino alla corte spagnola. Chi? Chi poteva essere?

La risposta arrivò qualche giorno dopo da Ringhio. L’uomo era ben introdotto, conosceva tutti. Nel quartiere Castello di Cagliari, in un palazzo avito abitava don Fefeti Canelles. Marchese de unu sciacu mannu de logus lo definì l’assessore al personale. Don Fefeti era uomo schivo, produceva vino di grande qualità ed olio, aveva fatto i soldi veri negli anni sessanta quando aveva venduto un po’ dei suoi terreni in riva al mare dove dei milanesi avevano realizzato due alberghi ed un villaggio turistico. Il suo palazzo aveva una stranezza. Il portone principale era stato chiuso il 29 novembre del 1847, il giorno della Perfetta Fusione. Il bisnonno del Canelles aveva fatto giurare agli eredi che sarebbe stato riaperto solo quando le “Venerande istituzioni” del Regno di Sardegna sarebbero state rimesse in piedi. L’iniziativa non era originale, anche Napoli poteva vantare un caso simile. Il portone di casa dei Serra di Cassano chiuso dopo la repressione della rivolta del 1799. Gli eredi di don Francesco Canelles non avevano mai infranto quel divieto. Si entrava da una porta secondaria e tanto bastava.

Quel palazzo aveva fama di ospitare presenze notturne, fantasmi insomma, e nessuno voleva che se ne aggiungesse un altro, magari vendicativo. Don Fefeti con quei fantasmi ci conviveva, ci parlava e rideva anche dello spavento che quelle manifestazioni sopranaturali provocavano ai suoi ospiti. Il nobile poteva vantare un titolo raro, era Grande di Spagna, amico personale di re Juan Carlos, conosceva Felipe da quando, quest’ultimo, era bambino; era stato uno dei pochi nobili non spagnoli a partecipare all’incoronazione del re. Il personaggio giusto, quello che si poteva muovere senza destare sospetti, poteva andare a Madrid, chiedere udienza ed essere ricevuto come se fosse stato un fatto normale. Canelles dopo che ebbe l’incarico, chiamò la segreteria del re ed ottenne un appuntamento. Non specificò la ragione. Prese un aereo per Madrid e riuscì ad avere un colloquio lungo, quasi due ore, con Felipe ed il suo consigliere diplomatico. Il giorno seguente era a Cagliari pronto a riferire al Presidente.

Fefeti raccontò dell’incontro, re Felipe era felicissimo, avrebbe potuto riparare al torto che subì il suo antenato Felipe V, il re che si vide portar via ad inizio Settecento la Sardegna e i possedimenti italiani; aggiunse anche che al re sarebbe bastato poco, un palazzo in cui risiedere alcuni mesi a Cagliari, così come faceva a Barcellona, un piccolo appannaggio, per il resto avrebbe rispettato le usanze e le leggi che i sardi volessero darsi. Il re precisò che bisognava attendere il pronunciamento del tribunale dell’Aia, e che comunque si sarebbe mosso per portare dalla sua le monarchie nord europee. In ogni caso sarebbe stato necessario un referendum con cui i sardi lo accettassero come sovrano.

Il Presidente firmò l’incarico alla Reginald W. Andersen & son. Qualche giorno dopo lo studio londinese depositò la richiesta di apertura di causa all’Aia. Le carte non erano ancora arrivate alla cancelleria di quel tribunale, che un assessore noto per il suo protagonismo aveva già rilasciato dichiarazioni ad importanti giornali italiani, al Guardian e al New York Times. Come si seppe la notizia, tra gli altri assessori cominciarono discussioni e recriminazioni. Tutti volevano intestarsi l’idea, nessuno accettava di essere secondo ad altri. Tutti volevano uffici stampa con giornalisti internazionali che raccontassero al mondo l’alba della Sardegna. Ringhio, come sempre fu caustico: «Ita catzu est sucedendi innoi? Oh! Sono tutti affetti da mania di protagonismo questi. Se vogliono essere migliori degli altri che si comprino il teatro del mondo cinquecentesco, quello degli specchi, ci si cràvino dentro e la loro immagine verrà ingrandita e riflessa di continuo. Aici si potranno fare la ruota e sentiranno importanti e indispensabili!».

I giornali italiani, intanto, erano passati dall’ironia alla preoccupazione. Storici e giuristi di università prestigiose mettevano il governo sull’avviso. La causa era ben impostata, le possibilità che l’Italia perdesse erano alte. Bufalmaco Bufalmachi tentò l’arma della blandizia, subito destinò alla Sardegna un finanziamento di un miliardo, che però, si scoprì dopo, non poteva essere speso a causa del patto di stabilità. Poi il Presidente del Consiglio dei ministri passò alle minacce, il Consiglio regionale poteva essere sciolto per attentato alla costituzione.

Il New Island, intanto riportava analisi di importanti economisti dell’università sarda che sottolineavano il pericolo dell’indipendenza e dell’adesione al nuovo patto iberico. Scrivevano che era un salto nel buio, che i sardi, in fin dei conti, erano i primi italiani, che il governo spagnolo nei tre secoli di dominio aveva lasciato una Sardegna immiserita e spopolata. Ripristinare il Regno sarebbe stata una follia. Nella società sarda si accesero discussioni tra monarchici e repubblicani, in molti scrissero e dissero che non era quella l’indipendenza che si voleva. A queste condizioni era meglio rimanere ancorati all’Italia. Nessuno però che avesse pensiero strategico, solo chiacchiere. l’Aia, intanto, non si pronunciava ancora.

In questo altalenarsi di sentimenti opposti si segnalò un caso curioso. Durante una visita pastorale a San Giorgio di Suelli, il Primate di Sardegna monsignor de La Main, venne richiuso nella chiesa dai fedeli e costretto a partecipare ad una messa in sardo.

La minaccia di scioglimento del Consiglio e le varie accuse di tradimento, anche se velate bisogna dire, un effetto l’ebbero. Il Presidente dichiarò che tutto questo aveva solo l’obiettivo di riprendere la specialità perduta. Convincere il governo italiano ad un nuovo rapporto con la Sardegna. Tra i sardi iniziò ad agitarsi il fantasma della patria perduta. In molti ricordavano il sacrificio di migliaia di giovani per l’unità d’Italia. Un eventuale referendum in questo clima sarebbe stato sicuramente perso da chi voleva Felipe VI re.

Un anno dopo, nel settembre del 2016, la Corte dell’Aia promulgò la sua sentenza.
“Stante[…omissis…] questo tribunale dichiara che l’unione della Sardegna all’Italia è da considerarsi illegittima, pertanto Felipe VI di Spagna e Catalogna è di diritto re dell’isola.”
«E moi, ita catzu fadeus?» fu la domanda angosciata che si pose Ringhio.

Ps: Quanto scritto è solo fantapolitica, l’unica cosa vera è il rischio che la Riforma Costituzionale faccia sparire l’autonomia speciale delle Regione Sarda e con l’abolizione del titolo V della Costituzione le sue competenze vengano ridotte di molto.

 

 

 

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