Come un Cireneo volontario, e gioioso credente, don Efisio Spettu.di Gianfranco Murtas

Ordito e trama, la relazione fra Cielo e Terra nella testimonianza di un prete meraviglioso

 

La mattina di domenica 14 luglio 2013 moriva don Efisio Spettu, prete della archidiocesi di Cagliari fra i più conosciuti

La mattina di domenica 14 luglio 2013 moriva don Efisio Spettu, prete della archidiocesi di Cagliari fra i più conosciuti per la vastità delle relazioni da lui intrattenute e fra i più ricchi di umanità e di religiosa laicità ch’io abbia incontrato e cui mi sia stretto in amicizia, in un fecondo percorso durato giusto trentatre anni.

Vorrei rendergli testimonianza, ancora una volta – adesso che siamo prossimi all’anniversario di quel momento assolutamente doloroso dell’addio –, ben sapendo di quanto la sua vita fosse una partecipazione continua e vigorosa e piena a quella di una infinità di altri incrociati lungo la strada ora della gioia ora, e più spesso, dello sconcerto e del dolore, oppure cercati, con la missione sempre che nulla fosse peso insopportabile per spalle deboli.

Perché se una icona possa essere richiamata come a sussumere la molteplicità delle forme espressive della vocazione umana e religiosa (nella unità del conio s’intende: umanità e religiosità insieme) di don Efisio Spettu io la indicherei nel Cireneo, ma in un Cireneo volontario, non costretto dall’autorità – i doveri dell’ufficio! i doveri del prete mestierante – bensì soltanto dalle pulsioni della sua coscienza che nella solidarietà, e nella concretezza del quotidiano, declinava il senso di giustizia nel quale egli era maturato. Così nella prima educazione familiare in quel di Quartucciu – patria feconda di eccellenti uomini di Chiesa e per la Chiesa sarda e per quella italiana (si pensi al canonico Mario Piu ed al vescovo Raffaele Piras) –, come nella formazione del seminario diocesano, lui ancora bambino, e quindi cuglieritano – adolescente liceista e poi giovane teologo –, nel colloquio permanente – età dopo età – con il suo Signore.

Funzionava così nella sua meditazione, nello sviluppo evidentemente consentitogli dalle crescenti esperienze di studio e di vita filtrate e illuminate sempre dall’ansia di farsi parte attiva e spendibile della dimensione sociale-comunionale (che muovendo dalla Chiesa coinvolgesse, come pasta fermentata, l’umanità intera, e quegli spicchi di umanità via via fatti amici, ai quali pareva inutile oltreché irriguardoso domandare di possibili appartenenze), e funzionava così nelle confidenze spirituali cui si concedeva a questo o quello che cercava, con lui, di posizionarsi e di capirsi… Erano le manovre del suo riflettore, il riflettore della fede sapienziale: partiva dal compimento della Resurrezione, come dato acquisito, per retrocedere alla Passione e alla Morte in croce, e recuperava all’indietro, ma per ripercorrerle, le scene della Natività, della prima Testimonianza nazaretana e della Predicazione in Galilea, e da qui quelle dell’Annuncio (o si potrebbe dire: del doppio annuncio) portato dall’angelo Gabriele, e all’indietro ancora – passando per i Profeti d’Israele – quelle della Promessa dopo l’inganno mitologico dell’Eden. Per tendere il filo, da Genesi ai Sinottici ed a Giovanni , fino agli Atti ed alle Lettere, e trovare e rivelare i nessi nella espansione di spiegazioni fra lo storico ed il metastorico, giusto come nel gioco della trama e dell’ordito. Individuando nella storia degli uomini la culla chiamata all’ospitalità della salvezza, cioè della realizzazione provvidenziata, tutto riportando infine alla Resurrezione. Non per una conclusione puramente consolatoria, ma come per fissare in un compimento rispettoso della fatica di Dio Creatore i travagli, le contraddizioni e le inconcludenze dei figli della natura. Di tutto trovava conferma insieme simbolica e materiale nella Palestina  gemellata con Lourdes, così frequente nei suoi pellegrinaggi fuori Sardegna.

Il colloquio di don Efisio con il suo Signore era per lui come una scoperta ogni volta nuova (e come tale ne ribaltava gli esiti nella relazione con i suoi, nel dialogo spirituale, negli atti sacramentali cosiddetti di riconciliazione, nella meditazione comunitaria): colloquio sempre intenso, con un tempo per i suoi argomenti – quelli anche della petizione – ed un tempo per l’ascolto nel silenzio più assoluto: quello della adorazione, rinfrescamento energetico e rilancio nell’amore al dovere scelto come pratica esistenziale.

Come prigioniero volontario di una bipolarità che lo spiegava a se stesso, Efisio Spettu cristiano e prete spendeva il suo talento umano, la responsabilità del suo battesimo, l’impegno dei suoi voti di presbitero di comunità, su questo doppio altare: quello oblativo della sacralità divina, all’apparenza  sobrio, addirittura minimale, e quello partecipativo della sacralità umana, per il più festoso e dinamico. Ché gli uomini, si sa, hanno bisogni diversi da quelli di Dio…

Sostegno nel discernimento – l’arte complessa cui adolescenti e giovanissimi sono chiamati (e un tempo più di oggi) nei seminari minori – circa la effettività della vocazione al sacerdozio cattolico, e sostegno consolatore, tenero verso la debolezza o la fragilità, sublimamente capace di accompagnare attraverso i perché forse insondabili chi, nelle corsie dell’Oncologico, consumava ogni riserva di speranza. Cireneo in entrambi i campi: quello della responsabilità progettuale, che guarda al senso di una vita proiettata in un futuro e nella modalità di una missione, e quello della responsabilità di consuntivo, che cerca un senso ad un fermo ingiusto e rivede il chiaroscuro dei tragitti sperimentati.

La biografia di don Efisio Spettu è nella sua missione. La leggi, la penetri anzi, questa poliedrica missione, come un’avventura dipanatasi in un luogo dove i carismi coltivati si rivelano nella ispirazione, nella pratica, nell’esempio della semina per infinite repliche. Come docente e assistente o educatore o animatore o direttore spirituale – ne ho accennato –, eccolo impegnato ad elevare la qualità della consapevolezza di una chiamata talvolta tutta da decifrare, chi al ministero sacerdotale, chi al volontariato militante. Così dunque nel seminario arcivescovile – fin dal 1963, nel bel mezzo del Concilio giovanneo e paolino che ne aveva accompagnato l’ordinazione – e poi, su un piano diverso e più complesso, dal 1992 e per tre interi sofferti lustri, al Regionale (di cui non tratterò qui ma con un contributo a parte e in altra circostanza, tanto più per i contrasti con chi della Chiesa locale avrebbe dovuto essere il primo servitore e non il feudatario);  così nelle fila dell’Unitalsi, l’altro suo amore più continuativo (dal 1967) e caro.

Come leader religioso, eccolo impegnato a favorire la stretta in unità dell’assortimento delle forme, non per omologare bensì per tradurre o evolvere la comunità in comunionalità, potenziandone l’efficacia anche ecclesiale. Sempre però vivendo la Chiesa come lievito per la pasta sociale, strumento di fraternità orizzontale senza abusivi confini escludenti e perciò settari. L’esperienza ora quasi quarantennale della comunità di San Rocco, se ripercorsa criticamente lungo le linee di memoria degli anziani e più attivi coprotagonisti, fornirebbe ampia dimostrazione di questo, illuminando forse anche le ragioni delle  inevitabili crisi: sante ragioni di crisi, perché impulsi evolutivi e rispondenti alla fisiologia di un corpo vivo, orgoglioso del suo passato – spenderei qui, senza enfasi alcuna, l’aggettivo “profetico” – e bisognoso di futuro, ancora di futuro…

Come fratello dei malati, all’Oncologico dal 1984 e per otto anni, e poi ancora dal 2006 fino all’exit, eccolo impegnato nei faticosi percorsi della ricerca di senso nel bruciante presente: azionando le leve di una empatia che favoriva la mutua confidenza, lo scambio di vissuti, il fiducioso e reciproco dono dei significati, era sempre teso ad offrire, il nostro don Efisio, un conforto credibile, mai di maniera od affettato, e la pratica di procedere “insieme” anche e soprattutto nell’esperienza estrema. La sua figura amica – amica! – è stata sovente l’ultima stampata nella coscienza e nella memoria di molti che hanno compiuto, nelle corsie dell’ospedale nostro, il passaggio, involandosi nella Fonte.

Ripensando alla molteplicità del suo servizio, mi sovviene un’altra definizione che a lui si potrebbe attagliare con perfezione anche nell’immagine giovanile, proprio quella che a noi potrebbe restituire un ideale film in rewind, buon testimone della coerenza di tutta una vita: apostolo del consiglio. Dicono i manuali di teologia del “consiglio” come uno dei sette doni dello Spirito Santo, e la cosa va rispettata per quella che è, per declinazioni e categorie di dottrina. Ma oso credere vi possa essere anche una modalità tutta umana di poter definire questa sovrabbondante generosità del Cielo: riportandola alla dimensione di una morale, quella realizzativa del Regno di fraternità universale, che relaziona con il più intimo impulso imitativo di bene presente già nella nostra prima socializzazione, nell’educazione materna e familiare.

Soltanto i poeti, forse, sono legittimati a portare in pubblico i loro sentimenti. Possono evocare memorie, rivelare emozioni che sono, di loro natura, personalissime. E però può accadere che quando le relazioni umane ferite siano note perché ai protagonisti è stata data occasione di fornirne la prova, e la prova ripetuta, nel lungo tempo, esse – dico le relazioni personali classificate come materiali di quelle umane confessioni – possano, e debbano, uscire dal privato per offrirsi alla generale conoscenza. Non soltanto alla conoscenza: anche al giudizio, come ho fatto. E di più: offrirsi anche alla partecipazione ancora non soltanto della passeggera emozione, ma alla partecipazione ideale e morale di chi pure, nel vasto campo ecclesiale o sociale, può avere avuto un ruolo e una compromissione all’interno di esperienze trascorse e tramontate di questa nostra affaticata famiglia cagliaritana e sarda.

 

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