L’ETICA DELLA STORIA: LA LIBERTA’ CRISTIANA E LA COMUNITA’ SARDA, di don Pietro Borrotzu

DOCUMENTI PER IL NUOVO STATUTO DELLA SARDEGNA. Atti del seminario “Est ora, movè(m)us”, 9 giugno 2014, presso il Palazzo Viceregio a Cagliari.

L’intervento di don Pietro Borrotzu

Quando Salvatore mi ha dato l’incarico di svolgere il mio tema ‘L’etica della storia: la libertà cristiana e la comunità sarda’ mi ha anche suggerito di leggere un pezzo di Salvatore Satta, riportato

nel sito della “Fondazione Sardinia”, del 1951 e dal titolo “Spirito religioso dei Sardi”.

Sono andato a leggerlo ed ho trovato in effetti alcune affermazioni utili alla nostra riflessione.

Senza volermi dilungare in un commento su questo brano, mi sembra importante evidenziare qualche passaggio.

Lo scrittore per parlare dei sardi e dello spirito religioso prende lo spunto da uno spazio della sua città, di Nuoro, una piazza, la piazza della Cattedrale, dove, quando egli scrive, ci sono due edifici: da una parte la Chiesa, dall’altra il Tribunale; si tratta di due passaggi obbligati per tutti i nuoresi e per tutti i sardi. In realtà, egli dice, “Chiesa e Tribunale non sono due cose, ma una sola, la sede umile e solenne nella quale ognuno di noi riceve l’investitura della legge …, ma una legge individuale che si sovrappone all’individuo”. Ora l’avere “il senso così vivo e così agitante della legge e del peccato … non lascia alcun margine alla libertà e all’indifferenza dell’azione”.

E questo fatto “ci vieta di inserirci nel processo della storia e ci porta fatalmente a risolvere la storia nell’utopia”, alla quale restiamo aggrappati, fuggendo “quasi d’istinto il torbido mare della vita”.

Se questa descrizione è vera, ha ragione lo scrittore a chiedersi “se noi crediamo veramente in Dio”.

E’ vero, chi non crede nella possibilità di scrivere la storia, non ha fiducia nella propria azione, non può essere considerato un credente. Aggiungiamo che non può essere considerato neanche un buon cittadino.

Questa impossibilità di scrivere-costruire la storia sembra essere delineato anche in uno studio (di alcuni anni fa) del Sacerdote nuorese Domenico Argiolas intitolato “Alle origini del cristianesimo barbaricino”.

La tesi sostenuta da questo studio si innesta nelle modalità con cui è avvenuta la prima evangelizzazione delle zone interne della Sardegna e che abbiamo modo di conoscere dalle lettere del Papa Gregorio Magno al capo dei Barbaricini, Ospitone, e al capo delle truppe bizantine Zabarda.

Il Papa loda l’autorevolezza di Ospitone per il fatto di essere cristiano, “mentre tutti i Barbaricini vivono come animali insensati, ignorando il vero Dio e adorando i tronchi d’albero e le pietre”.

Si può anche dire che la vecchia anima barbaricina non riuscì a combinare totalmente con quella cristiana .

L’autore sostiene che quegli elementi di fede antica, a tanti secoli di distanza, resistono ancora, in diversi paesi della Barbagia, tinti appena di qualche verniciatura cristiana .

Per esempio,ci si può riferire al mondo degli spiriti (de sos mortos).

Sas animas, soprattutto sas animas malas, costituiscono un fatto conturbante, che va risolto con l’offerta di un “tributo di venerazione”.

Il punto fermo poi è “s’ostinu”, che è più vicino al fato pagano che alla “provvidenza cristiana”.

“Si tratta di una forza misteriosa e occulta, ma inesorabile, che si manifesta soprattutto nel dolore e trascina l’uomo …., senza che questi possa opporre alcuna resistenza”.

Ora se la religiosità antica non è raggiunta dalla libertà cristiana, quale spazio rimane per la responsabilità di costruire se stessi e la comunità, e quale valore può avere l’etica sa tutto è già preordinato e precostituito? Il cristianesimo non poté toccare in profondità la cultura barbaricina.

Il pastore sardo non crederà di fare cosa blasfema raccomandarsi a Dio e a qualche santo perché gli vada bene un’impresa ladronesca (aiutami a vendicarmi!).

Il mondo religioso sardo è contradditorio: l’amore profondo sta accanto all’odio feroce e alla violenza brutale, il senso del dovere e della solidarietà accanto ad un pessimismo radicale.

Forse la civiltà cristiana è mancata proprio in questo: non ha saputo dare la speranza.

Gli esponenti ecclesiali troppo spesso sono stati fagocitati anch’essi dall’antica anima barbaricina, o travolti nelle spire del potere.

Quando parliamo di etica pensiamo a dei principi di riferimento, basati su valori, che portano a comportamenti da valutare come buoni o cattivi in base alla coerenza con i valori stessi. L’etica può indicare anche il senso dell’esistere umano.

Noi ci collochiamo all’interno di quel percorso che Max Weber definiva “Etica della responsabilità”: Il futuro è incerto, è da costruire, e l’uomo politico deve rispondere delle conseguenze delle sue azioni sulla vita dei propri simili. Ed Emmanuel Levinas è ancora più preciso: non vi è alcun senso etico al di fuori della responsabilità verso altri.

 

 

ELENCO (PROVVISORIO) DI ALCUNI CAMPI, NEI QUALI LA LIBERTA’ CRISTIANA

PUO’ INCIDERE NELLA COSTRUZIONE DELLA COMUNITA’ (POPOLO) SARDO

 

  1. 1. La Chiesa, se è fedele alla sua identità, può costruire luoghi di incontro e di collaborazione.

Nei documenti più recenti la comunità cristiana nel suo rapporto con la società si è data come una nuova identità, collegata con l’immagine venuta fuori dal Concilio Vaticano II.

Essa parte da una più viva coscienza della solidarietà che la lega al mondo. Non si sente estranea al mondo, ma profondamente inserita nella sua storia. Per questo essa si mette al servizio degli uomini con l’unico intento di servirli. Il riferimento è l’affermazione di Paolo nella lettera ai Corinzi: “Pur essendo libero, mi sono fatto servo di tutti”. Un servizio che si sviluppa in almeno due direzioni: la denuncia delle storture e degli errori; ma occorre anche saper cogliere i segni dei tempi, segnalare e sviluppare i germi di bene.

Papa Francesco individua uno spazio peculiare per questo incontro, che sia davvero accessibile a tutti, quello dei cosiddetti nuovi Aeropaghi, come il “Cortile dei Gentili”, dove credenti e non credenti possono dialogare sui temi fondamentali dell’etica, dell’arte, della scienza e nella ricerca della trascendenza (Ev. G. n. 257).

 

  1. 2. Il piacere spirituale di essere popolo con tutti.

Il modello di questo comportamento, che per i credenti descrive il modo di evangelizzare, ma può descrivere anche un modo nuovo di vivere e di convivere, è Cristo stesso, che realizza e valorizza ogni incontro, senza trovare mai motivo od occasione di spaccature o di creazione di distanze.

Alcuni esempi limite: mangiare e bere con i peccatori, senza preoccuparsi di essere considerato un mangione o un beone; ricevere nella notte la fede fragile di Nicodemo; consentire ad una prostituta che unga i suoi piedi. Questo fatto annulla le distanze, aiuta a mettersi continuamente in discussione; condividere, ascoltare, collaborare, impegnarsi a costruire un mondo nuovo; la stessa identità dell’individuo viene ricompresa alla luce di questa appartenenza al popolo.

“Nei rapporti della convivenza i diritti, i doveri, le varie forme di collaborazione vanno attuate specialmente in virtù di decisioni personali … in atteggiamenti di responsabilità, e non in forza di coercizioni o di pressioni …”

 

  1. 3. Indicazioni con valenza politica.

Vi è la necessità di risolvere le cause strutturali della povertà. I piani assistenziali devono essere considerati risposte alle urgenze. La politica economica deve essere strutturata a partire dalla dignità della persona e dal bene comune. Il principio deve essere messo di nuovo in evidenza per arrivare a conseguenze politiche. Sono da prendere in considerazione le parole di Benedetto XVI nell’enciclica “Deus caritas est” (2005): sebbene “il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica”, la Chiesa “non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia”. E Papa Francesco aggiunge: “Tutti i cristiani, anche i Pastori, sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore.

 

  1. 4. Il posto privilegiato dei poveri.

Ma c’è anche qualcosa di più in riferimento ai poveri e alla loro condizione. Non si tratta solo di garantire un’assistenza o di fare un’azione politica per eliminare le cause della povertà, ma di garantire il posto loro proprio, un posto privilegiato. Nella Bibbia vi è una sorta di filo rosso che descrive l’identità di Dio: “Ho osservato la miseria del mio popolo e ho udito il suo grido: conosco le sue sofferenze”. Seguendo questo filo anche noi possiamo ascoltare il grido dei poveri, e anche il grido di interi popoli.

Ma dicevamo, il posto privilegiato dei poveri, perché Dio stesso “si fece povero” (2 Cor. 8,9).

Per la comunità cristiana l’opzione per i poveri è una categoria teologica, prima che culturale, sociologica e politica. E forse proprio in questo si può individuare il contributo originale della comunità cristiana. Le parole di Papa Francesco sono particolarmente illuminanti: “La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa” (Ev. G. 197). Si tratta di guardare le cose dal loro angolo di visuale.

Basta guardare il tempo che stiamo vivendo: la crisi economica e sociale. La crisi ha prodotto l’ingordigia di coloro che vogliono accaparrarsi quel poco che rimane, ha prodotto povertà, disperazione ed altro. In questo tempo i poveri hanno svolto una grande lezione alla società: una lezione di dignità, di sobrietà, di essenzialità. Collocando i poveri in un posto privilegiato, tutta la società ha di che imparare e di che guadagnare.

 

  1. 5. L’unità è superiore al conflitto.

Tra gli appellativi che, a suo tempo, sono stati attribuiti ai sardi, insieme a quelli di essere pochi e un po’ matti, vi è anche quello di essere disuniti (“male unidos”). Ora il conflitto non può essere ignorato e neanche demonizzato.

Papa Francesco indica un’importante via di approccio: “accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo … In questo modo si rende possibile sviluppare una comunione delle differenze”. E questo può diventare un nuovo stile di costruzione e di scrittura della storia. Non possiamo assuefarci alla descrizione e all’esperienza della disunione. Né questa può essere considerata un fatto ineluttabile. La diversità, che può anche conoscere il conflitto, anziché portare alla disunione, può innescare un processo di crescita, di storia positiva.

Io sono parroco di una parrocchia di Nuoro, intitolata alla Beata Maria Gabriella Sagheddu, una monaca nata a Dorgali, quindi proprio in Sardegna, morta a 25 anni dopo aver offerto la vita per l’unità dei cristiani. Per questo motivo è considerata la patrona dell’ecumenismo e dell’unità. Quest’anno ricorre il centenario della nascita. La patrona dell’unità nasce in una regione in cui gli abitanti hanno fama di essere disuniti: qualche cosa vorrà dire! A me dice che la vera vocazione di questo popolo è l’unità e la testimonianza di essa. Chissà che questo fatto non costituisca l’occasione per scrivere da qui in avanti una storia fatta di consapevolezza delle nostre qualità e ricchezze, di valorizzazione del bene presente e di cammino verso la costruzione di un’unità di popolo, che è l’unico modo per esserlo davvero.

 

Cagliari 09 giugno 2014

 

Pietro Borrotzu

 

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