Paolo Flores d’Arcais, Papa Francesco e un pizzico d’ironia, di Carlamaria Cannas e Gianni Mula
Come si è permesso Papa Francesco di rubarci quel Dio cattivo, vendicativo, anche sadico nel mandare a morte il proprio figlio come soddisfazione per le offese fatte al Padre…. E di sostituirlo con un Dio pieno di misericordia, che si fa vicino soprattutto a chi soffre, che si sporca le mani con pubblicani e prostitute, che sparge amore senza limiti?
Come si è permesso di rubarci la soddisfazione di attaccare quei finti devoti che osavano vedersi come esseri pensanti e non come semplici soggetti a dottrine umane sovrapposte all’insegnamento di amore del Cristo?
Come si è permesso di criticare quegli eroi che con tanta fatica accumulano denaro in nome dei valori che attribuiscono al Dio di Gesù Cristo?
Non c’è davvero più religione se anche dalla cattedra di Pietro si dettano comportamenti contrari a ciò che i potenti di tutti i luoghi e tutti i tempi hanno sempre insegnato deve essere proprio del fedele cristiano.
Meno male che Paolo Flores d’Arcais, incurante del rischio di essere giudicato affine a Giuliano Ferrara, ci è venuto in soccorso con un articolo importante su MicroMega. Nell’articolo, dal titolo Bergoglio piace a troppi, Flores tiene bene in alto la bandiera di un solido “pensiero laico” e si rifiuta di cadere nella trappola di prendere per buono un rinnovamento fatto solo di dichiarazioni ma che poi non si concretizza in precise disposizioni che obblighino le diocesi ad autodenunciarsi a magistrati e polizia. Perché è proprio questo che ci chiede quel Dio sadomasochista che Bergoglio ci ha tolto.
I toni e lo stile di Francesco sono certamente nuovi e interessanti, ma un solido pensiero laico deve badare al pratico e deve imporre all’istituzione Chiesa di difendere pubblicamente e senza mezzi termini, ovunque ne abbia la forza, l’unica vera “legge naturale” laica, quella del libero mercato. Solo così gli atteggiamenti simoniaci potranno uscire dall’ombra e riqualificarsi come comportamenti propri degli azionisti di una grande multinazionale come la Chiesa.
Per di più all’ombra del sorriso e dei peana alla misericordia di Jorge Mario Bergoglio, la Chiesa non sembra affatto disposta a dare l’ostracismo dal dibattito pubblico e dall’ethos civico a quel Dio sfacciatamente dalla parte dei poveri, che sempre riemerge da ogni tentativo di annegarlo in un mare di devote intenzioni. Da che mondo è mondo i poveri e gli emarginati sono sempre tali per loro colpa, e Jorge Mario Bergoglio deve smetterla di fare il populista, perché un sano e solido pensiero laico insegna che così si va contro la democrazia.
Come esempio della gravità della deriva populista conseguente all’arrivo di Bergoglio presentiamo la traduzione italiana dell’ultimo editoriale del settimanale cattolico americanoCommonweal (Bene comune), nel quale si sostiene che la troppa disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza sarebbe dannosa per la democrazia. Si noti la sfrontatezza con la quale questi finti cattolici si permettono di alludere a improbabili illegalità nella costruzione delle grandi fortune, sia passate che presenti, anziché riconoscervi la mano di Dio.
Buona lettura!
Carlamaria Cannas e Gianni Mula
Commonweal Magazine - 27 maggio 2014
Tu voti, loro decidono
La deriva plutocratica della democrazia americana
Il comitato di redazione
Cercare di impedire al denaro di minare alla base una democrazia può sembrare una fatica di Sisifo: ogni successo è sempre parziale e temporaneo, e la strada che si percorre è sempre piena delle tracce di tentativi finiti male. La maggior parte dei disegni di legge destinati a limitare l’influenza del potere economico sui governi finisce colpita dalla stessa malattia che si intende curare, e quei pochi che riescono ad essere approvati possono essere rapidamente resi inutili da una mezza dozzina di giudici della Corte Suprema.
Lo scorso aprile la Corte ha stabilito (caso McCutcheon contro Commissione elettorale federale) che porre limiti alla quantità totale di denaro che una persona può dare a candidati e partiti politici durante un ciclo elettorale di due anni è incostituzionale. Questa decisione ha esteso la logica di una sentenza precedente, la famigerata Citizens United, che ha aperto la porta a campagne di spesa indipendenti e senza limiti da parte delle multinazionali. Secondo questa logica il denaro deve avere la stessa libertà di ogni manifestazione di pensiero; Pertanto il diritto alla libertà di espressione comprende il diritto di tutti gli americani, miliardari e grandi aziende compresi – di spendere quanti soldi vogliono per sostenere le cause e i candidati che preferiscono. Deroghe a tale principio sono legittime solo quando è necessario per evitare fenomeni di corruzione, nel caso che sia provata l’esistenza di un “do ut des“, o anche quando la corruzione sia comunque ragionevolmente evidente. Sino a quando i contributi elettorali non sono destinati ovviamente a pagare un comportamento preciso, c’è poco che il Congresso può fare per limitare l’influenza politica dei ricchi donatori. Come il giudice Anthony M. Kennedy scrisse nella relazione di maggioranza per la decisione nel caso Citizens United, “che dei portavoce [leggi 'donatori'] possano influenzare o avere accesso diretto agli eletti non significa che tali eletti siano corrotti. E che l’influenza o la facilità d’accesso siano evidenti non farà perdere all’elettorato la fiducia in questa democrazia”.
Nella prima di queste due frasi c’è un punto importante da notare: la formulazione di Kennedy riduce sostanzialmente il significato di “corruzione” al passaggio di mazzette. Ma la corruzione ha tanti aspetti. Spesso gli eletti già sanno, senza che sia detto loro esplicitamente, il vero motivo di donazioni importanti, e sanno anche che gli ingrati raramente vengono rieletti. Per quanto riguarda la seconda frase: se “perdere fede nella democrazia” significa rovesciare il governo, Kennedy ha probabilmente ragione a non preoccuparsi. Ma le persone sono meno propense a votare se ritengono che chi viene scelto per rappresentarli finirà per ignorare i loro interessi. In un sondaggio (condotto dai sondaggisti Mark Mellman e Richard Wirthlin) due terzi degli intervistati si dichiararono d’accordo con l’affermazione “a volte i grandi finanziatori dei partiti politici bloccano decisioni del governo federale che potrebbero migliorare la vita quotidiana delle persone”. In una campagna elettorale le grandi donazioni minacciano il bene comune perché consentono ai grandi donatori di soffocare le voci degli elettori ordinari sia prima che dopo le elezioni. Nel suo dissenso dalla decisione di maggioranza nel caso McCutcheon il giudice Stephen G. Breyer ha osservato che “se la musica è scelta da chi ha molti soldi, la voce degli elettori normali non sarà ascoltata”.
I fatti sembrano confermare che nella Washington del ventunesimo secolo è il denaro a scegliere la musica. In un articolo pubblicato lo scorso anno nella Columbia Law Review, Nicholas O. Stephanopoulos ha concluso che tutti gli esperti confermano che le posizioni dei politici riflettono con maggiore precisione il punto di vista dei loro donatori che non quelli del loro corpo elettorale”. Nel frattempo due studiosi di scienze politiche, Martin Gilens di Princeton e Benjamin Page della della Northwestern – hanno confrontato due decenni di produzione legislativa con i sondaggi di opinione e hanno scoperto che negli Stati Uniti “la maggioranza non conta, almeno nel senso che non determina le scelte politiche che vengono fatte. Perché quando una maggioranza dei cittadini non è d’accordo con le élite economiche e/o con interessi organizzati, generalmente perde”.
Così un disegno di legge che avrebbe imposto il controllo dei precedenti penali per tutti gli acquirenti di armi si è insabbiato l’anno scorso al Senato, nonostante il fatto che la stragrande maggioranza degli americani (91%) si sia dichiarata a favore. Ciò che ha determinato l’insabbiamento è stata l’opposizione di un “interesse organizzato” ben finanziato, cioè la National Rifle Association. E la stessa cosa è successa per una legge che avrebbe elevato il salario minimo federale a 10,10$ l’ora, perché i Repubblicani del Senato hanno deciso di praticare l’ostruzionismo contro di essa, nonostante il fatto che una larga maggioranza degli americani – compresa la maggioranza degli iscritti repubblicani, fosse a favore di un salario minimo più alto dell’attuale 7,5$. Quello che contava era l’opposizione del potere economico, per il quale un salario minimo più elevato significa minori margini di profitto.
La buona notizia è che se gli Stati Uniti non sono poi così democratici come dovrebbero essere, e neanche come la maggior parte degli americani immaginano che siano, sono almeno più democratici di com’erano una volta. E questo perché, di tanto in tanto, i cittadini si uniscono per diventare uno di quegli “interessi organizzati” che i politici hanno difficoltà a ignorare. Gli Stati Uniti hanno ora bisogno di un altro movimento progressista, che garantisca ed estenda le vittorie del primo, per tenere sotto controllo i nostri nuovi Robber Barons[1] (Baroni ladri). Non sarà facile, come non lo è stato allora. Ma se una democrazia vuol essere tale, lo deve essere ogni giorno, non solo durante le campagne elettorali. Se volete si tratta sempre di una specie di “do ut des“: dare la nostra vigilanza e il nostro impegno politico attivo per avere un governo che realmente ci rappresenta. Anziché scegliere il disimpegno e lasciar agire come vuole un governo che non ci rappresenta.
(Traduzione di Gianni Mula)
[1] Il riferimento è alla Gilded Age, il periodo della storia americana dalla fine della guerra di secessione sino all’incirca al 1910, nel quale una manciata di giovanotti (tutti avevano compiuto il loro 25esimo compleanno tra il 1860 e il 1870) costruirono buona parte delle dinastie finanziarie che ancora oggi dominano l’America: ad es. quelle dei Rockefeller, Morgan (quelli della J.P. Morgan), Vanderbilt, Carnegie, Harriman ecc.. E naturalmente lo fecero violando tutte le leggi, tranne quella della giungla.