Quando i sardi danzavano intorno al fuoco, di Michela Deriu.

Era una notte del tremila avanti Cristo e tra gli alberi della foresta di Accodì i sardi cominciarono a danzare.

Questa storia la racconta un ignoto ceramista che ha voluto imprimere su un piatto prenuragico un momento di festa o forse un momento di preghiera, o tutt’e due, difficile a dirsi. Possiamo solo fare delle ipotesi sul perché’, ma di una cosa siamo certi: in quel tempo nasceva la nostra danza.

Il piatto, concavo, dal fondo scuro, con una parte erosa dal tempo, mostra immagini di uomini stilizzati dai tratti essenziali. E’ una tipica espressione dell’arte primordiale.

Grande è la forza dell’immagine che racconta molto di più di ciò che il nostro avo ha voluto fissare nel tempo.

Sembra di vederli i danzatori del popolo dei sardi, in quei tratti nitidi che il tempo ha di poco scalfitto.

Il sentimento dei ballerini di cinquemila anni fa salta fuori dall’incisione: lo sguardo è fiero e guarda avanti, il busto è eretto, immobile, le braccia dei danzatori si sfiorano e le mani s’intrecciano, mentre nella parte bassa del corpo i piedi sollevati dal suolo fanno intuire un movimento frenetico come di danza saltellante.

Il viso guarda avanti, il tronco resta immobile, i piedi si muovono con salto ritmico, ognuno intreccia la mano con il danzatore che ha a fianco. La sequenza dei ballerini è in linea retta ma il piatto è rotondeggiante, come tutto è tondo nel mondo dei nuraghi. Anche la danza è un cerchio .

E’ nato il primo Ballu Tundu della nostra storia.

 

Sergio Atzeni

A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti,

eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i

monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure

negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue,

dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo

giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo

tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e

sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo

in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere,

mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire,

cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici,

a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti.”

 

 

Saremo grati per sempre allo sconosciuto cesellatore del piatto dei danzatori che ci ha tramandato questa immagine di civiltà. E’ sicuramente stata una grande civiltà se è riuscita ad inventare un’arte come la danza ancor prima che la praticassero gli Egizi, molto prima di quella dei greci e a dispetto della danza greca apollinea e dionisiaca nello stesso tempo.

Apollinea nello sguardo ieratico, apollinea nella rigida sacralità del busto .

Danza sfrenatamente dionisiaca dalla cintola in giù.

Nel piatto di Accodì c’è il ballo sardo come vive ancora nei nostri giorni.

E’ già definita la coreutica dei ballerini e già s’intravvede la coreografia del Ballu Tundu con i danzatori che si tengono per mano.

Ma ci dice molto di più il nostro artista della Cultura di Ozieri, ci dice che la danza era un’attività privilegiata se è stata degna d’esser rappresentata. Danzare tra i sardi dei nuraghi era più importante di mungere, più importante di coltivare, più importante di fondere, più importante di intagliare, quasi importante come uccidere.

Perché la danza in un mondo cosi selvaggio?

La danza nasce, tra diverse culture, come rito e come espressione propiziatoria. Forse anche per i sardi è nata come atto sacrale collettivo per ingraziarsi gli dei.

 

Per scongiurare i nubifragi, le carestie, la siccità è necessario che un Dio si commuova, perché un Dio si commuova, occorre danzare in suo onore. Lo fece Davide per il Dio di Israele,u l’hanno fatto i sardi, come dice Sergio Atzeni, in onore di Is.

 

E il rituale è rimasto immutato nel tempo nella sua essenza.

“Danzavamo ed eravamo felici”

Ma sardi non hanno mai smesso di danzare sia in tempi felici sia in tempi infelici.

Quando si è dissolto il mondo di Umur altre popolazioni sono venute dal mare .

Sono arrivati i punici e abbiamo continuato a danzare.

Sono arrivati i cartaginesi e abbiamo continuato a danzare.

Sono arrivati i romani e abbiamo continuato a danzare.

Sono arrivati i cristiani e……qui le cose si complicano perché mentre gli altri popoli avevano i loro dei e ci lasciavano in pace a danzare i cristiani ci vollero per forza cristianizzare. E nacquero le Chiese tra le tombe dei giganti e i pozzi sacri, vicino a sepolture puniche e romane, dove eravamo abituati a ballare.

I cristiani si rassegnarono e nei loro templi ci fecero danzare.

Ce lo racconta un capitello della Chiesa duecentesca di San Pietro di Zuri a Ghilarza, dove si vedono i sardi già con la berritta che danzano tenendosi per mano, ce lo racconta meglio Sigismondo Arquer.

Da”Sardiniae brevis historia et descriptio”, nella”Cosmographia” del Muster, Basilea 1558:

” Cum rustici, diem faestum alicuis Sancti celebrant, audita missa in ipsius sancti templo, tota reliquia die et nocte saltant in templo, profana cantant, choreas viri cum foeminis ducunt”

Traducendo liberamente in italiano la frase potrebbe suonare così:

“I villici, nel giorno della festa dei loro santi, una volta ascoltata la messa nei loro tempi santi, danzano per tutto il tempo restante del giorno e della notte, uomini e donne conducono una danza corale…”

Sappiamo da altre fonti che l’usanza di danzare nelle chiese fu tollerata fino al censurante Concilio di Trento.

Dal Concilio di Trento in sù, fu proibito danzare nelle chiese. Poco male, il luogo del rito pagano si spostò di qualche metro. Varcato il portone del tempio in tutti i paesi c’era una vasta piazza e i si continuò a danzare “In prazza ‘e cresia’”.

Arrivarono gli Spagnoli, facemmo nostre le loro melodie e continuammo a danzare

Poi arrivarono i piemontesi. Gente strana, tanto diversa da noi, ma ad uno di questi piacemmo molto, tanto che nella sua avventurosa vita tra incarichi politici e cruente battaglie si ritagliò il tempo per girare la Sardegna in lungo e in largo.

Per incarichi ufficiali e per diletto personale passò tanto tempo nella nostra isola e di noi scrisse a fiumi.

Non gli sfuggì la danza dei sardi che da piemontese vedeva così:

Da “Voyage en Sardaigne”.Parigi 1826

”. “I Sardi han diverse specie di balli, ma la vera danza nazionale è quella che nel paese vien chiamata ballo tondo. E’ eseguita da persone dei due sessi che, tenendosi per mano, formano un cerchio attorno al musicista. Benché questa danza sembri, ad un primo sguardo, molto semplice e facile, essa presenta parecchie difficoltà per chi non l’ha imparata dall’infanzia. Le difficoltà consistono non solo nel modo di fare il passo ma anche nel modo di eseguire diversi movimenti del corpo e certe scosse delle braccia e delle mani date in cadenza, dal basso in alto. Niente eguaglia la gravità con la quale i Sardi meridionali eseguono questa danza: spesso si direbbe che non ne abbiano alcun piacere, mentre è il contrario, perché in tutti i villaggi del Campidano i giovani si quotano per pagare un suonatore di flauto e poter ballare la domenica. Il ballo nelle zone centrali e settentrionali della Sardegna è molto più animato; lo si rallegra spesso con i salti e gli sgambetti dei ballerini più agili e soprattutto con grida di gioia che si lanciano di tanto in tanto”.

Alberto della Marmora scrive in pieno periodo romantico nei primi decenni dell’ottocento. In quel tempo l’attenzione degli studiosi e degli intellettuali europei si focalizza nella scoperta del selvaggio, dell’autentico, del primordiale.

Sulla scia dell’Ossian e dei canti delle Highlands scozzesi anche la Sardegna viene riconosciuta sufficientemente primitiva, degna di attenzione e meritevole di essere studiata.

In Sardegna arrivano filologi, musicologi, studiosi di folklore.

Se questi illustri viaggiatori siano veramente serviti a valorizzare la nostra Isola e raccontare l’autenticità dei nostri usi e costumi è da stabilire.

A questo proposito dice così Francesco Alziator:

”Cosi’, sin dai primi decenni dell’ottocento, chiunque , nutrite di buone lettere e regie patenti, approdasse in Sardegna, era difficile che, ritornando in terra ferma, come allora si usava dire della penisola, non si sentisse in dovere di scrivere i ricordi del suo soggiorno nell’isola, dedicando inevitabilmente molte pagine all’argomento .

Quanto poco lo studio del folklore isolano, e in particolare quello della poesia popolare , si sia avvantaggiata di tanta cattiva letteratura, è chiaro, ma il peggio è che risalgono ad essa non pochi dei più’ dannosi luoghi comuni.”

Non è questo il caso del Generale della Marmora anche se, alla faccia del romanticismo, è certo che i sardi si divertono a danzare non perché secondo lui lo dimostrino anzi ”sembra non si divertano affatto” ma perché se son disposti a pagare non possono non divertirsi. Quest’affermazione dello studioso piemontese se non è dotta è sicuramente realistica e apre un altro capitolo importante. La danza momento poetico arriva dopo che la comunità ha compiuto tutta una serie di adempimenti pratici.

La festa vissuta come attività ludica ha bisogno di due elementi essenziali per vivere : il suonatore e la piazza.

Il suonatore non lo fa gratis è la comunità che si quota per pagarne la performance .Questo fino ai nostri giorni. Sappiamo tutti quanto il “priorato” della festa del santo, in tutti luoghi, sia ambito come segno di rilevanza sociale .

La ricompensa per il suonatore di launeddas o di organittu oggi è stabilita in denaro ma a Seneghe, paese che tuttora conserva l’usanza di ballare in piazza per tutte, o quasi, le ricorrenze dell’anno, ci si ricorda ancora di quando veniva pagato in natura. Sì perché il suonatore anche in tempi non tanto remoti veniva pagato in grano. Quest’usanza sopravvisse fino agli anni cinquanta e il tramutarsi della consuetudine coincise con il trapasso da una società essenzialmente contadina al una società più modernizzata.

La danza negli ultimi secoli quindi, da rito propiziatorio diviene un atto sociale che riguarda la comunità.

“ Si ballava in piazza esattamente per lo stesso motivo per cui ora si va in discoteca” dice Mariano Staffa folklorista,” da rito propiziatorio collettivo è diventato rito propiziatorio dove ognuno propizia pro domo sua. Era un modo per incontrarsi e tutti potevano unirsi al ballo. Il cerchio veniva aperto ogni qual volta un ballerino intendeva unirsi alla danza.”

Esiste tutto un “galateo del ballo” soprattutto per quanto riguarda la donna che deve avere sempre un aspetto serio ed austero mentre agli uomini man mano che l’aria si surriscaldava era concesso di lanciare grida di entusiasmo.

Oltre alle feste dei Santi si danzava anche per feste familiari. Un momento importante del ballo erano le  nozze.

A questo proposito è molto bella un’’immagine che ci regala Grazia Deledda :

………….

Ritornan dalla festa.Ed ella, altera,

Ricorda le rotonde patrie danze

Dove imperò. Egli al bersaglio ha vinto

Il loro fronte appare come cinto.

Di un diadema di sogni e disperanze.

E trotta trotta la giumenta nera.

 

Con “giumenta nera” o con” Cavallina storna” una donna se vai al ballo deve danzare con tutti quelli che si propongono . Se nega il ballo ad un uomo non potrà più ballare con altri che siano il padre o il fratello.

Il disconoscimento di questa regola porta terribili conseguenze, in alcune zone come la Trexenta l’uomo potrà vendicarsi tagliando un pezzo dell’abito della donna. La famiglia della ragazza a sua volta si sentirà offesa e non è raro che queste offese vengano lavate col sangue.

In una società chiusa come quella dei nostri paesi il ballo era un’occasione unica per intrecciare relazioni amorose.

Per questo il ballo è considerata danza erotica per eccellenza.

Giulio Fara che nei primi anni del novecento si occupò soprattutto di musica, scoprì, quasi per caso in quanto amico dell’allora Sopraintendente del Museo Archeologico di Cagliari Antonio Taramelli, una statuetta nuragica che raffigurava un suonatore di launeddas.

L’emozione fu grande, il nostro strumento nazionale risaliva all’età del bronzo, non solo ma dalla postura del suonatore nuragico Il Fare dedusse che :

“La statuetta preistorica o protostorica sarda è sola e non fa

parte di quei molti gruppi raffiguranti danze, come, ad esempio,

quello trovato dal Dawkins a Palaikastro48, in cui, attorno

ad una suonatrice di lira, stanno quattro danzatrici, e quello

meno antico di una danza sacra di tre sacerdoti che, tenendosi

per mano, girano attorno ad un quarto, il capo, che suona un

doppio aulòs49; è sola, ho detto, ma non in atto di raccoglimento,

china la testa e lo strumento volto all’ingiù, verso terra,

come chi suona per proprio svago in melanconica e dolce solitudine,

bensì col volto alto che guarda dritto, le canne protese

innanzi a sé come chi suona forte e per altri, che fa parte, è

centro di una festa E poi quel membro virile enorme

non può essere musica intima, quieta, meditativa, flebile,

che l’abbia fatto vibrare ed erigere così prepotentemente, ma

in modo certo musica energetica, orgiastica, appartenente a

quel genere che più tardi in Grecia veniva proibito come lascivo

e corruttore di costumi..

La danza sarda dal prenuragico al nuragico si completa con la musica delle launeddas, strumento che sebbene ve ne siano altri simili nel bacino del Mediterraneo è unica nella sua tipicità .

Ed è musica erotica quindi perché tutto può essere fuorchè musica solitaria e meditativa.

Musica e che riscaldano gli animi e non solo.

Forse per questo è rimasta intatta fino ai nostri giorni. .

La danza a differenza di altri elementi identitari è sopravvissuta alla distruzione della modernizzazione nella nostra isola.

Anzi dagli anni 60 in poi c’è stato un pullulare di gruppi folk che hanno comunque conservato la tradizione e portata la nostra danza in giro per il mondo.

Ma questa è un’altra storia è danzare per essere visti e non danzare per se stessi.

Maria Valeria Daga ha venticinque anni ,canta e compone musica sarda, si esibisce in tante piazze dei paesi della Sardegna:

“Nel mio Paese che è Lodine, ma anche in tanti altri paesi della Sardegna, il ballo in piazza non può mancare. Non appena s’intona il canto tutti si riuniscono in un grande cerchio. Danzano tutti vecchi ,giovani e bambini. Anche ne i concerti Rock durante l’intervallo il ballo sardo, a gran richiesta, non può mancare perché la gente si diverte. Tutti imparano così in modo naturale.”

Il ballo non solo non è scomparso nella nostra isola ma si sta riscoprendo un nuovo piacere di ballare in piazza ora come ai primordi del tempo.

Il linguaggio verbale è mediato, è atto razionale e di controllo sulle emozioni. La lingua sarda contaminato da  messaggi che ne hanno decretato la progressiva svalutazione sta portando la nostra lingua alla quasi scomparsa della comunicazione verbale. Il linguaggio corporeo è immediato, soggetto alle pulsioni, difficilmente sottomesso alla razionalità. In quanto pulsione vitale difficile da combattere.

Per questo hanno quasi soppresso la nostra lingua ma non hanno potuto distruggere la nostra danza.

Bachisio Bandinu

“Ed è la voce del solista ad avviare il ballo: la pulsione costringe il battito del piede e dispone il corpo a un ritmo. Un uomo prende ad un braccio una donna per formare il primo anello della catenai corpi affiancati avvertono vibrazioni. Il tatto è l’organo più sensibile della comunicazione erotica. Ciascuno prende e viene preso nel linguaggio segreto della stretta e del rilassamento, dell’interrogazione e della risposta . Il corpo manda un segnale e attende una corrispondenza. Nell’ambivalenza della comunicazione amorosa si decifra ogni contrazione o abbandono per interpretare l’eccitazione o il rifiuto. .Ogni messaggio è un’interrogazione ogni risposta un enigma.”

La danza non è morta perché l’eros è immortale.

Il dionisiaco ha prevalso sull’apollineo.

 

Era una notte del tremila avanti Cristo e i sardi si muovevano in cerchio intorno al fuoco.
Era il tremila avanti Cristo e i Sardi iniziarono a danzare.

Saranno tante notti del terzo millennio dopo Cristo e i sardi continueranno a danzare.

 

 

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