Franca Ferraris Cornaglia, la signorilità del fare umile e necessario e dello scrivere riflessivo, di Gianfranco Murtas
Domenica scorsa 11 maggio, davanti ad un numeroso pubblico che ha riempito l’intera platea del teatro di Sant’Eulalia, è stata ricordata la forte e ricca personalità di Franca Ferraris Cornaglia, notissima poetessa e scrittrice cagliaritana scomparsa nell’ottobre 2013.
La locandina diffusa per informare ed invitare alla partecipazione portava il verso di una delle sue migliori composizioni – “Sa cumpangia ‘e su tempus” – che figura fra le prime della fortunata raccolta “Su passarissu”, uscita nel 1985 («Si deu podemu essi’ / su Deus Onnipotenti / nd’em’a torrai a bius / is beccius passillendi…»).
Ideata come sequenza di letture di poesie e brani di prosa che la Ferraris Cornaglia ci ha lasciato, evocando ambienti e persone di un tempo inesorabilmente trascorso, la serata ha accolto anche alcune testimonianze di chi l’ha conosciuta bene: di Roberto Piccioni per i ragazzi che al liceo Dettori la ebbero insegnante di lettere italiane e latine, di Tito Aresu per la comunità di San Rocco (e la sua scuola popolare) che frequentò fra i primi e di cui fu una delle colonne, e per l’Unitalsi che la vide per lunghi anni dama d’assistenza nei pellegrinaggi a Lourdes, di Maria Crespellani Puddu infine, in quanto partecipante alla curatela di diverse opere di critica letteraria (mirate in particolare alle firme femminili della Sardegna) uscite, appunto a firma anche di Franca Ferraris Cornaglia, fra il 1993 e il 2012.
Don Marco Lai ha concluso riflettendo sull’esempio di coerenza e semplicità lasciato, sui diversi campi d’impegno sociale, da una donna d’eccellenza che è piaciuto ricordare già in un’ideale istantanea davanti al fronte battesimale di Sant’Agostino (parrocchia al tempo appena gemmata da Sant’Eulalia, nel quartiere della Marina), con il triplo nome di Francesca Adele Angela, onorando così – secondo la sensibilità dell’epoca che guardava anche ai bilanciamenti paterni/materni – entrambe le nonne, la sarda e la toscana. E ne ha tratteggiato il profilo associandolo a quello del marito Gino, al quale ella fu stretta in un solido e fecondo rapporto affettivo durato oltre sessant’anni e comprensivo anche di importanti esperienze nel range della Caritas.
Hanno brillantemente letto le pagine scelte delle raccolte poetiche e del libro memorialistico “Claudia Franca e Paola raccontano…” Rosaria Floris, Alessandra Agnesa, Maria Grazia Putzolu, Elio Turno Arthemalle e Rossella Faa. Al loro talento soprattutto si deve, occorre dirlo, il successo della serata che ha così raggiunto il suo scopo. «Certo è soprattutto per ascoltare lei che ci siamo dati convegno – questo è stato infatti detto quasi programmaticamente –. Dal “non tempo” – i cristiani dicono dal Grembo di Dio Creatore – è lei che, in una empatia che ciascuno declina qui come sa e può, racconta ancora a noi del suo mondo composito, felice ma anche difficile: privato e sociale, affettivo e spirituale».
Un filmato realizzato anni addietro da Cada Die teatro ha dato il brivido proponendo dalla viva voce della testimone, allora appena diciassettenne, il racconto dei bombardamenti del febbraio 1943 e del conseguente sfollamento della famiglia prima a Samassi e poi a Villamar, Mandas e Ulassai.
Ha condotto la serata Gianfranco Murtas. Ha apprestato la regia tecnica Andrea Cao.
L’immagine che accompagna, nella locandina, titolo e sottotitolo della manifestazione svoltasi nella sala teatrale di Sant’Eulalia (“Poesie, parole e ironie cagliaritane”), sullo sfondo del disegno dello storico palazzo Ferraris (oggi De Riso) nella via Baylle, presenta la poetessa/scrittrice che scherzosamente esibisce la prima pagina… farlocca, ma di grafica perfetta, de “Il Manifesto Edizione Straordinaria Lunedì 11 Dicembre 2006” tutta dedicata a lei stessa nel compimento dell’80° compleanno. Un dono dei figli, confezionato in specie da Paolo – medico già al Gaslini e motore oggi di molte imprese di medicina sociale e scrittore a sua volta, nonché collaboratore della sezione “Salute” del quotidiano romano “la Repubblica” – che in un gioco surreale ha, con gusto e spirito ameno, presentato la figura della madre come “ragazza del secolo scorso” sempre verde però. Ché la resa apparente e definitiva, amara dunque, dopo i più duri lutti subiti, sembrava dovesse essere compensata dalla restituzione a lei dei tesori di volontà, creatività ed impegno, che ne avevano fatto un modello da ammirare e da seguire.
Un menabò che è un capolavoro. Il fondino, firmato Paolo Cornaglia Ferraris, rimanda spiritosamente alla Sirenetta, piccolo veliero delle traversate Darsena-Antigori evocato nel libro dei ricordi pubblicato dalle sorelle Ferraris – Claudia e Paola con Franca – , nel 2006. «Riparte la Sirenetta, ma con un piccolo rammarico: tra gli aneddoti raccolti nella pagine delle tre Ferraris, manca proprio quello del tuffo obbligato a recuperare la caffettiera caduta in fondo al mare. Sacra tanto quanto il pacchetto di sigarette per Chicco, tanto da obbligare Claudia ad una accabbussata epica. Ma fu poi vero che riuscì a fare metri su metri in apnea per recuperare l’oggetto tra i minacciosi scogli del fondo?». (Alla sacralità del caffè e del rito del caffè sorseggiato insieme rinvia anche la copertina di un libro curato, in anni lontani, dalla Ferraris Cornaglia con alcune amiche, e di cui dirò: la fraternità consacrata nel rito del caffè deve restare una pratica viva!).
La spalla, con occhiello “il commento”, porta il titolo “Io la conoscevo bene” e la firma di Luigi (Siotto) Pintor. Poche pennellate dal non tempo, pennellate di un tempo vissuto intensamente, come un’avventura, nelle aule quasi perdute di una scuola comunque importante: «Da sempre avrei voluto averla al Liceo di cui sono stato Preside, il Siotto. Ma lei ha preferito il nostro nemico di sempre, il Dettori. L’ha scelto, anche, a costo di insegnare nelle ultime delle sezioni, la H e la I. Non vi dico che cos’erano i suoi alunni…! Di tutto si intendevano, fuorché di letteratura italiana o latina… Di politica forse, di sogni e immaginari, di pomeriggi passati ai collettivi o in assemblea, di cineforum e cenacoli filosofici e calcistici… Però se la ricordano, eccome. Ne ho incontrato una, giunta quassù un po’ troppo in anticipo, che me ne parla spesso, con gli occhi lucidi. Ed anche altri, spesso, li vedo da qui sopra, quando si incontrano, si abbracciano e dopo un po’ si chiedono: “E Franca?”. Ah, se avessimo avuto noi un’insegnante così emozionante, eccitante, erotica…! Ma non ci ha voluto. Ha preferito quegli strani dettorini della sezione H. E se la ricordano. E li ricorda».
Recita così il taglio basso, siglato PCF e titolato “Su portoneddu nieddu”, allusione perfino scoperta al supremo divisore, dono (o dispetto) della natura agli umani: «Compiuti gli 80 anni, diventa da tempo frequente l’implorazione a Nostra Signora per una rapida dipartita. Cieli e mondi lontani da affanni terreni sono quotidianamente invocati. Tali sospiri erano stati condivisi anche da Gino, ma solo sino al ricovero dell’estate 2006, quando il Signore, tanto invocato, si avvicinò un po’ troppo, convinto com’era che fosse arrivato il momento di esaudire l’invocato finale. Visto da vicino però, a Gino parve un interessamento eccessivo. Qualcuno è convinto che vi abbia ripensato un attimo. “Tutto sommato – forse dice tra sé – che fretta c’è?”.
«Non è dello stesso avviso Franca, che invece continua ad invocare la propria dipartita, nella tradizione di casa Ferraris, come appare evidente dalle pagine che gli eredi possono consultare grazie al lavoro dell’Architetto Claudia Cornaglia… L’idea del portoneddu nieddu al fondo [del corridoio, di su passarissu] è stata ripresa recentemente da Battiato, notissimo cantautore, che in una canzone ove afferma senza pena per i depressi che “tutti si dissolverà”, dice testualmente che passare quel portone rappresenta “lo spavento supremo”.
«Non possiamo che essere d’accordo con lui ed allora perché invocare ulteriori spaventi, come se non ne avessimo avuti abbastanza? Su portoneddu, realtà di tutti, resti ben chiuso ancora per un po’, che nessuno ha voglia di guastare la festa della fierezza di donne capaci di laurearsi quando solo ai maschi era consentito, anima viva di un orgoglio in gonnella, che ha saputo sfidare matematici, sposarsi con ex sacerdoti, gestire farmacie, insegnare al liceo e perfino fare il preside a Burcei. Un mondo femminile, che tappezza il corridoio, dominandone colori e forme, sino al ritratto di Isa, la più presente tra gli assenti, nel cuore di chi l’ha conosciuta, tra bizzarrie e immensa generosità».
Is tres sorris. Piccola chiosa che recupera un passaggio dell’editoriale scherzosamente serio del “Manifesto Edizione Straordinaria”. Dico del riferimento al libro memorialistico che ritraccia i quadri d’una infanzia e d’una adolescenza serene e disciplinate, prima degli stravolgimenti della guerra (che avrebbero reso Franca militante della pace, più che del pacifismo, senza se e senza ma). Premettendo che una composizione in versi dal titolo proprio questo “Is tres sorris”, si trova quasi in apertura alla silloge “Su passarissu”.
Scrivo ora per fatto personale. Ebbi da Franca Cornaglia Ferraris – così la firma, secondo la radicata prassi di anteporre il cognome del marito al proprio – il libro “Claudia, Franca e Paola raccontano…”, la copia 167 delle 250 che erano state tirate per una diffusione soltanto fra gli amici delle tre autrici: in amabile ricambio di un mio remoto lavoro sulla Cagliari alziatoriana e dessiana del 1909 (e anch’esso inaugurato da una copertina di un menabò inventato ed irreale), in cui aveva la sua parte un Ferraris, l’incandescente avvocato Giovanni, socialista condannato a cinque anni un mese e dieci giorni per i fatti del maggio 1906, e rimasto a lungo poi senza lavoro… Ne scrissi presto, il 1° maggio 2007, una specie di recensione sul periodico “Chorus”. Ne riporto adesso il breve testo, evidentemente non per il suo (modesto) valore, ma soltanto perché lei, Franca, lo gradì come segno di amicizia in una fase molto tribolata della sua vita. Eccolo.
«”Seus sorris curiosas: cand’è malàdia una / currint is atras duas e balinti po tresi. / Cand’una parturiada spingiant is atras duas / e po pesai is fillus / casi scambian’is tittas…”.
«Tre sorelle colte e garbate, cordiali anzi, raccontano di sé, della loro famiglia, della Cagliari come esse l’avevano vissuta negli anni dell’infanzia, adolescenza e prima giovinezza, nel lento, lentissimo passaggio politico dal “consenso” popolare (e conformista) offerto al regime fino alla “partecipazione” alla repubblica nata democratica, penando per la tragedia della guerra attraverso le fughe dalla città. Fughe – nel surreale dramma collettivo dello sfollamento, esse fra Samassi, Villamar, Mandas ed Ulassai –, alleggerite soltanto dai finali conforti rurali in quel d’Ogliastra. Per metà il loro racconto è affidato al gustoso album fotografico di casa, per l’altra alle parole che zampillano, simpatiche, nella ricostruzione di eventi lontani, ora domestici ora pubblici, di figure ora eminenti della scena cittadina ora di raccordo virtuoso o di originale individualità dentro il circuito familiare, o scolastico, o amicale…
«La casa è in un palazzo – due piani più ammezzato ed attico – all’angolo fra le vie Sardegna e Baylle, nella parte occidentale della Marina, a un passo da una via Roma, col suo rinomato caffè dei Palenzona, ancora saporosa di belle époque. Gli appartamenti sono in combinazione funzionale fra di loro. Dopo i delittuosi bombardamenti altre saranno le coordinate topografiche: via La Vega, quindi viale Merello… Il capofamiglia è un avvocato classe 1891, alerese di nascita, austero e buono (col tempo trasferirà lo studio dal palazzo di famiglia ad uno stabile nuovo costruito dai Picchi nel viale Trieste); la madre, d’origini toscane, ha scelto di realizzarsi nei ruoli di casa (moglie e madre), rinunciando alla carriera di insegnante elementare…
«Eccole Claudia, Franca e Paola Ferraris che raccontano… Raccontano il loro mondo che è stato anche di molti di noi, o che col nostro si è associato per tempi o luoghi, sicché ce ne sentiamo anche noi parte, coprotagonisti sia pure marginali in questo gran teatro sociale che è Cagliari. Una città tutta tesa fra Sant’Avendrace vescovo ed il Poetto delle ricreazioni estive, e i colli e i monumenti, le scuole – le elementari intitolate al Satta e le altre degli altri quartieri, le medie marcate dai numeri cardinali, le superiori con il Dettori in primato d’onore –, il campo della GIL per le gare e il circolo dei Canottieri per i balli, l’università infine nella mezza collina ed a Castello…
«Personaggi, anzi personalità. Ecco l’avvocato Francesco (o Chicco come pur lo si voglia chiamare) con le ombre degli avi – Filippo il padre e Secondo e Giovanni i nonni, e la signora Adele sua madre costretta in vecchiaia alla cattività in su passarissu mannu, e Luigi lo zio impiegato alle Reali, militante dell’ordine dei solitari… –; ecco suo fratello Giovanni il socialista rivoluzionario “rompi-pazienza”, avvocato pure lui ma gloriosamente radiato dall’albo; ecco sua moglie Lina tutta otto-nove-dieci nella pagella della Normale senese ed alla sua prima nomina alle elementari di Siliqua, ecco lo sbarco cagliaritano – due giorni di mare, anno 1911 – dell’intera famiglia toscana agli ordini degli «emancipati e disinvolti» Giovanni capotecnico alle Saline e Angelica maestra di cucito e ricamo… Bel tempo che fu. Ecco le avventure di mare, col kutter a due alberi fra la darsena ed il pontile di Antigori; ecco i primi fuochi dell’innamoramento e la loro gestione clandestina; ecco le famiglie nuove che nascono dalla grazia de is tres sorris.
«Una storia per i figli, i nipoti ed i pronipoti, come potrei ricordarne un’altra, altrettanto (e diversamente) gustosa: quella scritta da Ines Berlinguer Siglienti, sassarese nata e morta mazziniana, resistente antifascista… Ma davvero non soltanto per figli, nipoti e pronipoti. Anche per noi».
Sì, quest’ultimo passaggio mi consente di tornare ad alcune delle circostanze di frequentazione reciproca. La ebbi infatti assidua – lei e il dottor Gino, savio dirigente di banca – alla presentazione dei miei lavori negli anni almeno fra il 1988 e il 1995-96, quando uscirono diversi testi ora di storia municipale ora soprattutto di storia politica nella dimensione dell’antifascismo democratico, repubblicano azionista e sardista (in cui non mancarono di certo le figure femminili come Bastianina Martini Musu o Mariangela Maccioni o Marianna Bussalai, delle quali proposi anche una antologia degli scritti), e dopo ancora.
Ancora ci unì quel filone di ricerca che riguardava la condizione sociale del capoluogo nell’età di Bacaredda, che era anche l’epoca di uscita di quel periodico “La Donna Sarda” alla quale Franca Ferraris Cornaglia aveva cominciato a lavorare insieme con altre colleghe, fra cui la a me carissima Marcella Mocci Serri. Fui contattato per conoscere l’esito di alcune ricerche mirate, condotte sulla stampa della tarda belle époque cagliaritana, che poteva favorire un più adeguato inquadramento di personaggi ed eventi ripresi infatti nelle note introduttive a quel bellissimo reprint …
C’erano poi ad unirci, pur rapsodicamente, San Rocco e la fitta rete di rapporti con don Efisio Spettu e molti dei comunitari, preti e laici…
Operaia del servizio. E’ dal mondo della scuola – la grande dimenticata (e/o maltrattata) di tutti i governi – che vengono fuori, sovente, i talenti più preziosi spendibili, e di fatto spesi, anche in settori della vita civile e sociale distanti da esso. Penso in particolare al volontariato di assistenza, quasi a dare sano midollo di umanità a chi pur vanterebbe molti titoli di dottrina e anche riconoscimenti d’accademia così da potersi dire esentato da altre prove di valore.
E’ stato anche il caso, e non per brevi anni, di Franca Ferraris Cornaglia volontaria dell’Unitalsi, responsabile della sottosezione di Cagliari dopo che collaboratrice alla direzione dei pellegrinaggi dei malati a Lourdes. Un quarto di secolo fa. Per quanto tempo, e prima e dopo, l’incombenza sua è stata quella di preparare i pasti, di pulire gli ambienti! Di viaggiare con i malati, tanto più con gli allettati, sugli irragionevoli traghetti della Tirrenia e poi, da Civitavecchia verso nord, fino ai Pirenei, ventiquattro ore di filato a bordo di un treno a molti vagoni, non meno inospitale ed affaticante, privo di cuccette.
Non solo questo. Perché, come per un filo invisibile, le relazioni umane intrecciate con don Efisio Spettu – che dell’Unitalsi è stato l’assistente religioso e il protettore già dai primi anni ’60 – hanno prodotto per lei altre chiamate in altri campi di impegno. Ancora nella logica della condivisione, della sussidiarietà, della integrazione. Per assorbire marginalità e un vivere difficile. Dal 1978 a San Rocco, nel gruppo dei primi, insieme con personalità esperte e coraggiose, portatrici di novità progettuali nella sequela evangelica, e nella carica ideale e spirituale del Vaticano II.
La storia civile e quella religiosa di Cagliari la racconteranno un giorno l’esperienza complessa, talvolta complicata, della comunità radicatasi in quel pezzo ultimo di Villanova che guarda a Is Stelladas, nel tracciato dei giardini e degli orti della città quale fu quella lasciataci da Bacaredda e passata poi per le forzature dell’urbanizzazione affrettata nelle aree dirimpettaie della Fonsarda. Comunità d’impegno evangelico, di studio e di pratica mossa da un sentimento ecclesiale emancipato però dai canonismi superfetati – o chiamale superfetazioni canoniche – con significato a perdere. E invece tesa, giusto anche per l’esperienza di lavoro e la condizione di vita dei più, a spendersi dentro le aree del bisogno, anche del bisogno dei mondi lontani, dell’America latina o della Palestina. Combinando questo senso partecipativo, come per una mutua legittimazione, alle attività culturali di dibattito, di approfondimento biblico e di conoscenza delle altre elaborazioni spirituali e religiose, dall’Islam al buddismo pacifista del Dalai Lama… Ed attivando una scuola popolare intitolata all’arcivescovo martire Oscar Arnulfo Romero, San Romero d’America, il profetico pastore che conosceva – secondo l’espressione che avremmo udito da papa Francesco – l’odore delle pecore vivendo in mezzo ad esse, né davanti né dietro il gregge affidatogli (e non di sua proprietà). Appunto come doveva avvenire, ed avveniva, in stretta logica intromissiva, nella comunità di San Rocco e di San Romero.
Preside e docente della scuola popolare la professoressa Franca Ferraris Cornaglia. Preside e docente, ma anche più che preside e docente, data la relazione di confidenza – di laboratorio più che di cattedra – con gli allievi già adulti, e magari padri e madri di famiglie pur ancora soltanto in boccio, intenzionati tutti a riprendere gli studi, la fatica dei libri, forse ripartendo dai programmi delle medie per arrivare, passo dopo passo, al diploma e magari alla laurea.
E, ormai a sessanta o settant’anni compiuti, nella continuità temporale di quella militanza distintiva, insieme con l’Unitalsi, con la comunità di San Rocco e con la scuola popolare Monsignor Oscar Arnulfo Romero, con l’impasto anche delle difficoltà, talvolta delle incomprensioni , per scarto di sensibilità soggettive che sono connaturate ad ogni aggregazione sociale, anche altri cimenti. Che valgono anch’essi come testimonianza di una vocazione che è stata, di Franca Ferraris, l’altra faccia della sua umanità, ma ad essa perfettamente coerente: sì, accanto alla cura della famiglia, al rilascio di ogni energia affettiva per il suo Gino ed all’accompagnamento pedagogico dei suoi sette figli, la chiamata alla socializzazione della letteratura, che è riflesso od elaborazione della vita. E, ancora e più miratamente, in tale medesimo contesto, lo sforzo di valorizzare quelle risorse protagoniste considerate invece, in molte circostanze, balordamente, quasi soltanto ancillari, come le traduzioni in scrittura dell’universo femminile. Dell’universo femminile sardo, con le sue proprietà, povertà e ricchezze. Realizzando – così mi è sembrato di capirlo – una sorta di riequilibrio, direi insieme cromatico e formale, saporoso e distintivo, nel gran mosaico delle collaborazioni, del “fare insieme” (appunto come all’Unitalsi, come a San Rocco, come alla scuola popolare)…
Per questo contano qui, e costituiscono ben più che una rassegna ma un intrico invece di relazioni, i nomi belli di Maria Crespellani e Giovanna Puddu, di Mirella Melis e Marcella Mocci, di Maria Luisa Viola, di Laura Pisano e di altre ancora. Eccoli questi nomi entrare nel sodalizio che arricchisce di altre esperienze la colleganza sperimentata per lunghi anni, quella dell’aula scolastica… E’ qui, ancora una volta, lo specifico di Franca Ferraris, direi meglio la specialità oblativa in senso sociale della sua personalità: dico di una personalità formatasi in quella Cagliari che noi di una o due generazioni successive non abbiamo conosciuto, fortunatamente, nelle sue rovine civili e materiali – quelle della dittatura e poi della guerra –, ma neppure, e sfortunatamente, nelle eccellenze di un ordito relazionale vivido nella sua trasversalità di classe e di appartenenza ideologica.
Gli scavi nella scrittura femminile. Bisognerebbe aggiungere altro, per spiegare meglio. Perché se nel 1993 vanno in ristampa anastatica le cinque annate – dal 1898 al 1901 – del mensile “La Donna Sarda”, ecco che da lì deriva un’altra esperienza, un filone nuovo d’impegno di cui si fa luogo e soggetto un’associazione – appunto l’associazione La Donna Sarda – che a casa Cornaglia di via Pessina 87, nello studio e nel soggiorno di una abitazione tutta intelligenza, di gusto borghese e sobriamente bella, fissa la sua sede. E dal gruppo ecco venire, preparato con infinita pazienza negli anni, un regesto prezioso, una di quelle opere di base che gli studiosi considerano una bussola per partire e orientarsi nelle loro ricerche: quel “repertorio bibliografico” intitolato “Donne: due secoli di scrittura femminile in Sardegna, 1775-1950” che nella seconda di copertina, spiegandosi, spiega tutto: «L’auspicio – il catalogo stesso lo dice – è che si sappia e si voglia sapere che, appena le donne cominciarono ad essere istruite, cominciarono anche a scrivere. Questo volume è un frammento di storia della scrittura femminile che si aggiunge ad altri perché si componga sempre meglio il mosaico della storia di tutti». Il che è un altro manifesto inclusivo, un’altra, ennesima dimostrazione di una cifra esistenziale: “partecipazione ed inclusione” potrebbero essere gli assi portanti di questa consapevolezza, in perfetta coerenza con le esperienze della scuola popolare e anche dell’Unitalsi.
Va collocata in tale spazio tematico la curatela, realizzata davvero con intelletto d’amore insieme con le figlie e/o nipoti delle sorelle Mundula – di Mercede, Francesca (Cicita, la pedagogista) e Teresa (la chimica-fisica e naturalista) cioè –, di due opere veramente gustose che appaiono nel catalogo della AMeD Edizioni: la silloge poetica “Bello, bello anche il mondo di quaggiù” – con sottotitolo “Letteratura e poesia nella Cagliari del Novecento” – e “Rude e pensosa era… “, che ripropone lo studio compiuto da Mercede Mundula de “l’opera dell’amica Grazia Deledda” (com’è detto, anche qui, nel sottotitolo). Due piccoli (piccoli?) gioielli, espressivi di intuizioni proprie del genio e dell’abilità comunicativa di autrici diversissime per personalità e vocazione professionale, eppure unificate dalla sensibilità e facondia letteraria; composizioni ora edite ora inedite, il più inedite, ora datate ora senza data, le loro, ma tutte documento di percorsi di vita originali ed irripetibili. Originali ed irripetibili come peraltro sarebbe stato, ed è stato, anche delle tre sorelle Ferraris…
“Bello, bello anche il mondo di quaggiù”, uscito nel 2007, ha associato Franca Ferraris a Maria Crespellani – professoressa per lunghi anni di storia dell’arte –, figlia di Teresa Mundula e di Luigi Crespellani, primo sindaco eletto di Cagliari dopo la guerra e primo presidente della Regione sarda, e dopo ancora senatore della Repubblica, avvocato e anche lui poeta di valore (è di tempi recenti, del 2001, la pubblicazione del suo “Diario poetico e civile”, curato dalle figlie e con contributi di Umberto Allegretti e – bellissimo e documentatissimo – del caro e compianto professor Antonio Romagnino). E non solo a Maria, l’ha associata anche a Giovanna Crespellani che del compendio materno e delle due zie ha steso una piacevolissima (e informatissima) nota introduttiva.
Cittadina della “repubblica Mundula” nelle sue varie declinazioni esperienziali, Franca Ferraris è entrata nella combinazione con una discrezione che, per paradosso, o per contrappasso virtuoso, le vale un monumento. Trovalo il suo nome a corredo di questa o quella scheda!… Non c’è. Come in “Bello, bello anche il mondo di quaggiù” (che è poi anche e prima di tutto il verso conclusivo di una composizione di Francesca Mundula): raccolta di versi che reca una nitida postfazione di Stefano Pira, che ammirato guarda alla scelta repubblicana delle poetesse cattoliche – classiche moderne! – in quel decisivo giugno 1946…
Lo ha ricordato la stessa Maria Crespellani qualche giorno fa, nel reading proposto al teatro di Sant’Eulalia: «Particolarmente interessante e produttivo, oltre che gioioso, è stato il lavoro che in comune abbiamo fatto, prima come ricercatrici del materiale letterario, poi come curatrici, per la pubblicazione dell’opera poetica delle tre sorelle Mundula, che hanno sentito il bisogno di esprimere operativamente le qualità culturali, letterarie, poetiche, nonché pedagogiche, scientifiche e storiche, delle menti femminili in un’epoca in cui la cultura delle donne era mediamente ancora molto arretrata e poco considerata. Con molto piacere e convinzione Franca, già esperta di studi sul lavoro delle donne in Sardegna ha partecipato a quest’opera di studio, scelta degli scritti e organizzazione di tutto il materiale sino alla pubblicazione».
Idem in “Rude e pensosa era…” – ristampa datata 2012 – , che s’apre con una breve ma dotta prefazione di Sandro Maxia e un saggio conclusivo di Monica Biasiolo, e reca come titolo l’incipit di un articolo di Mercede Mundula uscito sulla “Nuova Antologia” nell’agosto 1946, cioè nel decennale della scomparsa della grande scrittrice nuorese, amica ammirata e ricambiata della critica e poetessa cagliaritana. Sì, anche qui, estrapolalo se riesci, e non riesci! il contributo offerto da Franca Ferraris alla curatela condivisa, in spirito di comunione autentica, con Maria Crespellani e Giovanna Puddu… In quella confermata discrezione è la sostanza di un magistero reale e si potrebbe dire che essa invera un altro monumento alla purezza di un servizio reso alla causa della scrittura femminile.
Lingua e limba. Naturaliter bilingue, critica ordinatrice e poetessa in proprio, Franca Ferraris parla e scrive in italiano e in sardo. Padrona dei codici espressivi lessicali e grammaticali dell’italiano – lei docente per tanti anni di lingua e letteratura italiana e di latino – ed insieme competente cultrice della variante campidanese della lingua sarda. Come dimostra fin dal 1981 traducendo, appunto in italiano, alcune “Brevis Lezionis de ostetricia po usu de is llevadoras de su Regnu de su dottori chirurgu collegiali Efis Nonnis supplidori de sa Cattedra de Chirurgia Scrittas po serbiri de norma a s’instruzioni pubblica de is Llevadoras de Casteddu reccumandada a s’autori de su Magistrau de is istudius”. Manuale – dodici lezioni/capitoli per un’ottantina di pagine – stampato in Casteddu nel 1827 e ristampato in anastatica appunto nel 1981 ad iniziativa dell’Università.
A sviluppare una zoomata – che sarà poi insistita e felicissima – sulla lingua sarda ed una possibile produzione poetica nella parlata cagliaritana, e contemporaneamente a rinforzare, se non originare, le ricerche sulla scrittura femminile, è certamente la raccolta “Su passarissu” uscita per i tipi delle Edizioni della Torre nel 1985 (e ancora nel 1989), con un bis non meno gradevole, per i tipi della Stef, nel 1992, quando è apparsa cioè una seconda silloge prefata anche questa come la prima da Mario Ciusa Romagna: “Buttinus e babbuccias”, «binomio serio e giocoso, ironico e drammatico, antinomico», commenta acutamente Ciusa: «metafora vivente di come si procede, o si può procedere, nel “mistero” della vita. Da una parte il destino che ci sovrasta, che può determinare la nostra esistenza e, dall’altra, l’intimità appartata e confidente, che ci riporta alla profondità dei sentimenti, alla rivelazione o coscienza della nostra individualità più riposta. Il silenzio, dentro il raccoglimento, è come un vuoto che si apre. Ma proprio da questa sorta di vuoto e di silenzio affiorano le voci più nitide e significative e, a volte, addirittura compromettenti. La poesia, quando sgorga da simili segreti, è sempre compromissione e trasgressione…».
Può ben dirsi che “Su passarissu” abbia costituito – quasi trent’anni fa – l’atto di ingresso, da autrice s’intende, di Franca Ferraris Cornaglia nella “repubblica delle lettere” (bella espressione che un repubblicano non può che cogliere e rilanciare con sentimento missionario).
A proposito: non devono dimenticarsi le sue esperienze scolastiche, anche le più remote, di docente di materie letterarie che a così qualificati approdi l’hanno preparata. Si pensi alla sua prima cattedra alla Manno, alla Spano (al tempo alle scalette di Sant’Antonio), quindi a Burcei prima di approdare, nuovamente a Cagliari, nell’organico del liceo Dettori. Fu esattamente nell’anno scolastico 1971-72 ch’ella venne distaccata, come preside incaricata, presso la scuola media statale di Burcei. Davvero un altro mondo: non soltanto per la realtà paesana così diversa da quella urbana conosciuta (e piuttosto si trattò di un ritorno, seppure senza l’emergenza del tempo, agli ambienti rurali praticati da ragazza nello sfollamento bellico) ma proprio per l’ordinamento inconfrontabile con quello d’oggi, se è vero che quella scuola è attualmente assorbita, per impoverite dinamiche demografiche e razionalizzazione dei costi, nell’istituto comprensivo che ha i comandi a Maracalagonis…
Scrivere in sardo, in campidanese, in cagliaritano. Osserva Ciusa Romagna nella sua prefazione (datata, ripeto, 1985): «Non è casuale il risveglio letterario in lingua sarda verificatosi in questi ultimi tempi. Il legame con la “questione” e le sue implicanze, culturali e politiche, è evidente. La Cornaglia Ferraris è dentro questa dimensione. La scelta del dialetto cagliaritano si pone come impegno. Perciò cala la sua ispirazione nella popolarità viva dell’ambiente, che le è congeniale. Viene dall’area colta, come, d’altronde, buona parte degli attuali operatori in “limba”. E’ di estrazione borghese. Ha seguito studi classici ed ha conseguito la laurea in lettere. Nello stretto ambito della famiglia ha parlato sempre italiano. La madre veniva, addirittura, [dalla] Toscana.
«Tutto ciò sembrerebbe in contrasto con la scelta del linguaggio, avvalorerebbe l’intenzione del gioco, del divertimento poetico. E’ vero: lei dice di aver cominciato quasi per scherzo. Ma poi ci ripensa. Ritorna sull’affermazione. Le si spegne sulla labbra il sorriso. Il gioco, non lo dice ma accetta che altri glielo dicano, si è fatto serio. Anzi è stato serio fin dal primo momento. Perché è scaturito da una profonda moralità, dalla convinzione cristiana di dover dare e di essere con gli altri. Certi concetti possono esprimersi anche con apparente noncuranza, con sapidità umorosa, con leggera ironia. Ma ciò non toglie che nell’intimo si agita un complesso di sentimenti tutt’altro che occasionale. Anzi si potrebbe subito affermare che siamo di fronte ad una larga mediazione, condotta da tempo, sulla vita e sugli scopi che la regolano. Può darsi che per questo, per un innato pudore a rivelarsi del tutto, la poetessa preferisca nascondersi sotto il velo della immediatezza giocosa. Può darsi. Il fatto è che i due elementi si fanno stile e spiegano a sufficienza la scelta del dialetto. Tanto è vero che la ripresa del cagliaritano le dà la possibilità delle alternanze da uno stato d’animo all’altro, dalla contemplazione descrittiva al dialogo rapido, alla espansione di una saggezza filtrata dai secoli e perciò concisa e ferma. Tutto pare sia alimentato dal senso comune, si svolga naturalmente, come si trattasse di fatti e riflessioni estemporanee. Ma non è così…».
E più oltre, come punto centrale dell’analisi, della lettura critica: «Il susseguirsi delle immagini, i riferimenti alle persone di famiglia e a quelle che ha incontrato o incontra nelle vie della città sono giudizi, modulati con ritmi sofferti. Il supporto lirico di questo linguaggio tra pianto e riso è nella costatazione che la vita, in quanto fugacità, va utilizzata intensamente».
La memoria come immanenza del passato nel presente. Ad offrire «la chiave di lettura senza equivoci» dell’intera raccolta è la metafora di «su passarissu». «Su passarissu – scrive Ciusa Romagna – è il corridoio della vita che ogni uomo dovrà necessariamente percorrere. In fondo c’è un portoncino scuro che si apre alla conclusione del percorso. Si apre ed attrae ognuno nel fondo dell’eternità. L’allegoria è chiara. Ed è pur evidente che discende dalla concezione cristiana della “peregrinatio” o, se si vuole, della poesia romantica. E, nel caso, niente di nuovo. Ma l’originalità di questo componimento è nella valenza metaforica e iconica delle immagini. Perché proprio dalle immagini […] balza la componente memoriale, il rapporto esistenziale tra il passato ed il presente, tra gli uomini e la ineluttabilità della morte».
Così dunque Mario Ciusa Romagna. Verrebbe da concluderne: tutto ciò che in quella produzione poetica ha visto un critico del valore del professore nuorese ritorna, direi pari pari, nelle considerazioni che ho sopra cercato di esprimere con qualche ordine, e che pur mi sono venute spontanee conoscendo le carte e chi le ha compilate – si pensi alla “peregrinatio”, al pellegrinaggio Unitalsi. O che si sono affacciate nelle sapide righe incolonnate da Paolo Cornaglia sul suo “Manifesto” farlocco (magistralmente farlocco s’intende) o nelle competenti ed efficaci testimonianze rese domenica scorsa, a Sant’Eulalia, da Tito Aresu e Marco Lai e Maria Crespellani…
«Il linguaggio si distende o si affretta, punta su un particolare o si innalza alla visione del tutto – osserva Ciusa Romagna –. Si tratta di una prova da cui è possibile rilevare le infinite pieghe che possiede il dialetto, le dolci e assorte sfumature. Inoltre traspare lucida, da questi versi, la personalità della poetessa, dei suoi due livelli, l’uno apparente e l’altro intimo […]. La contemplazione della morte, perciò, assurge a pensiero dominante. Regge non solo la vita, ma la ragione stessa del poetare come espressione dell’intimità più segreta. E’ la morte che regola o dovrebbe regolare la vita. La morte come vita, in altri termini, e la vita come impegno verso i propri cari e la società».
In ultima istanza, «La poesia della Cornaglia Ferraris può anche divertire; il suo modo di comporre, il lessico variegato, pieno d’ombre e illuminazioni, possono distendere l’anima, ma ciò che rimane poi, nella coscienza del lettore, è la grande visione della vita e della morte». Sì, qui è tutto. «Vale la pena ripeterlo. Perché di qui discende anche il rapporto con la natura, col cielo e il mare, con la città e la ricchezza della gente. Si avverte, al proposito, quasi un odore di salmastro, un odore confidenziale, che è respiro e sentimento, dedizione e amore. Sembra che ogni cosa esca dallo scrigno delle memorie. Ma le memorie, sono la costante immanenza del passato nel presente; sono perenne dialettica tra la “durata”interiore del soggetto e la quotidianità esterna».
Chi ha conosciuto Franca Ferraris Cornaglia e il suo spirito libero e giusto, chi l’ha conosciuta nelle prove terribili che ha dovuto affrontare nella sua vita e l’ha anche conosciuta in quell’enorme potenziale di generosità che lei ha avuto la “sapientia cordis” di tradurre in realtà quotidiana ovunque abbia operato, sa soltanto una cosa: di lei e di sé. Che si sarebbe, che si è presentato volontario per toglierle un peso ed assumerselo lui, addosso, Cireneo. Cireneo volontario, non precettato.