La generazione perduta, di Gianni Mula
La disuguaglianza, oggi – 2
Negli Stati Uniti i nati negli ultimi due decenni del secolo scorso sono spesso chiamati millennials. Sono anche noti come “generazione perduta” perché, a causa dell’attuale crisi occupazionale, non saranno in grado di competere sul mercato del lavoro con le generazioni successive. La prima metà, quella dei nati negli anni ’80, ha già subito duramente gli effetti della crisi economica. Il futuro che aspetta i nati negli anni ’90 sembra, secondol’editoriale del 13 aprile del New York Times, quello di «iniziare a lavorare con la prospettiva di far meno carriera, e guadagnare meno della generazione precedente, per tutta la vita». Per di più con un’alta probabilità di trovarsi senza tutele e a rischio di povertà da adulti e da anziani. Di fronte a una simile situazione, che oltretutto riguarda la generazione più istruita nella storia americana (più di un terzo con un titolo universitario), è stupefacente, scrive sempre il New York Times, «che non siano stati aumentati i fondi pubblici per prevenire e invertire un così colossale spreco di capitale umano. E che per di più siano stati dati in ritardo e in quantità insufficiente anche i normali fondi per favorire la creazione di posti di lavoro e per le indennità di disoccupazione».
Questo disinteresse per la condizione dei giovani è presente anche in Inghilterra (vedi quest’articolo di Enrico Franceschini suRepubblica) e in Italia (vedi un analogo studio che spiega che la crisi si è tradotta per i giovani italiani in posti di lavoro più scarsi e meno sicuri, con un tasso di disoccupazione giovanile che nel quinquennio 2007-2012 è letteralmente esploso, superando un terzo della forza-lavoro disponibile).
È quindi un fatto che in questi tre paesi ad avanzato sviluppo economico viene negato alla gran parte dei giovani di questa generazione il diritto fondamentale a una vita indipendente. In pratica solo chi può contare su un robusto supporto economico da parte della famiglia di origine può permettersi di metter su una nuova famiglia. Per capire come una civiltà tecnologicamente avanzata come quella occidentale possa trovarsi indifesa di fronte a questo autentico disastro sociale capita a proposito ilcomunicato stampa diramato dal CENSIS il 3 maggio, subito riportato da tutta la stampa. Da esso si ricava che:
1) Il patrimonio finanziario (escluso cioè il valore degli immobili) dei dieci italiani più ricchi è di 75 miliardi di euro, in media 7,5 miliardi di euro per ciascuno; quello dei 2mila italiani più ricchi ammonta a 169 miliardi di euro, in media 85 milioni di euro per ciascuno. Le cifre corrispondenti per tutti gli altri italiani sono circa 3600 miliardi per il patrimonio finanziario totale e 60mila euro per quello medio pro-capite. Vale a dire che il patrimonio medio pro-capite dei dieci italiani più ricchi è oltre centomila volte quello di tutti gli altri, e quello dei duemila più ricchi oltre mille volte.
2) L’uno per cento a più alto reddito dei contribuenti italiani ha dichiarato per il 2012 un reddito netto annuo totale di oltre 42 miliardi di euro, con una media pro-capite sopra i 102mila euro, più di sei volte la media del reddito netto dichiarato da tutti gli altri (che è poco meno di 15mila euro). Sulla base di questi dati si può stimare[1] in 120 miliardi di euro il patrimonio finanziario totale dei 400mila italiani più ricchi, per un valor medio pro-capite di 300mila euro, 5 volte superiore a quello di tutti gli altri.
3) Dal 2008 a oggi, cioè per tutta la crisi, la quota di reddito finita a questi 400mila italiani è rimasta sostanzialmente stabile.
Questi dati ci dimostrano anzitutto che l’1% degli italiani più ricchi non si è neanche accorto delle misure di austerità, cosa non sorprendente visto che la disponibilità media di risorse finanziarie di questo gruppo è 5 volte superiore a quella degli altri italiani. Se poi teniamo conto del fatto che mediamente il valore complessivo degli immobili è equivalente a quello delle attività finanziarie possiamo concludere che il patrimonio complessivo (finanziario + immobiliare) medio pro-capite dell’uno per cento degli italiani è di dieci volte, cioè di un ordine di grandezza, superiore a quello di tutti gli altri.
Un livello così alto di disuguaglianza non è tollerabile a lungo da un sistema democratico che voglia conservarsi tale perché crea un’insanabile contrapposizione di linguaggio e di interessi tra l’uno per cento dei più ricchi e tutti gli altri. In Italia questa contrapposizione è diventata evidente da quando le ideologie del libero mercato, della globalizzazione e della competitività hanno occupato ogni spazio del dibattito politico e hanno convinto la gran parte dell’opinione pubblica che segue le vicende della politica che c’è solo un modo di far funzionare al meglio l’economia, che questo modo è quello di lasciar fare al mercato, e pazienza se qualcuno si ritroverà senza assistenza sanitaria, senza una pensione decente, ecc.
In qualche modo siamo andati avanti, pur con un sistema democratico in grave crisi. Oggi però, davanti all’evidenza del disastro sociale dello spreco delle possibilità di un’intera generazione, ci viene richiesto di non fare praticamente niente: sia per non violare i patti con l’Europa che per non metter in pericolo la fiducia dei mercati. Pertanto non ci resterebbe altro che fare tutti insieme i sacrifici che il mercato ci richiede. Ma che senso ha fare sacrifici per superare insieme la crisi se farlo significa distruggere le speranze e la vita di un’intera generazione? Come si fa ad ascoltare senza indignarsi prediche dotte sulla necessità che tutti facciano sacrifici per superare la crisi se contemporaneamente si esclude, “per senso di responsabilità”, l’applicazione di una tassa patrimoniale?
Per avere un’idea dell’ordine di grandezza delle cifre in gioco si consideri che dai dati del CENSIS si ricava che tassare all’1% la ricchezza finanziaria degli italiani darebbe poco meno di 40 miliardi di euro. Cioè i proventi di una tassa patrimoniale dell’1% sarebbero quasi sei volte l’intera manovra finanziaria del governo Renzi per il famoso bonus degli 80 euro mensili in busta paga per 10 milioni di italiani (6,7 miliardi). Con due ulteriori impagabili vantaggi: il primo che sarebbero strutturali, perché un prelievo annuo dell’1% è troppo basso per far danni all’economia; il secondo è che, per diminuire le prevedibili proteste, si potrebbe perfino scegliere di applicarlo nella forma di prestito forzoso, cioè di acquisto obbligatorio di titoli di Stato senza interesse.
Sulla base dei dati CENSIS un prelievo dell’1% sulla ricchezza finanziaria (cioè su fondi comuni, azioni, obbligazioni ecc. ) corrisponderebbe in media a seicento euro pro-capite, ma i dieci contribuenti più ricchi sborserebbero in media 75 milioni di euro per ciascuno. Può sembrare un esborso pesante, ma si ricordi che sarebbe chiesto a soggetti che rimarrebbero in possesso del 99% del proprio patrimonio e quindi il loro sarebbe un sacrificio molto meno pesante di quelli di un capo-famiglia disoccupato per metter insieme il pranzo con la cena. Naturalmente Berlusconi ha espresso subito il suo disaccordo lanciando questa bordata alla manifestazione di Forza Italia a Bari (in videoconferenza da Arcore): “Abbiamo scoperto che la sinistra pensa a una patrimoniale di 400 miliardi, cioè il 10 per cento dei risparmi degli italiani“. È chiaro che i 400 miliardi corrispondono all’ordine di grandezza dei proventi che ci si può aspettare, sulla base dei dati CENSIS, da una tassa una tantum del 10% sul patrimonio finanziario. Una tassa annuale dell’1% per dieci anni mi parrebbe di gran lunga preferibile, ma anche quest’altra ipotesi dimostra che a volerli cercare davvero i soldi per gli 80 euro in busta paga si possono trovare senza inventarsi partite di giro tra coloro che hanno di meno.
Una risposta un po’ più articolata al comunicato CENSIS la si trova invece nell’intervista rilasciata a Giovanni Pons di Repubblica da Patrizio Bertelli (amministratore delegato del gruppo Prada). Bertelli è uno di quei dieci imprenditori italiani che il CENSIS ha catalogato tra i più ricchi e che presi nel loro insieme formano un patrimonio che vale quello di quasi 500 mila famiglie operaie. Ecco cosa dice Bertelli sul comunicato: «Non mi piace l’etichetta di Paperone, noi siamo degli industriali che operano in vari settori dell’economia reale, che andiamo a lavorare anche il sabato e che diamo lavoro a migliaia di persone. È sbagliato demonizzare e dare un connotato negativo a chi crea ricchezza, benessere e posti di lavoro … il vero problema che rende i prodotti italiani meno competitivi risiede proprio nel cosiddetto “cuneo fiscale” più ampio che negli altri paesi industrializzati…. non si tratta di abbassare gli stipendi dei lavoratori ma di ridurre la differenza tra il costo complessivo per l’azienda e ciò che va in tasca al lavoratore. C’è un prelievo alla fonte troppo alto per pensioni e contributi e questo disequilibrio va sanato al più presto … non posso pensare che non ci sia spazio per tagliare di un 10% le spese inutili della sanità o della pubblica amministrazione o per ridurre i costi della burocrazia. Bisogna aumentare i ricavi e ridurre i costi, come in tutte le aziende».
Insomma, sembra dire Bertelli, io creo ricchezza, benessere e lavoro per migliaia di persone, vado perfino a lavorare anche il sabato, se poi ci sono problemi perché i giovani non trovano lavoro non è colpa mia ma delle assicurazioni sociali che costano troppo. Meglio ridurle, o abolirle del tutto, e allora potrò, forse, anche aumentare lo stipendio ai lavoratori. Lui veramente ha detto non abbassare, ma non stiamo a sottilizzare di fronte a tanto sforzo …
Non credo che si potrebbe spiegare con maggior chiarezza la differenza tra parlare di disuguaglianza e disuguaglianze: anche Bertelli vuole diminuire le disuguaglianze, e poiché per lui lo Stato è un’azienda come tutte le altre offre un esempio concreto di come si potrebbe farlo riducendo il cuneo fiscale. Se poi far questo significa bloccare i lavoratori in condizioni di precarietà e indigenza (magari costringendoli per non morir di fame a lavorare non solo il sabato ma anche la domenica) non è un suo problema. È evidente che Bertelli parla una lingua diversa da quella delle persone che appartengono al 99%.
Parlare di disuguaglianza vuol dire invece considerare lo Stato non come un’azienda che deve competere con altre ma come il risultato di un patto sociale. Sinora avevamo pensato che un aumento del prodotto interno lordo di una nazione avrebbe automaticamente significato il progresso anche degli strati di popolazione meno abbienti. E l’avevamo anche creduto con una fede più salda di quella in qualunque delle nostre altre convinzioni, religiose, o agnostiche, o atee. Purtroppo ora è evidente che quest’automatismo non esiste, e non è mai esistito. La crisi del progetto moderno non è altro che il crollo della fiducia cieca nel progresso. Questa crisi economica è una dimostrazione plastica che il progresso non è automatico. Un futuro migliore per questa generazione che sta per perdersi ci può ancora essere, ma dovremo davvero tutti assieme provare a costruirlo, senza nasconderci dietro leggi economiche valide solo in un mondo ideale.
Come provare a costruire un futuro migliore è appunto il tema del prossimo post di questa serie che avrà il titolo: Il caso Piketty.
[1] Come mostrato in T. Piketty - Capital in the XXI century – Introduction – ponendo ß = 6 e supponendo il patrimonio totale composto in parti uguali da una parte finanziaria e da un’altra costituita da immobili.