La disuguaglianza, oggi – 1, di Gianni Mula

Disuguaglianza o disuguaglianze?


Oggi è di moda parlare della disuguaglianza, soprattutto da quando il presidente Obama ha affermato di considerarla la sfida decisiva per il nostro tempo. Ma solo pochi si rendono conto della natura e dell’ampiezza di questa sfida. Meno ancora sono quelli che ritengono importante il ruolo che la disuguaglianza svolge nella crisi economica che stiamo attraversando. La disuguaglianza, non le disuguaglianze.

Per la gran maggioranza dell’opinione pubblica è invece chiaro che le disuguaglianze rendono le cose più difficili per le famiglie più povere, e che una vera uscita dalla crisi si avrà solo tornando alla crescita. Questo è certamente vero, ma detto così implica che la crisi ci è caduta addosso come un incidente di percorso, senza colpa di nessuno, presumibilmente a causa della globalizzazione. E che, come la globalizzazione, anche le disuguaglianze sono inevitabili, per cui è inutile cercare colpevoli: si può cercare di limitare i danni, per quello che si può, ma soprattutto si tratta di riprendere al più presto il cammino interrotto.

In realtà questa assoluzione generale preventiva non è proprio convincente. Negli USA (ma non è che in Europa le cose siano molto diverse) l’1% degli americani più ricchi non solo è stato aiutato in maniera rilevante dallo stato (col salvataggio delle banche a spese del contribuente) ma ai primi segni di ripresa economica è stato rapidissimo a mettersi in tasca quasi tutto (il 95%) l’aumento del reddito dell’intera nazione. Ce n’è abbastanza per pensare che l’attuale sistema economico, che pure si dice ispirato ai princìpi del libero mercato, in realtà ne favorisca pesantemente i prìncipi, cioè coloro che sono già molto più ricchi degli altri. D’accordo, questa è solo una battuta, ma che negli ultimi trent’anni sia avvenuto uno smisurato arricchimento di pochi, bravi o fortunati che siano stati, è un fatto innegabile. Mentre che quest’arricchimento sia stato la causa dell’incertezza sul futuro che oggi segna la vita dei tanti che non ci sono riusciti è solo un sospetto. Però un sospetto che, a giudicare dalla conclusione dell’articolo a firma Floyd Norris, pubblicato in prima pagina della sezione economica del New York Times il 18 aprile 2014, sta diventando una certezza:

«Se il parlamento decidesse mai di occuparsi seriamente degli introiti fiscali necessari per far fronte alle leggi di spesa che approva potrebbe dover ridurre, o eliminare completamente, il grande vantaggio fiscale che l’attuale sistema dà ai redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro. Eliminarlo vorrebbe dire che i grandi manager pagherebbero finalmente le tasse come il resto di noi, visto che attualmente pagano molto di meno perché è loro consentito classificare come redditi da capitale e non da lavoro gli stipendi che si auto-assegnano. … Sarebbe l’inizio di una politica fiscale che non si accanisce più contro coloro che devono lavorare per vivere perché non godono di dividendi o di altri redditi da capitale».

Norris non è un irriducibile veterocomunista ma un molto autorevole e rispettato commentatore economico del NyTimes. La sua analisi spiega in maniera convincente perché e come, da Reagan in poi, il sistema fiscale americano è squilibrato a favore dell’1% più ricco dei cittadini americani. Ma che si esprima in questi termini su quello che è probabilmente il quotidiano più influente del mondo ci dice qualcosa di altro e di importante. Ci dice che la preferenza sistematica per i super-ricchi a danno delle persone ordinarie è un fatto noto a tutti coloro che non vogliono ignorarlo. E che in quanto tale genera una crisi sistemica perché viola in maniera evidente il fondamentale principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

Prima di trarre conclusioni da un fatto così sorprendente conviene cercare conferme indipendenti. Una prima conferma la si trova subito nella recente analisi della crisi della rappresentanza politica fatta dallo storico delle dottrine politiche Marco Revelli[1]. Per Revelli il sistema della rappresentanza politica è entrato in crisi quando un’oligarchia, di fatto libera dai vincoli economici, di spazio e di tempo che condizionano la vita delle persone comuni, si è sentita tanto onnipotente da «aggredire il livello dell’eguaglianza formale, il set di di diritti civili e politici costitutivi della sfera giuridico-politica moderna e, a tutti gli effetti, fondanti del progetto politico moderno». In particolare il principio fondamentale «dell’uguaglianza (politica) come destino», uguaglianza da intendersi come principio di equità e non come richiesta di uniformità a tutti i costi. Troviamo di nuovo, in un contesto diverso, una crisi sistemica generata dalla fine «della dinamica egualitaria che aveva caratterizzato la modernità politica fin dalla sua origine». In termini un po’ meno accademici diremmo che senza l’uguaglianza come principio non esiste democrazia.

Un’ulteriore conferma possiamo trovarla nelle opere di Zygmunt Bauman, il filosofo e sociologo anglo-polacco famoso per i suoi studi sugli effetti della globalizzazione. Per Bauman[2] i governi nazionali hanno di fatto perso la gestione locale dei problemi del lavoro a favore di forze globalizzate come quelle militari ed economiche, ma anche criminali, contro cui da singoli Stati non è possibile prendere misure efficaci. In tal modo si è generata una contraddizione insanabile tra il diritto di tutti i cittadini al lavoro e alla dignità e l’incapacità strutturale dei governi nazionali di garantire quel diritto. Di nuovo emerge la crisi del progetto moderno di un mondo di uguali, nel senso di un mondo in cui tutti godono ugualmente della pienezza dei diritti umani.

Tutte e tre queste analisi concordano, pur da differenti punti di vista, nel ritenere che la crisi economica derivi da una crisi del concetto di uguaglianza. È l’esistenza di quest’ultima crisi che fa sì che parlare di disuguaglianza al singolare non sia la stessa cosa che parlarne al plurale. Perché al singolare esprime la consapevolezza dell’esistenza di una crisi del concetto di uguaglianza, e della necessità di tenerne conto, al plurale significa ridurre il problema a una serie di questioni banali o ignorarlo del tutto. È in fondo la stessa difficoltà segnalata da John Kenneth Galbraith[3], uno dei più profondi pensatori economici del XX secolo, con la sua famosa frase: «Il capitalismo è lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, il comunismo è il viceversa». Con essa Galbraith non intendeva certo dire che capitalismo e comunismo sono uguali, ma che in tutti e due i casi i problemi particolari dipendono dal contesto. Ad esempio i rimedi a problemi come inefficienza e corruzione, che derivano dai limiti della natura umana, non possono essere mai stabiliti una volta per tutte, tanto meno solo in base alla scelta di quale settore privilegiare tra pubblico e privato.

Pertanto limitarsi a parlare di disuguaglianze specifiche significa costringersi a rimanere all’interno del progetto moderno, cioè all’interno di un quadro concettuale di cui si sceglie di non vedere la crisi. E quindi non rendersi conto che quando le disuguaglianze uccidono (cosa che capita tutti i giorni[4]) è ipocrita chiamare “senso di responsabilità” il far finta di non vedere, o nascondersi dietro scuse quali “è la legge del mercato”, o “non toccava a me intervenire”.

Parlare di disuguaglianza significa invece cogliere l’elemento comune a queste analisi: questa crisi economica è la crisi del progetto moderno, cioè dell’idea, tremendamente ingenua se guardata con gli occhi di oggi, che una democrazia liberale avrebbe automaticamente saputo coniugare il progresso tecnologico con quello della dignità umana. Se questa speranza si fosse davvero realizzata saremmo arrivati, come dice Francis Fukuyama[5], alla fine della storia. Purtroppo, o fortunatamente, non ogni problema può essere banalmente risolto applicando etichette formali, vuote di contenuto proprio, come pubblico o privato. Quindi la storia non è finita e ciascuno di noi è chiamato a ri-costruire con le proprie scelte, sulle macerie del moderno, il mondo che vorrebbe lasciare a coloro che verranno dopo di noi.

Per una discussione delle possibilità che si presentano a partire da questa interpretazione rinvio al secondo post di questa serie che avrà il titolo: La generazione perduta.

Gianni Mula


[1] Marco Revelli - Post-sinistraCosa resta della politica in un mondo globalizzato. Laterza 2014

[2] Dall’intervento al Festival Uguali-Diversi, Novellara (RE),pubblicato in Il buio del Postmoderno – Aliberti 2011

[3] John K. Galbraith - A Life in Our Times – Ballantine Books, 1982, pag. 352

[4] Vedere ad es. Pierluigi Di Piazza - Compagni di stradaIn cammino nella Chiesa della speranza – Laterza 2014, pagg. 111 e seguenti.

[5]Francis Fukuyama - La fine della storia e l’ultimo uomo – Rizzoli 2003

Martedì 29 Aprile,2014 Ore: 19:53

 

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