Le radici profonde della “Recessione in Italia”, di FEDERICO FUBINI
Anticipiamo un brano del libro di Federico Fubini in edicola. LA REPUBBLICA 17 aprile 2014
La storia a volte entra nelle rapide e allora tutto può succedere: si può finire contro le pietre, sul fondo di una cascata, o semplicemente si può arrivare alla foce prima e meglio. L’Italia da qualche anno è esattamente qui, nelle rapide. Il ritmo è così vertiginoso che non solo è difficile prevedere il punto di arrivo, ma anche semplicemente rendersi conto di cosa sia appena successo. E perché.
Questa in fondo è la domanda che pesa sul Paese da qualche anno: perché proprio noi? E perché adesso? Ad accezione della sola Grecia, non c’è un Paese che sia stato colpito così duramente come l’Italia dalla crisi finanziaria, economica e istituzionale della zona euro. (…) Questo ci obbliga a fare un passo indietro per capire se c’è qualcosa, nella storia italiana recente o meno recente, che spieghi la debolezza della performance di un’economia che resta il secondo produttore manifatturiero d’Europa e il quinto o sesto del mondo.
Uno storico dell’economia di Oxford, l’italiano Andrea Boltho, si è interrogato su questo punto. In particolare, ha seguito il percorso dei tre paesi dell’Asse, Roma-Berlino-Tokyo, usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale e ha guardato più da vicino analogie e differenze nella loro evoluzione. La prima constatazione che ne emerge è che il rallentamento dei tassi di crescita in Italia non è un fenomeno solo degli ultimi cinque, dieci o quindici anni e non è legato a qualche manovra finanziaria all’insegna dell’austerità.
Questo rallentamento è una tendenza che viene da lontano. Ecco la sequenza della crescita del Pil per abitante dell’Italia nei vari periodi dalla fine della seconda guerra mondiale: nella fase 1946-1953 il prodotto lordo pro capite è cresciuto in media dell’8,5% l’anno, in buona parte grazie alla ricostruzione rapida delle infrastrutture materiali del paese dopo la guerra. (…) In seguito, nella fase 1953-1973, gli anni precedenti il primo choc petrolifero, la crescita media per abitante era stata del 5,1% l’anno. Dal 1973 al 1995 – cioè dal primo choc petrolifero fino al riassorbimento della crisi finanziaria che segnò l’espulsione della lira dallo Sme – l’andamento rallenta ancora al 2,3%. Fino a questo momento, però, il comportamento dell’Italia non è fuori linea con quello degli altri due paesi usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale ed è sostanzialmente in linea, fino al 1995, con quello del resto dell’area Ocse.
Dove la divergenza italiana emerge in modo sempre più evidente è nella fase dal 1995 in poi. Da allora al 2011, il tasso di crescita per abitante è di appena lo 0,5% (sarebbe ancora più basso, se si contassero anche il 2012 e il 2013). È il risultato più deludente di tutti i paesi avanzati. (…)
Questi dati suggeriscono alcune constatazioni. La più ovvia è che il declino, sempre più serio e ancora in atto, della capacità italiana di sviluppare crescita economica è in corso da decenni. Esso dunque non dipende dall’euro, perché è preesistente. E non dipende neppure dalla cosiddetta austerità, cioè dal tentativo di tenere i conti in ordine per evitare un default, perché l’erosione sempre maggiore dei tassi di crescita è una costante che attraversa ogni stagione: quella dei deficit in aumento fino a oltre il 12% del prodotto interno lordo, tanto quanto quella delle fasi di risanamento. Spesso le critiche all’austerità sono state un alibi dietro il quale si sono nascosti politici privi del coraggio necessario per affrontare le radici profonde del malessere del paese. (…)
C’è un’anomalia o una particolarità nazionale.
Secondo Andrea Boltho, essa discende in linea diretta dal periodo della ricostruzione immediatamente dopo la guerra. L’economista di Oxford sostiene che nel primo decennio dopo la vittoria anglo-americana le tre (ex) potenze dell’Asse sono state oggetto di trattamenti e indicazioni fra loro diversi da parte degli Alleati. (…) In Germania e in Giappone, su stretta supervisione americana, fu creata una forte autorità Antitrust, furono repressi severamente i cartelli industriali, fu cambiato il top management delle grandi imprese e, nel casonipponico, fu sottratto a un certo numero ristretto di dinastie industriali il controllo dei grandi conglomerati.
Al contrario, in Italia l’autorità Antitrust rimase virtualmente inesistente fino al principio degli anni ’90 e la holding di Stato Iri, creata durante la Grande Depressione, restò tal quale, praticamente con lo stesso top management che aveva avuto durante il regime. Del fascismo rimase in piedi anche la struttura essenziale dello Stato corporativo.