LETTERATURA E CIVILTA’ DELLA SARDEGNA, di Francesco Casula

Convegno presso la sala settecentesca della Biblioteca Universitaria di Cagliari,  SABATO  12  aprile 2014, a partire dalle ore 9,30. Presentano l’opera: BACHISIO BANDINU, GIULIO ANGIONI, GIACOMO MAMELI, PIERO MARCIALIS. Coordina:  SALVATORE CUBEDDU. Di seguito pubblichiamo l’introduzione.


INTRODUZIONE alla Letteratura e civiltà della Sardegna, di Francesco Casula

E’ esistita una Letteratura e una Civiltà sarda? C’è chi lo nega. Alcuni dubitano perfino che la Sardegna abbia avuto una storia tout court. Emilio Lussu ha scritto che noi non abbiamo avuto una storia. La nostra storia è quella di Roma, di Aragona ecc. Lo storico francese Le Roy Ladurie ha sostenuto che la Sardegna giace in un angolo morto della storia. Francesco Masala, il nostro più grande poeta etnico, parla di storia dei vinti perché i vinti non hanno storia. Fernand Braudel, il grande storico francese, direttore della rivista “Annales” che rivoluzionerà la storiografia contemporanea, alludendo ad alcuni popoli mediterranei, fors’anche all’Isola, ammette che la loro storia sta nel non averne e non si discosta molto da questa linea raccontando che viaggiare nel mediterraneo significa incontrare il mondo romano nel Libano e la preistoria in Sardegna.

Il mestiere dello storico di cose sarde, diventa difficile senza dubbio. Ad accrescere le difficoltà interviene il veto contro la preistoria. I Comportamenti preistorici, su cui la civiltà ha posto un veto, hanno condotto un’esistenza sotterranea, osservano i filosofi tedeschi Max Horkheimer e Theodor Adorno, che aggiungono: il ricordo vivo della preistoria è stato estirpato dalla coscienza degli uomini, in tutti i millenni con le pene più tremende.

La Biblioteca del Quotidiano Repubblica, nel 2005 ha pubblicato e diffuso a migliaia di copie un volume di 800 pagine sulla preistoria nel quale nuraghi e Sardegna non vengono citati, neppure per errore. Un’occasione mancata per la cultura italiana che pur pretende, – e con quale spocchia- di dominare sull’Isola. Per contro, uno dei redattori più influenti del quotidiano romano, Sergio Frau, da tempo sostiene, producendo una grande messe di indizi e di prove, che al tempo dei nuraghi la Sardegna altro non era se non Atlantide. La tesi, se verificata fino in fondo, sconvolgerebbe la storia del Mediterraneo così come la conosciamo; anche per questo è avversata con veemenza da accademici, sovrintendenti, geologi e antropologi (soprattutto sardi), poco disposti a mettere in discussione se stessi e le certezze su cui hanno fondato carriere e fortune. E’ la stessa veemenza usata nel passato contro il dilettante scopritore di Troia, anch’essa come Atlantide considerata un semplice “mito”.

Se il Quotidiano “La Repubblica” ha compiuto un semplice peccato di omissione, qualcuno ha fatto di peggio: certo Gustavo Jourdan, uomo d‘affari francese, deluso per non essere riuscito dopo un anno di soggiorno in Sardegna, a coltivare gli asfodeli per ottenerne alcool, in “l’Ile de Sardaigne” (1861) parla della Sardegna rimasta ribelle alla legge del progresso, terra di barbarie in seno alla civiltà che non ha assimilato dai suoi dominatori altro che i loro vizi.

L’inglese Donald Harden, archeologo, filologo e storiografo di fama, dopo aver visitato molte contrade della Sardegna, agli inizi del Novecento, tra gli anni ’20 e ‘30, espresse giudizi poco lusinghieri sulla tradizionale cultura del popolo sardo che lo aveva ospitato e in una sua opera “The Fhoenician” parlerà della Sardegna come regione sempre retrograda.

Ma tant’è: accecati dall’eurocentrismo, evidentemente costoro dimenticano che quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi (8.000 secondo le fonti ufficiali: l’Istituto geografico militare, che però li censisce secondo modalità militari e non archeologiche; 20.000 secondo Sergio Salvi e 25–30.000 secondo altre fonti non ufficiali) costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto, innumerevoli dolmens e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo. Con un’economia dell’abbondanza: di carne, pesce, frutti naturali. Che produce oro, argento, rame, formaggi, sale, stoffe, vini. Ma anche la musica delle launeddas

Quella Sardegna, (per Omero la Scherìa, la terra dei Feaci, abitanti di un’Isola su tutte felice), posta a Occidente nel mezzo del Mediterraneo, aperta al mondo, che combatte, alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli.

La Sardegna, l’Isola sacra in fondo al mare di Esiodo, l’Isola dalle vene d’argento (Argyròflebs) di Platone poi Ichnusa Sandalia ecc. oltre che Isola “felice” è infatti Isola libera, indipendente e senza stato. Organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. E dunque schiavitù. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà, all’egualitarismo e all’autonomia; mentre centinaia di migliaia di schiavi, sotto il controllo e la frusta delle guardie, sono costretti a erigere decine di piramidi, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati.

Per sfuggire alle carestie, alla fame e alla miseria ma anche alle tirannidi e alla schiavitù molti si rifugeranno nell’Isola, che accoglierà esuli e fuggitivi. Venti mila –secondo il linguista sardo Massimo Pittau- scampati alla distruzione della città-stato di Sardeis in Anatolia, da parte degli invasori Hittiti. Altri arriveranno dalla stessa Troia.

Finchè i Cartaginesi non invasero la Sardegna, per fare bardana, depredare e dominare l’Isola.

Scrive a questo proposito in “La civiltà dei Sardi” Giovanni Lilliu, il più eminente archeologo sardo e membro della ‘Accademia dei Lincei : “Gli antichi pastori e agricoltori lasciavano i castelli distrutti, le case fumanti, i templi profanati e le tombe dei loro morti incustodite, verso le rocce, le caverne e i boschi paurosi del centro montano. Fu non soltanto una ritirata di uomini, donne e fanciulle perseguiti come vinti dal vincitore straniero e sospinti verso una carcere, quasi verso un enorme campo di concentramento naturale, ma fu anche e soprattutto la capitolazione di un’intera civiltà protesa in uno sforzo decisivo e vicina al suo pieno traguardo storico. Con la sconfitta fu pure incrinata la compattezza etnico- sociale dei Sardi della civiltà nuragica e ne risultò la prima grande divisione politica: da una parte l’Isola montana, -dei Sardi ancora liberi, seppur costretti in una sorta di riserva dai conquistatori, come lo furono nel secolo XIX gli indiani americani di Capo Giuseppe, chiusi in una riserva dell’Idaho, dai bianchi del generale Miles, che continuò a esprimere una cultura genuina e autentica di pastori, per quanto impoverita e decaduta-; dall’altra i Sardi più deboli, arresisi agli invasori”.

Con il dominio romano fu ancora peggio. Fu un etnocidio spaventoso. La nostra comunità etnica fu inghiottita dal baratro. Almeno metà della popolazione fu annientata, ammazzata e ridotta in schiavitù. “Negli anni 177 e 176 a.c – scrive lo storico Piero Meloni- un esercito di due legioni venne inviato in Sardegna al comando del console Tiberio Sempronio Gracco: un contingente così numeroso indica chiaramente l’impegno militare che le operazioni comportavano”. Alla fine dei due anni di guerra – ne furono uccisi 12 mila nel 177 e 15 mila nel 176- nel tempio della Dea Mater Matuta a Roma fu posta dai vincitori questa lapide celebrativa, riportata da Livio: “Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa Provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino, per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove”.

Gli schiavi condotti a Roma furono così numerosi che “turbarono“ il mercato degli stessi nell’intero mediterraneo, facendo crollare il prezzo, tanto da far dire allo stesso Livio “Sardi venales“ : Sardi da vendere, a basso prezzo.

Altre decine e decine di migliaia di Sardi furono uccisi dagli eserciti romani in altre guerre, tutte documentate da Tito Livio, che parla di ben otto trionfi celebrati a Roma dai consoli romani e dunque di altrettante vittorie per i romani e eccidi per i sardi.

Chi scampò al massacro fuggì e si rinchiuse nelle montagne, diventando dunque “barbara” e barbaricina, perché rifiutava la civiltà romana: ovvero di arrendersi e sottomettersi. Quattro-cinque mila nuraghi furono distrutti, le loro pietre disperse o usate per fortilizi, strade cloache o teatri; pare persino che abbiano fuso i bronzetti, le preziose statuine, per modellare pugnali e corazze, per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi, per corazzare i rostri delle navi da guerra.

La lingua nuragica, la primigenia lingua sarda del ceppo basco-caucasico, fu sostanzialmente cancellata: di essa a noi oggi sono pervenuti qualche migliaio di toponimi: nomi di fiumi e di monti, di paesi, di animali e di piante.

Le esuberanti creatività e ingegnosità popolari furono represse e strangolate. La gestione comunitaria delle risorse, terre foreste e acque, fu disfatta e sostituita dal latifondo, dalle piantagioni di grano lavorate da schiere di schiavi incatenati, dalle acque privatizzate, dai boschi inceneriti. La Sardegna fu divisa in Romanìa e in Barbarìa. Reclusa entro la cinta confinaria dell’impero romano e isolata dal mondo. E’ da qui che nascono l’isolamento e la divisione dei sardi, non dall’insularità o da una presunta asocialità.

A questo flagello i Sardi opposero seicento anni di guerriglie e insurrezioni, rivolte e bardane. La lotta fu epica, anche perché l’intento del nuovo dominatore era quello di operare una trasformazione radicale di struttura “civile e morale”, cosa che non avevano fatto i Cartaginesi. La reazione degli indigeni fu fatta di battaglie aperte e di insidie nascoste, con mezzi chiari e nella clandestinità. “La lunga guerra di libertà dei Sardi –è sempre Lilliu a scriverlo - ebbe fasi di intensa drammaticità ed episodi di grande valore, sebbene sfortunata: le campagne in Gallura e nella Barbagia nel 231, la grande insurrezione nel 215, guidata da Amsicora, la strage di 12.000 iliensi e balari nel 177 e di altri 15.000 nel 176, le ultime resistenze organizzate nel 111 a.c., sono testimonianza di un eroismo sardo senza retorica (sottolineato al contrario dalla retorica dei roghi votivi, delle tabulae pictae, dei trionfi dei vincitori)”.

La Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico  Meloni. Ma non fu annientata. La resistenza continuò. I sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos (i regni sardi).

Per alcuni secoli la minaccia repressiva sembrò essersi allontanata o comunque in qualche misura attenuata, finché il 4 Aprile del 1297 Bonifacio VIII le diede nuovo slancio con la bolla di infeudamento del Regnum Sardiniae et Corsicae, a favore di Giacomo II d’Aragona. La Bolla licentia invadendi, fu l’occasione per i reali iberici per invadere e occupare militarmente le terre sarde. Così da quel giorno la Sardegna, con l’arrivo dei sovrani Aragonesi prima e degli Spagnoli e Piemontesi poi, ri-perse la sua indipendenza: ridivenne «provincia» d’oltremare, come ai tempi dei Romani.

Un’altra spaventosa ondata di malasorte si abbattè sull’Isola, soprattutto nell’800 ma anche nel ‘900, e si snoderà attraverso una serie di eventi devastanti: socio-culturali prima ancora che politico-economici.

Ad iniziare dalla Legge delle Chiudende del 1820, con cui si abolirono le terre comunitarie per formare la proprietà perfetta. “Una legge famigerata –scriverà Giuseppe Dessì in Paese d’Ombre - che sovvertiva un ordine durato nell’Isola da secoli”, causando gravissime crisi economiche e sociali. E ribellioni violente contro la recinzione delle terre comunitarie: tanto che, soprattutto nel Nuorese, o comunque dove l’opposizione fu più decisa, soprattutto i pastori riuscirono a “conservare” molto “cumonale”. Fu in conseguenza di quella lotta che ancora oggi in Sardegna e nelle zone interne pastorali in particolare, le terre comunali indivise occupano il 15% circa dell’intera superficie (353.000 ettari) cui occorre aggiungere 227.000 ettari di terre appartenenti a Enti Pubblici.

Per proseguire prima con la la fusione perfetta del 1847, quando la Sardegna rinunciò alla sua Autonomia stamentaria –ovvero al suo Parlamento- per “fondersi” con il Piemonte: decisione di cui si pentiranno subito gli stessi protagonisti; in seguito con la politica dei governi italiani postunitari, ferocemente antisarda e centralista; infine con il ventennio del regime fascista, fortemente antiidentitario: vietò non solo l’uso della lingua sarda ma le stesse gare poetiche estemporanee.

Fino ad arrivare ai nostri giorni: allo stato centralizzato e al capitalismo industriale, Al Piano di Rinascita e al modello di sviluppo degli ultimi 40/50 anni, tutto incentrato sulla grande industria di stato e sulla petrolchimica: che non ha risolto i problemi occupazionali e della prosperità: li ha anzi aggravati; ma che soprattutto ha attentato al modello di società e comunità etnica, alla cultura e alla sapienza popolare, soppiantate non da altre culture e altre sapienze ma da un coacervo di ideologie spesso nefaste, spesso rivolte a manomettere la natura, depauperare il territorio e a colpire la specificità linguistico-culturale, attraverso l’assimilazione e l’omologazione.

Il  processo tuttavia è lungi dall’essere conchiuso.

La storia dei Sardi, come nel passato, continua infatti ad essere caratterizzata da quella che il già citato Giovanni Lilliu chiama la costante resistenziale che ha loro permesso di conservare il senso d’appartenenza ovvero “quell’umore esistenziale del proprio essere sardo, come individui e come gruppo che, in ogni momento, nella felicità e nel dolore delle epoche vissute, ha reso i Sardi costantemente resistenti, antagonisti e ribelli, non nel senso di voler fermare, con l’attaccamento spasmodico alla tradizione, il movimento della vita e della loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente dalle catene imposte dal dominio esterno”.

Così le identità etnico-linguistiche, le specialità territoriali e ambientali, le peculiarità tradizionali, pur operanti in condizioni oggettive di marginalità economica sociale e geopolitica permangono. I Sardi infatti, nonostante le tormentate vicende storiche costellate di invasioni, dominazioni e spoliazioni, hanno avuto la capacità di metabolizzare gli influssi esterni producendo una cultura viva e articolata che ha poche similitudini nel resto del mediterraneo. Basti pensare al patrimonio tecnico-artistico, alla cultura materiale e artigianale, alla tradizione etnico-musicale connessa alla costruzione degli strumenti, alla complessa e stratificata realtà dei centri storici e delle sagre, agli studi sulla realtà etno-linguistica, alla straordinaria valenza mondiale del patrimonio archeologico e dei beni culturali, all’arte: da quella dei bronzetti a quella dei retabli medievali; dagli affreschi delle chiese ai murales, sparsi in circa duecento paesi; dalla pittura alla scultura moderna.

Ma soprattutto basti pensare alla Lingua, spia dell’Identità e substrato della civiltà sarda. Entrambe non totem immobili (sarebbero state così destinate a una sorte di elementi museali e residuali) ma anzi estremamente dinamiche.

La poesia, la letteratura, l’arte, la musica, pur conservando infatti le loro radici in una tradizione millenaria, non hanno mai cessato di evolversi, aprirsi e contaminarsi, a confronto con le culture altre. Soprattutto questo avviene nei tempi della modernità, a significare che la cultura sarda non è mummificata.

Anche il diritto consuetudinario –padre e figlio di quel monumento della civiltà giuridica che è la Carta de Logu- si è trasformato nel tempo, anche se la sua applicazione concreta (per esempio il cosiddetto “Codice barbaricino”) è da un lato costretta alla clandestinità e dall’altro a una restrizione alla società del “noi pastori”. Solo la crescita e l’affermarsi di studiosi, sardi non tanto per anagrafe quanto per autonomia dall’accademia autoreferente, ha fatto sì che gli elementi fondanti la cultura e la civiltà sarda passassero dall’enfasi identitaria alla fondatezza scientifica.

Alla straordinaria ricchezza culturale sono tuttavia spesso mancati, almeno fin’ora, i mezzi per una crescita e prosperità materiale adeguata. Oggi, dopo il sostanziale fallimento dell’ipotesi di industrializzazione petrolchimica, si punta molto sull’ambiente e sul turismo, settore quest’ultimo sicuramente molto promettente, purchè si integri con gli altri settori produttivi, ad iniziare da quelli tradizionali come l’agricoltura, la pastorizia e l’artigianato. La struttura economica sarda infatti è sempre stata fortemente caratterizzata dalla pastorizia, che oggi però con i suoi quattro milioni di pecore, sottoposta com’è a processi di ridimensionamento dalle politiche dell’Unione europea, rischia una drammatica crisi.

Ebbene, pur in presenza di forti elementi di integrazione e di assimilazione, nella società, nell’economia e nella cultura, l’umore esistenziale del proprio essere sardo –di cui parla Giovanni Lilliu- continua a segnare profondamente, sia pure con gradazioni diverse, oggi come ieri, l’intera letteratura sarda che risulta così, autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore.
Nasce anche da qui l’esigenza di un’autonoma trattazione delle vicende letterarie sarde: ad iniziare da quelle scritte in Lingua sarda. Da considerare non “dialettali” ma autonome, nazionali sarde, vale a dire. A questa stessa conclusione arriva, del resto, un valente critico letterario (e cinematografico) italiano come Goffredo Fofi, che nell’Introduzione a Bellas Mariposas di Sergio Atzeni (edito dalla Biblioteca dell’Identità-Unione sarda, pag.18-19) scrive:”Sardegna, Sicilia. Vengono spontanei paragoni che indicano la diversità che è poi quella dell’insularità e delle caratteristiche che, almeno fino a ieri, ne sono derivate, di isolamento e di orgoglio. E’ possibile fare una storia della letteratura siciliana o una storia della letteratura sarda, mentre, per restare in area centro-meridionale- non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale…

Il mare divide e costringe: La letteratura siciliana e la letteratura sarda possono essere studiate –nonostante la comunanza della lingua, con quella di altre regioni, almeno dopo l’Unità- come “Letterature nazionali”. Con un loro percorso, una loro ragione, loro caratteri e segni”.

In questa antologia potremmo vedere che dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria. Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue romanze, ha prodotto pochi frutti: può darsi, ma – dato e non concesso- si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato  imbrigliato e impastoiato potesse correre? La lingua sarda, certo, deve crescere, e sta crescendo, ed ha soltanto bisogno che le vengano riconosciuti i suoi diritti, che le venga proprio riconosciuto il suo “status” di lingua.

La Lingua sarda, dopo essere stata infatti lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, viene infatti ridotta al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano.

Cosicché essa non è un fatto “primigenio” ma è fatta e prodotta di somme e di accumuli, è un prodotto storico che sta a testimoniare la capacità dei sardi di confrontarsi con le culture esterne, volgendole e assimilandole in moduli specifici. Ciò, fra l’altro,  consente che nella letteratura sarda si ritrovino insieme autori che scrivono in sardo e in italiano ma anche autori che hanno scritto, in latino, in catalano e in castigliano –come riporteremo e documenteremo in questa Letteratura- e non importa con quale certificato di nascita e con quali «contenuti» e temi. L’importante è che questi autori trovino una condizione specifica nello «stare» per ottica e palpitazioni, per weltanschaung, per il modo con cui intendono e contemplano la vita e per tante altre cose, razionali e irrazionali, che derivano dai misteri e dalle iniziazioni dell’arte, compresa la nostalgia, che, a dispetto dei politici«realisti», come dice Borges, è la relazione migliore che un uomo possa avere con il suo paese.

L’importante è che la produzione letteraria esprima una specifica e particolare sensibilità locale, ovvero “una appartenenza totale alla cultura sarda, separata e distinta da quella italiana” diversa dunque e “irrimediabilmente altra”, come scrive il critico sardo Giuseppe Marci.

L’importante è soprattutto –come scrive Antonello Satta- “che gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”.

Miguel de Unamuno era basco, e scriveva in castigliano, ed era anche contrario a una ripresa dell’euskera come lingua letteraria. Eppure Unamuno, se fa parte della letteratura spagnola, fa anche parte della letteratura basca e il mondo intero, così presente nella sua opera, è per lui una Bilbao dilatata: Hermanos somos todos los umanos/el mundo intero es un Bilbao màs grande.

Anche tra Italia e Sardegna vi sono appartenenze comuni: e dunque negli autori sardi vi sono anche elementi di assimilazione e di integrazione e persino “imitatori” di movimenti e stili oltre tirreno e non solo. Pensiamo -per esempio- a due “grandi” del Primo Novecento: Sebastiano Satta e Grazia Deledda. Il primo vanta robuste ascendenze carducciane e pascoliane; la seconda è copiosamente influenzata sia dal Verismo che dai romanzieri russi di fine ottocento: eppure ambedue sono soprattutto i cantori della “sardità” e pongono al centro della loro scrittura la Sardegna e i Sardi.

Ma anche quando la Sardegna non è “protagonista” –pensiamo a Un anno sull’altipiano e Marcia su Roma e dintorni- emerge comunque l’identità etno-nazionale sarda. Nel caso di Lussu, è evidente nella sua scrittura che, come ha sostenuto autorevolmente il linguista sardo Leonardo Sole, si incardina nella cultura orale e in particolare perfino nel ritmo narrativo della fiaba sarda: fortemente ritmizzata e caratterizzata da un giro di parole essenziale e rapido.

In realtà, se vogliamo parlare di opere letterarie e, pur sapendo che appartengono al mondo, ci proponiamo di identificarle come sarde, dobbiamo valutarle non tanto per la lingua che scelgono, quanto per l’uso che ne fanno e per il loro modo di collocarsi esteticamente e non solo, in Sardegna.

In realtà l’unico modo per analizzare la Letteratura sarda –come sostiene Silvano Tagliagambe- “è valutarne l’evoluzione storica, mettendone in luce la continuità di varie caratteristiche come elementi di un’unica catena”. A patto che –cito ancora Antonello Satta- “non si vada a parare in «Madonna Evoluzione» e si tenga conto che la continuità, soprattutto in letteratura, può subire rotture, come rileva Asor Rosa, e le cose, restie ad adattarsi a storicismi stretti, possono andare, secondo la metafora di Bertrand Russel, «a macchie e sbalzi»”.

Una letteratura sarda esiste, se, come ogni letteratura, ha i tratti universali della qualità estetica e se, in più è  «specifica», non tanto per questioni grammaticali e sintattiche, quanto per una questione di Identità. E’ proprio l’Identità sarda il tratto che accomuna gli Autori che abbiamo scelto e trattato in questo volume.

 

 

 

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