Renzi, la disuguaglianza, e il dovere della memoria, di Gianni Mula

In un commento al mio post Una politica economica folle l’amico Giovanni Dotti mi ha chiesto che cosa penso di Renzi e del suo programma di riforme istituzionali e sociali, perché, come tanti, ha idee in materia piuttosto confuse (anche se finora ha sostenuto il giovane “rottamatore”).

Lo accontento volentieri, anche se temo che non riuscirò a chiarire sino in fondo le sue perplessità, che vedo peraltro confermate dalla domanda tutt’altro che peregrina (Matteo Renzi leghista?) che, assieme a Martino Pirone, ha recentemente rivolto a Renzi sul nostro sito. Il fenomeno Renzi è una sorta di mistero ben custodito dal quale filtrano soltanto alcuni indizi. Furio Colombo nel suo blog sul FQ lo riassume benissimo così: «Renzi assomiglia a un manifesto sovietico del primo periodo, quando nel Pcus la grafica era importante. Il tratto di sfida e di guida dell’immagine suggerisce folla dietro di lui, ma è solo lui che si vede. …. [anche se si ascoltano, e si accettano, preannunci] … Il preannuncio …nel paese degli annunci, appare un espediente mai sperimentato prima. … funziona, se pensate a Marchionne. … Renzi dice e ripete con forza che se “l’Italia non cambia verso” lui se ne va, esce dalla politica. Dunque non vuole discutere dettagli. … Renzi è come i Future, … come per i derivati, devi tenere lo sguardo sull’ultima cosa promessa. … Per “cambiare verso” all’Italia, devi tenere lo sguardo fisso avanti e lontano, verso un mondo tutto nuovo che, ti garantisco, sta per venire. No, non quello di adesso, quello dopo. Se questo è il contesto, è chiaro che la vendita conta più del prodotto».

Il segreto di Renzi è tutto qui. Scommette sulla mancanza di cultura e memoria dell’opinione pubblica, e, grazie alla complicità dei media e al suo indubbio talento come comunicatore, ha per ora successo. I media si prestano volentieri, perché parlare di Renzi fa sempre il pieno di ascolti, e non battono ciglio se, comenota Giovanni Sarubbi, «chiacchiere senza alcun senso, quale quella di dire se questo governo fallisce me ne vado, vengono lette da una moltitudine di persone come un fatto innovativo e addirittura come un segno di speranza. Che dovrebbe fare un governo che fallisce se non andare via? Fallisce e vorrebbe anche un premio?». Ma anche quando, come nel caso della conferenza stampa congiunta con Obama a Roma, gli ascolti sono garantiti, non ho visto i commentatori dei grandi media sollevare almeno un po’ le sopracciglia di fronte alla penosa esibizione di un premier italiano che nasconde la sua evidente inadeguatezza dietro atteggiamenti incongruamente spavaldi.

Il fatto è che appoggiare personaggi siffatti ha notevoli vantaggi per l’establishment economico finanziario, primo fra tutti quello di tenere l’attenzione del pubblico lontana dalle questioni davvero importanti. Altrimenti si finirebbe col lasciare troppo spazio a domande scomode come quella posta in maniera semplice e chiara, su questo sito, da Federico Stoppa: visto che «l’Italia, nonostante abbia meno dell’1% della popolazione mondiale e il 3% del reddito totale, detiene il 5,7% della ricchezza mondiale complessiva» e che «se sottraessimo alla ricchezza pro capite (142mila euro) la quota del debito pubblico che grava su ogni cittadino (circa 30mila euro), troveremmo un valore un po’ ridotto (112mila euro) ma ancora del tutto ragguardevole (pari a circa 4 volte e mezza il PIL pro capite e a circa 6 volte il reddito disponibile medio)», com’è che possono sorgere dubbi sulla capacità del nostro paese di ripagare i propri debiti? Non è che i dubbi (e quindi anche la necessità di misure di austerità) nascono perché «nel nostro Paese la distribuzione della ricchezza è molto più concentrata della distribuzione del reddito disponibile, e questo rende molto difficile attuare una politica fiscale efficace»? Inoltre se questa concentrazione dipende « - come risulta dall’evidenza empirica – per una parte non trascurabile, da circostanze e fattori esogeni rispetto allo sforzo e l’impegno individuale, allora è necessario affrontare con meno pudore il tema di un suo riequilibrio ai fini d’una maggiore equità e giustizia».

Anche un sociologo di indiscutibile serietà professionale come Ilvo Diamanti dimentica i problemi politici reali e li trasforma in problemi personali di Renzi: infatti scrive su Repubblica del 17 marzo che Renzi, che pur avrebbe bisogno di un “partito del Presidente”, «in assenza di esso agisce da solo. Contro tutto e tutti. In questo modo sfrutta a proprio vantaggio il clima antipolitico del tempo. Ne fa una risorsa politica. Trasforma la sfiducia politica in fiducia personale. In consenso alle proprie politiche».

È un’analisi che descrive in maniera impeccabile le tecniche comunicative usate da Renzi. Limitandosi a questo, però, Diamanti avvalla di fatto la riduzione della politica ai problemi individuali del personale politico. Pertanto ignora l’attacco sistematico alla coscienza collettiva, e in definitiva alla vita democratica, che sta avvenendo nell’intero mondo occidentale. Motore di quest’attacco è un sistema finanziario globale ormai cresciuto al di là di ogni controllo. Pretesto di quest’attacco è la presunta necessità, per mai spiegate esigenze di efficienza (di chi e per che cosa?), che alla globalizzazione della comunicazione si accompagni una semplificazione a tutti i livelli e a tutti i costi, compreso quello dell’eliminazione di ogni differenza, della trasformazione di una società viva, di esseri umani tutti diversi, in una società morta, di zombie che non sanno perché vivono.

Oggi il solo potere che conta è quello economico e il processo di omogeneizzazione in atto ha già spostato i processi decisionali più importanti dai governi dei singoli stati a sedi transnazionali sempre meno evidenti, e quindi sempre meno responsabili delle conseguenze delle proprie scelte. Si è generata così un’irresponsabilità diffusa che cresce al diminuire del numero di coloro che detengono una parte sempre maggiore della ricchezza del mondo e vedono le altre persone come meri soggetti passivi di scelte economiche altrui.

Può sembrare eccessivo immaginare che nell’intero mondo occidentale sia in corso un simile processo. Ma non si tratta di immaginare complotti segretissimi, basta rendersi conto che siamo in presenza di qualche decina, o al massimo di qualche centinaio, di super ricchi e potenti che hanno preso in ostaggio il mondo e non hanno alcuna intenzione di lasciarlo andare. Il loro massimo divertimento è bisticciare, un po’ sul serio e un po’ per finta, sulla spartizione. Difendersi dall’ondata di ribellione e di sdegno contro il sistema globale che gli consente questa presa in ostaggio, è invece il loro unico problema. Come esempi di questa necessità di difendersi si possono citare scritti recentissimi di due premi Nobel per l’economia come Paul Krugman e Joseph Stiglitz.

Krugman, ad esempio, certo non un pericoloso “comunista”, in un post del 3 marzo sul suo blog “The conscience of a liberal”, sul New York Times, poi ripreso da Ilsole24ore, scrive «… quello che veramente suscita lo sdegno dei cittadini è la percezione che molti dei ricchi non si sono meritati veramente la loro posizione, che sono diventati ricchi a spese del resto dell’America … dal 2007 a oggi … forse tutti quegli stramiliardari dello 0,01 per cento che non facevano che raccontare ai quattro venti che lavoro meraviglioso facevano, alla fine ci hanno trascinati in una crisi finanziaria catastrofica, … tutti quei personaggi in vista e ammiratissimi che ci garantivano che Wall Street stava facendo un ottimo lavoro, … alla fine si è scoperto che non avevano la più pallida idea di quello di cui stavano parlando … da quando è scoppiata la crisi i profitti sono schizzati alle stelle mentre i redditi dei lavoratori sono rimastifermi al palo … La gente non è invidiosa, è arrabbiata. E ha ragione di esserlo».

C’è quindi un risentimento contro la casta che non è una caratteristica solo italiana (anche se in Italia assume aspetti spesso folkloristici). Allora il problema non è Renzi, o non è solo Renzi, è anche Obama, ad esempio. Qualche giorno fa, il 15 marzo, Joseph Stiglitz, altro premio Nobel per l’economia, ex-capo economista alla Banca Mondiale, ora professore alla Columbia University, ha scritto sul New York Times, poi parzialmente ripreso da MicroMega, che dalla retorica di Obama, che nel suo discorso sullo Stato dell’Unione ha parlato di “nuovi accordi commerciali” che “porteranno alla “creazione di più posti di lavoro“, non si può capire il conflitto che sta dilaniando il partito democratico americano e gli interi Stati Uniti attorno all’accordo commerciale chiamato TPP (Trans-Pacific Partnership) che metterà assieme 12 paesi lungo le coste del Pacifico in quella che diverrebbe la più grande area di libero mercato del mondo.

 

In Italia e in Europa questo conflitto attorno al TPP è praticamente ignoto, anche se l’area interessata all’accordo è di dimensioni enormi. Ma Stiglitz evidenzia che con accordi come quello del TPP, nel quale i paesi aderenti si accordano per ridurre al minimo le disposizioni legislative per controllare le attività commerciali, si ritorna ai tempi nei quali le multinazionali erano libere di massimizzare i profitti a spese dell’ambiente e dell’equilibrio finanziario complessivo. E se è vero che i profitti delle multinazionali crescono è anche vero, scrive Stiglitz, che c’è chi ci perde. Chi? Tutti gli altri.

Con 20 milioni di americani che non riescono a trovare un lavoro a tempo pieno e con milioni che hanno smesso anche di cercarlo, si può anche perder un po’ di tempo a tentare di stabilire le responsabilità di questo stato di cose. Rimane il fatto che accordi di commercio globale come il TPP tendono sempre a far diminuire l’occupazione, perché incoraggiano la delocalizzazione del lavoro. Il lavoro nei paesi industrializzati viene infatti messo in competizione con quello in paesi in via di sviluppo, perché gli accordi fanno sì che non ci possano essere costi addizionali (oltre al trasporto) per l’importazione di beni prodotti dove la manodopera è a buon mercato. I sindacati vengono così indeboliti, e il risultato è che, se si tiene conto dell’inflazione, negli Stati Uniti il salario operaio medio è inferiore a quant’era 40 anni fa e la disuguaglianza economica è salita a livelli assurdi.

L’unica base teorica per cui si fa questo, conclude Stiglitz, sta nella ormai completamente screditata teoria della “ricaduta favorevole”. Purtroppo se le multinazionali si arricchiscono, come succederà col TPP, non si arricchirà la classe media e men che meno quelli al fondo della scala sociale.

Se invece guardiamo alla situazione dal punto di vista degli happy few ai quali ho accennato prima, vediamo che il problema di Renzi, in fondo, è quello di Obama. Non è importante quello che loro vogliono fare ma quello che gli happy few gli lasciano fare. Se perfino Obama, con tutto il potere del presidente di una repubblica presidenziale, è alle prese con i grossi problemi evidenziati da Stiglitz, ben più forti saranno i condizionamenti per Renzi, che la repubblica presidenziale ancora non ce l’ha.

Per cui è inutile che ci impantaniamo nei dubbi circa le future realizzazioni di Renzi. Ci bastano quelli sulle cose che vuole fare adesso, nessuna delle quali lascia pensare che il suo sarà diverso dai precedenti (pessimi) governi. Per dirla con Giovanni Sarubbi,nell’editoriale citato sopra, «Non abbiamo ovviamente alcuna intenzione di distruggere qualsiasi speranza. E’ giusto avere speranza ma è altrettanto giusto avere occhi aperti e spirito critico … [nel] cercare di coniugare speranza e razionalità».

Difendersi da quest’attacco coniugando speranza e razionalità richiede però conservare, e rafforzare, la memoria. La memoria della nostra storia personale e soprattutto collettiva. In questa maniera si possono fare distinzioni scomode ma necessarie. Ad esempio si può riconoscere che le polemiche di molta parte del cosiddetto centro destra contro le politiche europee colgono nel segno ma non costituiscono una buona ragione per votare per quella parte non solo perché sono largamente ed evidentemente strumentali ma soprattutto perché quei partiti, e spesso proprio quegli esponenti, nella storia hanno fatto tutt’altro che difendere gli strati sociali oppressi dalle misure di austerità.

Ma si può anche cercar di capire sino in fondo l’operazione di manipolazione del consenso che ha portato alla situazione attuale. Una situazione evidentemente anomala, malsana, nella quale in paesi democratici si vota, liberamente e a maggioranza, per leggi e leader che non fanno gli interessi degli elettori ma quelli del sistema globale che ne perpetua la condizione di sudditi. Com’è possibile?

Il problema è che le manipolazioni possono essere fatte anche a fin di bene, non solo a fin di male. Ad esempio le armi possono essere usate sia per fare la rivoluzione che per conservare il potere del tiranno o dei tiranni contro i quali bisognerebbe fare la rivoluzione. Ma mentre uno può anche dichiararsi (quasi sempre giustamente) contro l’uso delle armi, non si può fare lo stesso contro l’uso della retorica. Infatti, anche se le manipolazioni sono evidenti, è spesso difficile opporvisi perché da un punto di vista meramente logico si può sempre sostenere che certe manipolazioni della verità sono fatte per salvare tutti da un qualche disastro incombente (che poi il disastro sia davvero prossimo è una questione di fatto, non una questione logica). Ed è qui che il ricorso alla memoria, cioè al giudizio consapevole sul comportamento degli attori principali della controversia nei decenni (non nelle settimane) precedenti, o all’esame della coerenza tra i loro comportamenti pubblici e quelli privati, diventa dirimente e permette alle scelte soggettive di diventare se non proprio oggettive almeno meditate e razionali.

Non si tratta di perdersi in complicati ragionamenti per poi magari finire come l’asino di Buridano. Come ricordavo nel mio commento al bell’articolo di Guido Pegna sul giorno della memoria, che non è quello della Shoah, Gandhi ci ha insegnato che «bisogna bisogna aver fede che le buone azioni possono produrre solo buoni risultati». Questo implica, dice Thomas Merton nel Diario di un testimone colpevole (Garzanti 2004), «che noi non siamo responsabili altro che delle nostre azioni, ma di queste dobbiamo assumerci la responsabilità completa. … non dobbiamo prevedere ogni possibilità, dobbiamo semplicemente giudicare se l’azione che vogliamo compiere è giusta, se si accorda con la verità e l’amore qui e ora, perché, se crediamo nel bene, dobbiamo anche credere che qualunque cosa succeda sarà certamente buona, benefica per noi e per la società».

Può sembrare che Merton la faccia troppo semplice, e che la sua visione delle cose possa valere al massimo per la sua condizione di monaco trappista e per il tempo nel quale la scrisse (l’edizione originale del libro è del 1966). Ma proprio comprendendo bene Merton si capisce perché l’invito a conservare la memoria della nostra storia personale e collettiva è essenziale. Perché Merton non vuole insegnare a nessuno come ci si deve comportare in pratica, dice semplicemente che chi vuole il bene deve semprefare ciò che a suo giudizio è bene fare nel momento nel quale decide di agire. Creda o meno in qualche Dio. Ma sempre significa anche che i criteri di giudizio possono, e magari devono, essere personali, diversi per ciascuno, ma non devono mai sottostare all’ossessione, caratteristica del nostro tempo e della nostra cultura, di preoccuparsi solo delle conseguenze immediate di un’azione. Devono essere invece espressione di una vita che conserva la memoria degli avvenimenti significativi e ne ha cura. Solo così, per Merton, una vita può avere significato.

Per dare concretezza a queste riflessioni consideriamo il recentissimo viaggio di Obama in Europa. Chiediamoci quale visione politica ci sia dietro la stanca rivisitazione dell’alleanza NATO che Obama ha presentato in questo viaggio agli alleati europei. A prima vista è stato un discorso realistico nel quale il presidente americano ha respinto l’idea che stiamo entrando in un nuovo periodo di guerra fredda e ha anche ammesso che la NATO era priva di piani di emergenza per situazioni come l’annessione della Crimea da parte della Russia che si è appena verificata. Ma è stato anche una ripetizione scontata e stanca di luoghi comuni sui vincoli che tengono assieme paesi che hanno scelto di difendere assieme la libertà e la democrazia.

Il problema non è che non sia giusto difendere la libertà e la democrazia. Ma che Obama avrebbe fatto meglio ad essere più onesto. Perché le democrazie occidentali non stanno affatto mantenendo le loro promesse e perciò, a meno di un improbabile cambiamento di rotta, troveranno sempre più difficile vincere confrontarsi sul piano delle idee persino con dittature spietate come quella di Putin. Non che Putin meriti di essere difeso, ma Obama, insignito nel 2009 del premio Nobel per la pace, e l’intera politica estera americana degli ultimi decenni, hanno ormai perduto ogni residua traccia di credibilità. Questo è il giudizio espresso non da un qualche seguace di Bin Laden alla vigilia dell’11 settembre, ma da Roger Cohen, dal 1990 giornalista del New York Times con lunga esperienza nel settore della politica estera, nel suo editoriale del 28 marzo.

Quest’editoriale, intitolato Obama’s Anemic Speech in Europe (Il discorso anemico di Obama in Europa), si conclude con queste parole: «Non è tempo per banalità sulle meraviglie che la democrazia, la libertà, il libero commercio, il rispetto della legge ecc. hanno compiuto nei paesi occidentali. Non quando la democrazia è bloccata, la libertà non è per tutti, la libera concorrenza mostra i suoi aspetti più crudeli e la legge mostra il suo volto più arcigno a coloro che sono al fondo della scala sociale».

Se questo è il giudizio che dà di Obama un suo concittadino che condivide i suoi valori, quale può essere il giudizio su Matteo Renzi di un italiano che ha a cuore la democrazia e vede ripetersi la svolta che ha portato dall’italietta giolittiana al fascismo? I giudizi politici possono anche essere molto diversi, ma per chi conserva memoria della storia passata non ci possono essere dubbi che non siamo alla vigilia di un periodo di riscatto da un decisionismo imbelle ma di un periodo nel quale la tentazione di abbandonare ogni speranza si fa irresistibile. Ripeto: il problema non è tanto Renzi (come non lo erano Letta o Monti) quanto, ad esempio, la perversione intellettuale che ci attanaglia e ci spinge a ignorare l’allarme lanciato da Libertà e Giustizia in un documento sottoscritto da un gruppo di giuristi e intellettuali tra i più autorevoli e indipendenti (da Zagrebelsky a Urbinati, da Rodotà a Carlassare, Pace, Azzariti, Settis, De Monticelli, Bonsanti), secondo i quali la riforma della costituzione voluta da Renzi finirà per creare “un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali”.

Come si può ignorare un appello così drammatico lanciato da tante persone autorevoli la cui intera vita (ecco di nuovo il dovere della memoria) testimonia una specchiata onestà personale e un’assoluta coerenza di comportamenti? Com’è possibile che il loro documento abbia trovato spazio solo sulla prima pagina del Fatto Quotidiano? Andrea Padellaro, direttore del FQ, così commenta: «Un silenzio che non può certo sorprendere. Con furbizia fiorentina Renzi sta infatti propinando agli italiani la favola di un taglio netto alla casta dei politici inetti e forchettoni, come se sacrificando gli emolumenti di 315 senatori (mantenendo però le monumentali spese dei relativi uffici) qualcosa potesse cambiare nella voragine dei conti pubblici. Ma gli italiani, ormai troppo esasperati dalla mala politica, preferiscono credere al pifferaio magico, indifferenti o rassegnati».

Ma chi può credere davvero a un pifferaio magico?


Domenica 30 Marzo,2014

 

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