Libertà, uguaglianza, efficienza. di Paul Krugman

 

Sperando di far cosa gradita segnalo la pubblicazione sul sito www.ildialogo.org di una mia traduzione dell’odierno editoriale di Paul Krugman: Libertà, uguaglianza, efficienza.

La accompagno con una breve nota che riguarda il passaggio di Paul Krugman dalla prestigiosa università privata di Princeton, con pochi studenti selezionati e ottimo livelli di finanziamento, all’università pubblica CUNY (City University of New York), più grande (540.000 studenti), molto meno finanziata e con un prevedibile taglio di stipendio.

Si tratta di una scelta che rende ancora più credibile il messaggio dell’editoriale:

Chiedere parità di opportunità, non uguaglianza di risultati, può sembrare una buona cosa a persone senza alcuna idea di come sia la vita di decine di milioni di Americani, ma a chi abbia un minimo senso della realtà suona come uno scherzo crudele. Quasi il 40% dei bambini americani vive in povertà o quasi-povertà. Davvero pensiamo che abbiano lo stesso accesso all’istruzione e all’occupazione dei figli dei ricchi? (Gianni Mula)

Libertà, uguaglianza, efficienza

di Paul Krugman

Chiedere parità di opportunità, non uguaglianza di risultati, può sembrare una buona cosa a persone senza alcuna idea di come sia la vita di decine di milioni di Americani, ma a chi abbia un minimo senso della realtà suona come uno scherzo crudele. Quasi il 40% dei bambini americani vive in povertà o quasi-povertà. Davvero pensiamo che abbiano lo stesso accesso all’istruzione e all’occupazione dei figli dei ricchi?

 

In quest’articolo Paul Krugman torna ad affrontare direttamente il tema della disuguaglianza con argomentazioni, come di consueto, di assoluta rilevanza sul piano culturale ed economico. Argomentazioni che sono anche in qualche modo particolarmente significative sul piano personale perché contestuali al suo annuncio che nel giugno del 2015 andrà in pensione dall’università di Princeton e diverrà Professore della scuola di dottorato in economia di CUNY (City University of New York) che è la più grande università pubblica newyorchese. Come dice nel suo blog su Repubblica Federico Rampini «Ora Paul Krugman diventa anche un esempio di coerenza. Lascia una delle migliori università del mondo, privata, per andare a insegnare in un college pubblico … andrà in un’istituzione molto più povera [di Princeton] con 540.000 studenti cioè 67 volte quelli di Princeton … un bilancio di soli 3 miliardi l’anno … le donazioni private sono un rigagnolo rispetto ai ricchi lasciti degli ex alunni di Princeton.[Ma un'università che è anche] il luogo ideale per portare avanti la ricerca [sulla disuguaglianza] che concentra troppe risorse in una ristretta oligarchia, e lesina il potere d’acquisto nella maggioranza della popolazione».
Le motivazioni alla base di questa scelta sono dette esplicitamente da Krugman nel suo annuncio:«A 61 anni mi sono reso conto che il mio lavoro si è sempre più spostato dall’economia al pubblico dibattito sulle politiche economiche, inoltre sono nell’insolita condizione di essere un accademico editorialista per il più grande quotidiano del mondo. In queste condizioni dovevo decidere dove volevo stabilirmi: la mia miglior scelta per vivere sarebbe stata un luogo a New York vicino a Zabar [famoso negozio di alimentari per gourmet]mentre sul piano accademico una connessione col Luxemburg Income Study [LIS], il più importante progetto al mondo di raccolta dei dati sulla disuguaglianza, sarebbe stata auspicabile. Così ho chiesto a Janet Gornick, professore di politica economica al Graduate Center di CUNY, se ci fosse la possibilità di un’affiliazione al LIS che mi consentisse di avere un ufficio e di interagire con l’eccellente gruppo LIS di New York.
Così è stato, ma con mia sorpresa il Graduate Center mi ha anche offerto un posto di insegnamento già a partire da quest’estate. Ho subito capito che sarebbe stata una cosa meravigliosa perché il Graduate Center è un importante crocevia di studiosi che si occupano del ruolo dei poteri pubblici nell’economia e sta per creare uno straordinario gruppo di lavoro collegato col LIS.
A questo punto non potrei immaginare di trovarmi in un luogo migliore, per me, di questo dove mi trovo. E, l’idea di essere associato a una grande università pubblica mi piace davvero, credo per il fatto che per me rappresenta un po’ un ritorno a casa: sono cresciuto nei sobborghi di New York, e ho sempre immaginato “la città” come il luogo dove gli intellettuali andavano a vivere una volta raggiunta “l’età adultera”, come diceva mia nonna».
Buona lettura!
Gianni Mula

New York Times – 10 mar 2014

Libertà, uguaglianza, efficienza

Paul Krugman

Che estreme disuguaglianze di reddito non vadano bene è qualcosa sulla quale la maggior parte delle persone, se interrogate, sarebbe probabilmente d’accordo. Tuttavia c’è un discreto numero di conservatori che ritiene che ogni pubblica discussione sulla distribuzione dei redditi dovrebbe essere vietata. (Addirittura Rick Santorum, ex senatore e candidato alla presidenza degli USA, vuole mettere al bando anche il termine “classe media” che, dice, è un linguaggio di sinistra, perché sa di invidia di classe. Davvero? Qualcuno se n’era reso conto?) Ma che cosa si può fare?

La risposta standard della politica americana è “Non molto”. Quasi 40 anni fa Arthur Okun, capo consigliere economico del presidente Lyndon Johnson, in un libro oramai classico intitolato “Uguaglianza ed efficienza: Il grande compromesso“, sostenne che la ridistribuzione del reddito dai ricchi ai poveri frena la crescita economica. Quel libro ha definito le posizioni per quasi tutto il dibattito successivo, con i liberali che sostengono che il prezzo da pagare in termini di efficienza è piccolo, e i conservatori che sostengono che è grande, ma tutti consapevoli che far qualcosa per ridurre la disuguaglianza avrebbe comunque un qualche impatto negativo sul PIL.

Ma ora pare che ciò su cui tutti erano d’accordo non sia più vero. Nell’America del XXI secolo agire per ridurre le disuguaglianze estreme probabilmente aumenterebbe, non diminuirebbe, la crescita economica.

Cominciamo con le prove.

È ampiamente noto che tra i paesi avanzati le disuguaglianze di reddito variano molto. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, in particolare, il reddito disponibile è distribuito in maniera molto più diseguale che non in Francia, Germania o Scandinavia. Meno noto è che questa differenza è dovuta essenzialmente a politiche governative. Infatti i dati raccolti dalLuxemburg Income Study(progetto al quale sarò associato a partire da questa estate) mostrano che i redditi primari – redditi da salari, stipendi, proprietà, e così via – è distribuito in maniera molto ineguale in quasi tutti i paesi. Ma imposte e trasferimenti (aiuti in denaro o in natura) riducono questa disuguaglianza di fondo in misura diversa: un po’, ma non molto, in America, molto di più in molti altri paesi.

Quindi ridurre le disparità attraverso la ridistribuzione del reddito fa male alla crescita economica? No, secondo due fondamentali studi da parte di economisti del Fondo Monetario Internazionale, non certo un’organizzazione di sinistra. Il primo studio ha esaminato nel tempo la relazione tra disuguaglianza e crescita, e ha scoperto che per nazioni con disuguaglianze di reddito relativamente basse è più facile crescere economicamente in maniera sostenuta che non sulla base di “scatti” occasionali. Il secondo studio, pubblicato il mese scorso, ha guardato direttamente all’effetto di una redistribuzione dei redditi, e ha scoperto che “in termini di impatto sulla crescita la redistribuzione appare generalmente benigna”.

In altri termini non sembra che siamo alla presenza del grande compromesso di cui parla Okun. Nessuno propone uguaglianze di stile cubano, ma che la politica americana si muova almeno un po’ verso norme europee probabilmente aumenterebbe, non ridurrebbe, l’efficienza economica.

A questo punto qualcuno dirà: “Ma la crisi in Europa non dimostra gli effetti distruttivi del welfare?” No, non è così. L’Europa sta pagando un prezzo pesante perché alla sua unione monetaria non corrisponde un’unione politica. Ma all’interno dell’area dell’euro i paesi che più ridistribuiscono sopportano la crisi meglio di quelli che ridistribuiscono meno.

Ma come possono essere benigni gli effetti della redistribuzione sulla crescita? L’aiutare generosamente i poveri non riduce il loro incentivo a lavorare? Le tasse sui ricchi non riducono il loro incentivo a diventare ancora più ricchi? La risposta è sì per tutte e due le domande, ma gli incentivi non sono le sole cose che contano. Contano anche le risorse – e, in una società altamente ineguale, molte persone sono del tutto prive di risorse.

Si pensi, in particolare, allo slogan sempre di moda che dovremmo chiedere parità di opportunità, non uguaglianza di risultati. È uno slogan che può sembrare una buona cosa a persone con nessuna idea di come sia la vita reale di decine di milioni di Americani, ma suona come uno scherzo crudele per chi abbia un minimo senso della realtà. Quasi il 40% dei bambini americani vive in povertà o quasi-povertà. Davvero pensiamo che abbiano lo stesso accesso all’istruzione e all’occupazione dei figli dei ricchi ?

In realtà, i bambini in famiglie a basso reddito hanno molte meno probabilità di completare la scuola rispetto a quelli in famiglie benestanti, ed è un divario che cresce rapidamente. Questo non è solo un male per chi ha la sfortuna di nascere da genitori sbagliati, ma rappresenta uno spreco enorme e crescente di potenziale umano – uno spreco che agisce sicuramente come un freno potente, anche se non evidente, alla crescita economica.

Ora non voglio affermare che affrontare il problema della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi aiuterebbe tutti. I molto ricchi perderebbero da maggiori tasse più di quanto guadagnerebbero da una migliore crescita economica. Ma è evidente che ridurre le disuguaglianze sarebbe una buona cosa, non solo per i poveri, ma per la classe media (mi dispiace per il senatore Santorum).

In breve, ciò che è bene per l’1% non è bene per l’America. Non siamo costretti a continuare a vivere in una nuova Belle Époque se non lo vogliamo.

(Traduzione di Gianni Mula)


 

 

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