La “sharing economy” in Sardegna. Possibile modello economico o una moda destinata a sparire? di Fabrizio Palazzari
L’articolo viene pubblicato anche sui siti di Aladinpensiero, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSedda, SardegnaSoprattutto.
La “sharing economy” si traduce con “economia della condivisione” o della “collaborazione”.
E’ un’espressione che, soprattutto in Italia, richiama esperienze di lunga tradizione, dal mutualismo alle cooperative fino alle imprese sociali. Si propone come un nuovo modello economico, capace di rispondere alle sfide della crisi e di promuovere forme di consumo più consapevoli basate sul riuso invece che sull’acquisto e sull’accesso e la condivisione piuttosto che sulla proprietà esclusiva.
In tempi recenti ha goduto di un improvviso successo grazie all’effetto concomitante di due fattori: da un lato lo sviluppo dei social network facilitato dalla diffusione di internet in mobilità; dall’altro la crisi che, con la riduzione del potere di acquisto, ha aumentato la sensibilità delle persone verso nuove forme di “consumo” e di abbattimento delle spese in moneta corrente.
Come di norma accade ai fenomeni che godono di improvviso successo, è facile trovare all’interno della stessa definizione delle pratiche spesso molto diverse tra loro. Crescono i servizi collaborativi digitali ossia quei servizi “peer to peer” che mettono in contatto le persone e che utilizzano la tecnologia. Per esempio per condividere la casa o una stanza, un passaggio in auto, gli oggetti, il tempo o per prestare il proprio denaro attraverso una delle numerose piattaforme di crowdfunding (raccolta di fondi).
In Italia, lo rivela uno studio Duepuntozero DOXA, il 13% della popolazione ha preso parte almeno una volta all’economia collaborativa. Per un confronto, negli Stati Uniti il 52 % delle persone hanno scambiato o prestato dei beni, mentre in Inghilterra si arriva al 64%. Secondo una ricerca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano abbiamo ad oggi circa 160 piattaforme di scambio e condivisione e circa 40 esperienze di autoproduzione. Dal 2011 a oggi i numeri sono più che triplicati, in particolare nell’ambito del turismo, dei trasporti, delle energie, dell’alimentazione e del design.
Da questo quadro, sebbene non esaustivo, si evince come la crisi economica e la tecnologia digitale stiano cambiando il modo di interagire delle persone. E’ difficile conoscere sin da adesso se questi cambiamenti saranno permanenti o se si ritornerà alla situazione precedente, e quindi al prevalere del desiderio di possesso in esclusività. In ogni modo, il perpetuarsi della crisi stessa e la sensazione che non si tratti di un evento ciclico e di sistema ma di un mutamento profondo dello stesso, portano a pensare che questi cambiamenti avranno comunque effetti di lunga durata.
Tutto questo dovrebbe, a mio avviso, entrare a far parte anche del dibattito interno alla nostra regione sul modello (o sui modelli) di sviluppo economico da perseguire e, conseguentemente, sulla nostra capacità di articolare delle politiche in grado di dare risposte concrete alle domande sempre più complesse e urgenti della società sarda.
Innanzitutto, ci si dovrebbe chiedere quanto questi modelli siano legati alla crisi oppure rispondano a un ripensamento più strutturale dei rapporti tra economia e società. In secondo luogo, se questo dovesse essere il caso, gli interrogativi da porci sarebbero molteplici. Per esempio: disoccupazione, emigrazione, invecchiamento della popolazione e spopolamento sono problemi che potrebbero essere mitigati grazie alla diffusione dell’economia “collaborativa”? Che ruolo attribuire al pubblico e alla Regione in questo scenario? Quello di solo regolatore o anche quello di attore, investitore e animatore di iniziative? E ancora, come affrontare il rapporto tra distruzione di valore nei settori tradizionali e creazione di nuovo valore (l’ambito in cui questa ambivalenza si sta ponendo in forma evidente è, ad esempio, quello dei servizi di ospitalità in forma “condivisa”, che se da una parte stanno mettendo in difficoltà il comparto alberghiero, dall’altra incidono positivamente sui consumi culturali e la ristorazione)?
Diverse esperienze internazionali ci vengono in aiuto. Per la loro tendenza a essere facilmente replicabili anche in altri contesti, non dovremmo tralasciare quanto sta per esempio avvenendo in Ecuador con il progetto per la creazione di una “società della conoscenza libera e aperta” (www.floksociety.org) o in Uruguay con il progetto “C3” (www.c3uruguay.com.uy), per la creazione di un “Circuito di Credito Commerciale” per le micro, piccole e medie imprese uruguaiane.
E la Sardegna cosa ha da offrire? In realtà per secoli varie forme di “economia condivisa” hanno caratterizzato il sistema economico pre-moderno delle nostre comunità. Il cosiddetto “aggiudu torrau”, ovvero “l’aiuto reciproco”, altro non era se non una forma di “sharing economy” tra persone. Inoltre, sono stati diversi gli intellettuali sardi che, come Eliseo Spiga nel “Manifesto delle Comunità di Sardegna”, hanno elaborato delle proposte concrete per la costruzione di un nuovo paradigma, culturale ed economico, basato sulla collaborazione e la solidarietà. Lo stesso tipo di paradigma che, nel 1958, fu tra i principi alla base dell’accordo tra il Movimento Comunità di Adriano Olivetti e il Partito Sardo d’Azione.
In altri termini anche una crisi profonda come quella che stiamo vivendo può essere un’occasione per cambiare. Orientarsi al recupero dei legami con il territorio, all’aumento della sua resilienza e alla necessità di un rinnovato sistema economico e finanziario che sia al servizio del bene comune, pone sicuramente i modelli basati sui principi dell’ economia di collaborazione come meritevoli di considerazione anche in Sardegna. Sia per la loro capacità di generare una domanda che altrimenti rimarrebbe latente e inespressa, che per il loro stimolo alla creazione di nuove iniziative d’impresa.
Anche in assenza di un intervento pubblico dall’alto questo processo, per la naturale tendenza di questi modelli verso la decentralizzazione, potrebbe comunque partire dal basso. In questo caso un ruolo di primo piano potrà essere svolto dai Comuni, a patto però che ci siano degli attori politici capaci di farsene carico.