Neoliberisti contro keynesiani o il problema è un altro? di Gianni Mula
I fatti della crisi economica.
Senza possedere sufficienti competenze non è facile tirar le fila dell’attuale dibattito sulla politica economica globalizzata. Sarebbe però un errore pensare che l’assenza di competenze impedisca di scegliere responsabilmente le decisioni da prendere e che quindi si sia costretti a credere agli “esperti” sulla fiducia. Consideriamo ad esempio la polemica in corso negli USA: è giusto che, sulla base di dati già largamente disponibili, si chieda all’1% più ricco della popolazione di pagare imposte sul reddito significativamente maggiori delle attuali, o chi fa queste richieste va paragonato ai nazisti che mandavano gli ebrei alle camere a gas solo perché erano ebrei? Questo genere di accuse è stato fatto di recente, nei confronti del presidente Obama, da un miliardario (in dollari) come Tom Perkins, fondatore della società di speculazione finanziaria Kleiner, Perkins, Caufield & Byers e trova accoglienza persino sulle pagine del Wall Street Journal, che pur avrebbe l’ambizione di essere un giornale in qualche maniera serio. In realtà, come segnala Paul Krugman in un post intitolatoParanoia of the plutocrats (I plutocrati sono paranoici), dal grafico riportato sotto (fonte: l’Ufficio Bilancio del Congresso americano) si vede che dal 1979 al 2013 la tassazione media dell’1% più ricco è semplicemente tornata ai livelli di prima dell’era reaganiana. Il che non significa certo che Obama somiglia ad Hitler, ma al massimo che sta diventando un pochino simile a Franklin Delano Roosevelt, il presidente che ha guidato gli Stati Uniti fuori dalla depressione del ’29.
Un altro grafico della stessa fonte, mostrato qui sotto, riporta l’andamento, all’incirca nello stesso periodo, di quanto rimane del reddito di ciascuno dopo il pagamento delle tasse. Anche qui si vede con chiarezza come l’1% al vertice della scala dei redditi abbia tratto il massimo beneficio: il 20% a reddito più alto ha visto la propria fetta della torta crescere del 10%, (e la maggior parte andare al 1% a più alto reddito), mentre tutti gli altri scaglioni hanno visto la propria fetta diminuire di circa il 2%. La conclusione è che negli Stati Uniti Obama sta almeno provando ad aumentare la tassazione a coloro la cui fetta del reddito nazionale sta continuando ad aumentare a dispetto della crisi.
Per capire il significato e l’importanza di questi due grafici non serve essere laureati o professori di economia, basta avere la sensibilità elementare che ci mette in grado di leggere i segni dei tempi. E non c’è bisogno di essere cristiani per capire che oggi il crescere senza limiti della disuguaglianza è appunto un segno del carattere disumano del tempo nel quale viviamo. Tuttavia, sia negli Stati Uniti che in Italia, e in pratica in tutti paesi sviluppati, il tema della disuguaglianza è considerato di scarso significato dalla generalità delle autorità economiche, siano esse di origine politica o tecnica, e siamo quindi ben lontani dal poter pensare a una politica di ridistribuzione dei redditi. E invece proprio una politica di ridistribuzione dei redditi è quella che servirebbe, anche se non fosse necessaria per rilanciare l’economia, perché livelli così alti di disuguaglianza introducono distorsioni che rendono disumana la società che li permette: è di questi giorni l’allarme lanciato da The Lancet (Il bisturi) la rivista medica più autorevole al mondo. In un editoriale firmato The Lancet, quindi della massima autorevolezza, pubblicato il 22/02/2014, intitolato Health in austerity: hard decisions for hard times (Sanità pubblica in tempi di austerità, decisioni difficili in tempi difficili) Lancet scrive che “ … 6 anni di recessione economica, aggravata da rozzi tagli di bilancio, hanno portato a visibili peggioramenti della situazione sanitaria greca. Nel numero odierno di Lancet, in articolo intitolato Greece’s health crisis: from austerity to denialism,(La crisi della sanità greca: dall’austerità al negazionismo) Alexander Kentikelenis e colleghi spiegano come misure miopi intese a migliorare l’economia del paese siano state controproducenti per la salute del popolo ellenico. Non c’è dubbio che il sistema sanitario greco avesse bisogno di una riforma. Ma gli inviti al governo greco a concentrarsi sulla riduzione della spesa, hanno avuto come conseguenza che i tagli sembrano essere stati fatti là dove potevano provocare il maggior danno, anziché la massima efficienza. Piuttosto che affrontare il problema di una diffusa pratica di esami medici non necessari e di consumo eccessivo di medicinali, perché questo avrebbe incontrato l’opposizione di interessi potenti, si è preferito tagliare su obiettivi meno difesi, come la sanità pubblica, la salute mentale, i programmi di contrasto alle prescrizioni non necessarie di medicinali. Le conseguenze purtroppo inevitabili sono state l’aumento nei casi di HIV e di altre malattie infettive, oltre a un aumento dei suicidi tra i cittadini in età lavorativa. Effetti più ampi, tra cui il peggioramento nelle condizioni di salute materna e infantile, sono segnalati anche in questo numero da un coro di lettere. Nel frattempo l’aumento delle spese connesse con cure e farmaci è stato trasferito sui consumatori, mentre l’accesso a servizi e prodotti è diminuito. [Tutto questo non era inevitabile, perché] …altrove in Europa, pur in analoghe condizioni di austerità, i paesi che hanno dato priorità alla protezione sociale (compresa la salute) e favorito l’uso di stimoli fiscali, hanno ottenuto risultati migliori per le loro popolazioni …“. Dall’articolo citato di Alexander Kentikelenis et al. riportiamo, in una mia traduzione, il brano sulle conseguenze indirette dell’austerità: “ … Se le politiche adottate avessero effettivamente migliorato l’economia, allora le conseguenze per la salute avrebbero potuto essere un prezzo che valeva la pena di pagare. Ma i tagli hanno avuto effetti economici negativi, come è stato riconosciuto dal Fondo Monetario Internazionale. Il PIL è sceso drasticamente e la disoccupazione è salita alle stelle a causa dell’austerità economica, con rischi sanitari aggiuntivi per la popolazione, determinati dal deterioramento socioeconomico. I servizi di salute mentale sono stati gravemente colpiti. È normale che rapidi cambiamenti socio-economici possano danneggiare la salute mentale a meno che non si ricorra ad adeguate politiche sociali. In Grecia, tuttavia, i fornitori di servizi pubblici e non-profit hanno ridimensionato la loro attività, e ridotto o licenziato il personale; sono stati abbandonati i piani per lo sviluppo di servizi psichiatrici per l’infanzia, e il finanziamento statale per la salute mentale è diminuito del 20% tra il 2010 e il 2011, e di un ulteriore 55% tra il 2011 e il 2012. Le misure di austerità hanno limitato la capacità dei servizi di salute mentale di far fronte all’aumento del 120% delle richieste di servizi negli ultimi 3 anni, col risultato di un sostanziale deterioramento dello stato di salute mentale generale della popolazione. Gli studi indicano un aumento di 2,5 volte dei casi di depressione maggiore, dal 3,3 % del 2008 al 8,2% nel 2011, con le difficoltà economiche come fattore principale di rischio. Un altro studio riferisce di un aumento del 36% tra il 2009 e il 2011 nel numero di persone che hanno tentato il suicidio nel mese precedente l’indagine, con un rischio più elevato per quelli in notevoli difficoltà economiche. Le morti per suicidio sono aumentate del 45% tra il 2007 e il 2011, pur partendo da una tendenza alla diminuzione. Tale incremento è stato inizialmente più pronunciato per gli uomini, ma dati del 2011 dell’Istituto greco di statistica indicano un forte aumento anche per le donne. … Un rapporto delle Nazioni Unite del 2012 ha sottolineato che “il diritto alla salute e l’accesso alla sanità non è rispettato per tutti i bambini [in Grecia ]“. Gli ultimi dati disponibili evidenziano che tra il 2008 e il 2010 c’è stato un aumento del 19% nel numero di bambini che nascono sottopeso. I ricercatori della Scuola nazionale greca di Sanità pubblica hanno registrato tra il 2008 e il 2011 un aumento del 21% nei nati morti, attribuibile al ridotto accesso ai servizi sanitari prenatali per le donne incinte. Tra il 2008 e 2010 il calo a lungo termine della mortalità infantile si è invertito, con un aumento del 43% delle morti, sia neonatali che post-neonatali. Le morti neonatali fanno pensare a barriere nell’accesso alle cure tempestive ed efficaci durante la gravidanza e primi anni di vita, mentre i decessi post-neonatali indicano un peggioramento delle condizioni socioeconomiche“. Sono dati che hanno fatto parlare di “strage degli innocenti” Andrea Tarquini, corrispondente da Atene di Repubblica, che nel suo servizio sulla notizia ha scritto: “ … cifre da rabbrividire, che danno un’immagine del paese dove nacquero la democrazia, filosofia, matematica, cultura e scienze europee, ridotto ormai ai livelli dei più derelitti e sfortunati paesi del Terzo mondo. E sono dati che lanciano di fatto un pesantissimo atto d’accusa alle grandi potenze e ai poteri forti dell’eurozona e del mondo economico e finanziario mondiale. Tanto più se si pensa quanto in Germania e Francia industrie militari e dei lavori pubblici e ingegneria civile, e le banche francesi e tedesche che finanziavano i loro affari, abbiano guadagnato dalla sperperosa, irresponsabile politica della spesa facile dei vari governi greci, arricchendosi con fastose, faraoniche opere pubbliche ed enormi spese militari (l’aviazione greca ad esempio ha il doppio di aerei di quella francese, la marina greca ha ordinato il doppio di U-Boot dell’ultimo modello di quella italiana)“. Dopo questo excursus sulle conseguenze sociali della politica economica siamo ora in migliori condizioni per capire che risposta dare alla domanda che ponevo all’inizio: ma chi ha ragione in economia? I neoliberisti che manovrano le leve della politica economica dei governi occidentali, cioè i responsabili delle (secondo loro) necessarie misure di austerità praticate all’unisono dai vari governi, oppure i tanti economisti almeno altrettanto qualificati che si rifanno alla rivoluzione nel pensiero economico introdotta negli anni ’30 del secolo scorso da John Maynard Keynes? Keynes fu poi nominato Lord, cioè pari d’Inghilterra, proprio per il successo della sua politica nel superare la grande depressione del ’29. Questa politica fu adottata sino agli anni ’70 da tutti i governi occidentali. Ma dagli anni ’70 in poi, con i governi di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti, abbiamo assistito all’ascesa dei neoliberisti, cioè della cosiddetta Scuola di Chicago di Milton Friedman, i cui esponenti, all’insegna della teoria della ricaduta favorevole (trickle down), recentemente ricordata come nefasta e mai confermata dai fatti persino dal Papa (Evangelii Gaudium §54), hanno di fatto preso il controllo dei ministeri economici in pressoché tutti i governi occidentali. Ad essi si contrappongono gli economisti keynesiani che rifiutano quella teoria, pur rimanendo sempre all’interno della logica dell’economia di mercato. La tesi dei keynesiani è che, sia in linea di principio che in linea pratica, una crisi di liquidità come l’attuale va contrastata nell’immediato con misure di sostegno alla domanda. Chi ha ragione tra questi due gruppi è un argomento capace di generare infinite controversie, soprattutto, come ho mostrato nel mio post “Una politica economica folle“, a causa della tendenza dei neoliberisti ad arrampicarsi sugli specchi pur di non confrontarsi realmente con le obiezioni che vengono loro fatte. Se la crisi non fosse così grave potremmo perfino lasciare che gli esperti se la vedano tra loro. Purtroppo di fronte alle mille stragi degli innocenti, per usare l’espressione scelta da Tarquini, oggi perpetrate in tutto il mondo, non solo in Grecia, le possibilità di stare alla finestra ad aspettare chi vince la guerra tra gli esperti appaiono decisamente ridotte, anche per persone che non vogliano andare oltre le proprie competenze. Capita a proposito, a questo punto, il gradito intervento dell’amico Giovanni Dotti che, in un breve commento al post che ho appena citato, mi chiede che cosa penso di Renzi e del suo programma di riforme istituzionali e sociali, ovviamente in ambito italiano, precisando anche di avere le idee in materia piuttosto confuse (anche se finora ha sostenuto il giovane “rottamatore”). La condizione di perplessità di Dotti è certo largamente diffusa tra gli osservatori, come dire, neutrali (vale a dire tra le persone serie che prima di parlare pensano, se non hanno ancora maturato una scelta davvero personale). Anche la vaga preferenza per il rottamatore è largamente giustificata dall’impresentabilità del suo avversario esterno (al di fuori del partito democratico) e dall’inconsistenza dei suoi avversari interni. Tuttavia, per giudicare autonomamente sia il fenomeno Renzi che le scelte da fare in politica, ciò di cui abbiamo bisogno oggi è renderci conto che il problema vero non è tanto la contesa tra neoliberisti e keynesiani (anche se già riuscire a sottrarsi alla morsa di una politica economica svergognatamente centrata sul modello thatcher-reaganiano sarebbe gran cosa) quanto capire quali forze politiche sono davvero interessate a perseguire una politica economica che ci faccia uscire dalla crisi e, soprattutto, quali principi dovrebbero ispirarla. Questo è l’argomento che sarà oggetto del mio prossimo post. Per ora mi limito ad affermare che l’economia non è, e non potràmai essere, una scienza “dura” (posto che le scienze “dure” come la matematica e la fisica siano sempre in grado di stabilire leggi di validità universale). Al contrario, è sempre la razionalizzazione di punti di vista e interessi spesso non dichiarati, magari del tutto legittimi, ma soggettivi. Il fatto che di solito esprima i suoi risultati in termini quantitativi non li rende solo per questo più degni di attenzione di ciò che ci salta agli occhi in termini di puro buon senso. A sostegno di questa mia affermazione mi piace citare da un recente saggio di Silvano Petrosino dal titolo “Elogio dell’uomo economico” (Vita e Pensiero 2013). Nel saggio, davvero molto stimolante, il filosofo morale dell’Università Cattolica di Milano e Piacenza scrive, a pag. 41, «Il calcolo economico, dunque, resta senza alcun dubbio un “calcolo”, anche se poi in quanto “economico” esso non può mai essere semplicemente un mero calcolo. Ecco il punto essenziale, spesso misconosciuto:l’economia deve calcolare, non può e non deve evitare di calcolare, ma deve farlo non matematicamente, bensì economicamente, vale a dire in ordine a “una giustizia” (come essere giusti con la dismisura dell’unico? con la molteplicità innumerabile degli unici?) che in quanto tale non può mai essere appiattita alla legge e risolta nel rispetto di una norma generale». Nel rinviare al mio prossimo post una discussione più approfondita su questi temi, e quindi sul come si possa davvero combattere l’ineguaglianza disumana e disumanizzante che affligge la società contemporanea, vorrei chiudere questo con le parole di quello straordinario personaggio che è José (Pepe) Mujica, attuale presidente dell’Uruguay. Parole che possono anche valere come una prima risposta. Nel suo discorso alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile che si è tenuta a Rio de Janeiro nel giugno del 2012, Mujica disse: “Durante tutto il pomeriggio abbiamo parlato di sviluppo sostenibile, di mettere in salvo le masse dagli artigli della povertà. Ma che cos’è che ci frulla nella testa? È il modello di sviluppo e di consumo che caratterizza le società del benessere? Io pongo questa domanda: che cosa accadrebbe al nostro pianeta se il popolo indiano avesse lo stesso numero di auto per famiglia che il popolo tedesco? Quanto ossigeno rimarrebbe da respirare per noi? Più chiaramente: il mondo di oggi ha gli elementi materiali per consentire a 7 o 8 miliardi di persone di godere dello stesso livello di consumi e sprechi delle società occidentali più ricche? Sarà mai possibile raggiungere quest’obiettivo? Oppure dovremmo una buona volta avviare un diverso tipo di discussione? Perché siamo stati noi a creare questa civiltà: che è figlia del mercato e della concorrenza, che ha generato un progresso materiale prodigioso ed esplosivo. Ma l’economia di mercato ha creato la società di mercato. E ci ha dato questa globalizzazione, che significa essere consapevoli dell’intero pianeta. Però: siamo noi a governare la globalizzazione o è la globalizzazione a governare su di noi ? È possibile parlare di solidarietà e di “stare tutti insieme” in un’economia basata sulla concorrenza spietata? Fino a che punto può arrivare la nostra fraternità? Non voglio sminuire l’importanza di questo evento. Al contrario, voglio dire che siamo di fronte a una sfida colossale e che la crisi in cui ci troviamo immersi non è una crisi ecologica, ma una crisi politica. Oggi l’uomo non governa le forze che ha scatenato, ma sono queste forze a governare l’uomo e la sua vita. Perché noi non veniamo in questo pianeta per portare avanti uno sviluppo comunque, senza alcuna discriminazione. Noi veniamo in questo pianeta per essere felici. Perché la vita è breve e scivola via. E nessun bene materiale vale quanto la vita, questo è il fatto fondamentale. Ma se la vita ci scivola tra le mani, a causa del lavoro e del superlavoro per poter consumare di più, è per mantenere in funzione il motore della società dei consumi, perché, in ultima analisi, se il consumo è paralizzato, l’economia si ferma, e se si ferma l’economia, appare per ognuno di noi lo spettro della recessione. Ma è l’iper-consumo che sta danneggiando il pianeta. E questo iper-consumo è generato apposta, riducendo la vita utile dei beni prodotti, al fine di massimizzare i profitti. Così, una lampadina non può durare più di 1000 ore. Ma ci sono lampadine che possono durare 100.000 ore! Ma queste non possono essere fabbricate, perché il problema è il mercato, perché dobbiamo lavorare per sostenere una civiltà “usa e getta”, e così finiamo intrappolati in un circolo vizioso. Questi sono problemi di natura politica, che ci dicono che è il momento di iniziare a combattere per una cultura diversa. Non sto parlando di un ritorno ai tempi delle caverne, o di erigere un “monumento all’arretratezza”. Ma non possiamo continuare così, senza fine, ad essere governati dal mercato. Al contrario spetta a noi governare il mercato. Questo è il motivo per cui dico, a mio modesto modo di pensare, che il problema che ci troviamo di fronte è politico. I vecchi pensatori, Epicuro, Seneca e anche gli Aymara la mettono così: una persona povera non è qualcuno che ha poco, ma una che ha bisogno infinitamente di più di quello che ha, e sempre di più. È questa è una questione culturale. Così vedo con favore gli sforzi fatti e gli accordi compiuti. E aderirò a loro, come governante. Mi rendo conto che alcune cose che sto dicendo non sono facili da digerire. Ma dobbiamo renderci conto che la crisi idrica e la crisi ambientale non sono la causa delle difficoltà. La causa è il modello di civiltà che abbiamo creato. E la cosa che dobbiamo ripensare è la nostra maniera di vivere. Faccio parte di un piccolo paese ben dotato di risorse naturali per la vita. Nel mio paese ci sono poco più di 3 milioni di persone. Ma abbiamo circa 13 milioni di mucche, tra le migliori al mondo, e circa 8 o 10 milioni di eccellenti pecore. Il mio paese è un esportatore di prodotti alimentari, latticini, carne. È costituito per il 90% da terreno fertile e coltivabile. I miei compagni di lavoro hanno combattuto duramente per la giornata lavorativa di 8 ore. E ora la stanno proponendo di sei. Ma se la persona che lavora sei ore fa due lavori finisce che lavora più a lungo rispetto a prima. Ma perché? Perché ha bisogno di pagare le rate per la moto e la macchina, sempre più rate, e quando ha finito, si rende conto che è diventato un vecchio reumatico come me, e la sua vita è già finita. E a questo punto ci chiediamo: è questo il destino della vita umana? Ciò che dico è molto semplice: lo sviluppo non può andare contro la felicità. Si deve lavorare a favore della felicità umana, dell’amore sulla Terra, delle buone relazioni fra le persone, della cura dei bambini, degli amici, avendo garantiti i nostri bisogni fondamentali. Questo è il tesoro più prezioso che abbiamo, la felicità. Quando lottiamo per l’ambiente, dobbiamo ricordare che l’elemento essenziale dell’ambiente si chiama felicità umana”. Lunedì 24 Febbraio,2014 Ore: 16:54 |