QUANDO PRETI ED EBREI DIVIDEVANO LO STESSO CIBO, di Anna Foa
Gli studi degli ultimi anni stanno mettendo sempre più in luce il ruolo generale di protezione che la Chiesa ha avuto nei confronti degli ebrei durante l’occupazione nazista dell’Italia. Da Firenze, con il cardinal Dalla Costa proclamato Giusto nel 2012, a Genova con don Francesco Repetto, anch’egli Giusto, a Milano con il cardinal Schuster, e via via fino naturalmente a Roma dove la presenza del Vaticano, oltre all’esistenza delle zone extraterritoriali, consentì il salvataggio di migliaia di ebrei.
Proprio a proposito di Roma, le modalità con cui fu portata avanti l’opera di ricovero e salvataggio dei perseguitati erano tali da non poter essere il frutto soltanto di iniziative dal basso ma erano chiaramente coordinate oltre che consentite dai vertici della Chiesa.
Si cancella così l’immagine proposta negli anni Sessanta di un papa Pio XII indifferente alla sorte degli ebrei o addirittura complice dei nazisti.
Vorrei mettere qui in rilievo che questa più recente immagine dell’aiuto prestato agli ebrei dalla Chiesa nasce non da posizioni ideologiche filocattoliche, ma soprattutto da ricerche puntuali sulla vita degli ebrei durante l’occupazione, dalla ricostruzione di storie di famiglie o di individui. Dal lavoro sul campo, insomma.
Il rifugio nelle chiese e nei conventi emerge in continuazione dai racconti dei sopravvissuti, percorre come un filo rosso le testimonianze orali raccolte negli anni in Italia – come il corpo vastissimo delle testimonianze di ebrei italiani rese alla Shoah Foundation –, si ritrova presente nella maggior parte delle memorie dei contemporanei. È raccontato come un dato di fatto, appartiene al campo delle evidenze, con tutte le diversità delle situazioni, dai conventi che chiedono una retta a quelli che accolgono gratis gli ebrei, i quali a loro volta danno una mano nel lavoro quotidiano come nel caso delle ragazze ebree che aiutano a fare da maestre ai bambini nella scuola delle Maestre Pie Filippini a Roma Ostiense, caso raccontato da Rosa Di Veroli.
È insomma un’immagine che è il frutto non del dibattito sul tema Chiesa e Shoah ma anche e soprattutto della ricerca volta a illuminare la vita e il percorso degli ebrei sotto l’occupazione nazista.
La dibattuta “quaestio” storiografica su Pio XII e gli ebrei ha per molti decenni frenato la ricerca e spostato sul terreno ideologico ogni tentativo di fare chiarezza sui fatti storici. Penso invece che per scrivere la storia del rapporto della Chiesa con gli ebrei nell’Italia occupata sia innanzi tutto necessario sgombrare il campo da questa questione.
La domanda principale, cioè, non può essere quella del rapporto tra lo spirito profetico di un papa e i compromessi diplomatici di un altro papa, ma quella su quanto e fino a che punto e anche con quante opposizioni interne la Chiesa e il papa fossero alla guida dell’opera di salvataggio degli ebrei italiani. Le due questioni sono distinte e vanno, io credo, tenute distinte.
L’indagine sulle modalità concrete dell’aiuto agli ebrei, sulla presenza degli ebrei nei conventi e nelle chiese, sulla vita degli ebrei dentro i rifugi ecclesiastici, comincia a mettere in luce un aspetto su cui, mi sembra, poco si è riflettuto finora, quello del cambiamento di mentalità che ne può essere derivato.
È vero che ebrei e cristiani avevano convissuto per secoli, tra le mura dei ghetti e nelle antiche giudecche, in Italia e particolarmente a Roma, ma questa convivenza aveva raramente coinvolto degli ecclesiastici. Ora, di necessità per l’urgenza della persecuzione, preti ed ebrei dividevano lo stesso cibo. Le donne ebree passeggiavano nei corridoi dei conventi di clausura, gli ebrei imparavano il Padre Nostro e si infilavano la tonaca come precauzione in caso di irruzioni tedesche e fasciste. Rosa Di Veroli, richiesta di pregare insieme con gli altri in chiesa, lo faceva ma recitando sottovoce lo Shemà Israel.
C’era un’effettiva speranza da parte cristiana di toccare il cuore indurito degli ebrei e spingerli al battesimo? E quegli ebrei che si battezzarono lo fecero in seguito a una vera richiesta o per il fascino di un mondo che non conoscevano e che offriva loro protezione? Viene in mente la Lia Levi di “Una bambina e basta”, attratta per un breve momento dal battesimo.
Parliamo ovviamente dei casi di conversione nei conventi, non di quelle conversioni, vere o simulate che fossero, fatte nel 1938 nella speranza di evitare i rigori delle leggi razziste, quando a Milano il cardinale Schuster battezzava all’alba gli ebrei in Duomo e i giornali antisemiti più radicali vedevano in questi battesimi “il cavallo di Troia degli ebrei nella società ariana e cristiana“.
Tutto questo mette certamente in moto nelle due parti esitazioni e timori nei confronti di un rapporto tanto stretto e quotidiano.
Nei sacerdoti e soprattutto nelle suore questi timori possono prendere la strada dell’impulso verso la conversione, inserendosi così su un filone più consolidato e tradizionale di rapporto. Così, la quotidianità e l’attenzione trovano giustificazione e conforto nella speranza di portare un ebreo al battesimo.
Negli ebrei, invece, il timore atavico di essere spinti verso la conversione porta talvolta (emergono casi del genere nella documentazione orale) a non prendere nemmeno in considerazione l’idea di trovare rifugio in un’istituzione ecclesiastica.
Ma può succedere che nulla di tutto questo si realizzi. Che dire, a Roma, della chiesa di San Benedetto al Gazometro, dove molti ebrei trovarono rifugio, e del suo parroco allora giovanissimo, don Giovanni Gregorini, che trovava il tempo di fare ogni giorno due chiacchiere con uno dei rifugiati ebrei, uomo di una certa età e molto religioso, parlando con lui delle rispettive religioni, e dei loro rapporti? Qui, dalle due parti, c’è rispetto reciproco e curiosità dell’altro.
Insomma, io credo che questa familiarità nuova e improvvisa, indotta senza preparazione dalle circostanze, in condizioni in cui una delle due parti era braccata e rischiava la vita ed era quindi bisognosa di maggior “carità cristiana”, non sia stata senza conseguenze sull’avvio e sulla recezione del dialogo. Un dialogo che arriverà molto più tardi, certo, e avviato soprattutto a livello teorico, mentre questo ci appare come un dialogo dal basso, fatto di pasti consumati insieme e di discorsi senza pretese, anche per superare le ansie di un rapporto sconosciuto fino a quel momento.
Così, le suore di un altro convento romano aggiungevano il lardo alla zuppa comune solo dopo averla distribuita alle ebree rifugiate da loro. Anche questa è una forma di dialogo dal basso, mi sembra.
Nel primo dopoguerra, nel momento in cui prevaleva la rimozione della Shoah, questo processo dialogico è stato in parte bloccato, da una parte perché gli ebrei erano intenti a ricostruire il proprio mondo e la propria identità dopo la catastrofe, dall’altra perché i cattolici sembravano esser tornati sulle posizioni tradizionali in cui la speranza della conversione era più forte del rispetto.
È forse questa chiusura dei primi anni dopo la Shoah a impedire lo sviluppo di quel dialogo dal basso, alla pari di quello ai livelli più alti, come dimostra il fallimento dell’incontro di Jules Isaac con Pio XII.
Comunque fosse, agli inizi degli anni Sessanta, con “Il vicario” di Hochhuth, su questo processo sarebbe stata proiettata l’ombra della leggenda nera di Pio XII, con il risultato di intralciare e opacizzare la memoria e il peso di quel primo percorso comune.
Oggi è il momento giusto per riprendere a indagarlo.