Ottorino Pietro Alberti, l’umanista barbaricino e cagliaritano, di Gianfranco Murtas

Debbo una spontanea pubblica confessione. All’ultima (e come sempre bellissima) edizione dell’Almanacco di Cagliari, anno 2014, ho consegnato un articolo dedicato alla personalità indimenticata dell’arcivescovo Ottorino Pietro Alberti, con un errore materiale gravissimo, rimbalzato dal testo al sommario steso dall’incolpevole direttore Vittorio Scano e passatomi anch’esso per la correzione delle bozze. Ho retrodatato di un anno la morte del presule, nella sua Nuoro: segnalata al 2011 invece che al 2012.

Un errore, o refuso, e del genere, in questo tipo di articoli, è molto grave. E dunque subito, per scrupolo di coscienza e intenzione riparatrice, ho pensato a come rimediare in aggiunta alle scuse girate al direttore/editore della rivista prestigiosa e cara al sentimento dei cagliaritani. Ho trovato la soluzione anticipando qui, nel sito della non meno prestigiosa Fondazione Sardinia, un testo inedito riguardante il compianto don Ottorino, al quale – dopo una prolungata burrasca – mi legarono tre lustri di intensa privata amicizia.

Si tratta del copione – precisamente una autobiografia simulata – che affidai all’arte affabulatoria di Gianluca Medas per la presentazione al pubblico numeroso riunitosi, lunedì 10 settembre 2012 – a soli due mesi da quel lutto bruciante –, al teatro di Sant’Eulalia. La manifestazione fu all’insegna di “Omaggio ad Ottorino Pietro Alberti, vescovo umanista” e onorò la grata memoria del presule perduto con la ricostruzione – sulla base delle risultanze di una ricerca documentaria e di molte confidenze da lui stesso partecipatemi fra Cagliari e Nuoro – della sua formazione, negli anni fra infanzia, adolescenza e prima giovinezza, fino ai traguardi accademici e alle massime responsabilità ecclesiali.

Mancava la parte, o la gran parte, dell’episcopato cagliaritano, che mi ero riservato ad altro momento e che sarà presentata spero entro questo stesso anno.

Davvero da un male di un refuso imbecille può nascere il bene di un’intenzione illuminata. E adesso, onorando di nuovo la memoria del vecchio padre, mi piace veramente allargare a molti l’opportunità di ripensare con gratitudine ed affetto (non incidendo qui un giudizio che può anche essere critico su taluni aspetti del suo governo pastorale) alla sua persona e alla sua generosità.

Con Nuoro nel cuore, sempre

Nuoro fu fatta provincia il 1° gennaio 1927, settant’anni dopo che la precedente era stata soppressa. Mio padre Gustavo era il capo dell’Ispettorato agrario provinciale, nativo dell’Aretino, in Sardegna allora già da qualche anno. Nuorese invece mia madre Nicolosa, una Costa – della famiglia cui apparteneva la tenuta di Valverde, giù del Monte Ortobene, con una chiesetta rurale rimontante alla fine del 1600: Nostra Signora di Valverde. Per me una seconda casa già da bambino: umile che di più non è possibile, ma… nostra. E infatti lo diciamo: “Nostra” Signora di Valverde. ”Nostra”, della famiglia e della comunità.

Io porto un bel cognome toscano e dentro di me convivono tante suggestioni, quelle che da ogni città della Toscana zampillano con la storia dei secoli – Firenze e Lucca, Siena e Pisa, Livorno e Arezzo (la provincia di mio padre, che era del Casentino, sul confine con la Romagna e l’Umbria) – ma mi sento sardo e nuorese tutto intero. Dalle origini toscane ho preso quel tanto di universalità che c’è nella grande letteratura e nella poesia, nell’arte – Leonardo, Michelangelo… – e anche nel pensiero filosofico e politico, ma infine è… dal latte materno che noi siamo fatti.

Io nacqui da quell’amore sardo-toscano nel dicembre di quello stesso 1927, il 17, era un sabato. Ero il secondo: Salvatore prima di me; dopo di me sono venuti Pierino e Mariolina.

Da buon toscano, mio padre era portato al linguaggio colorito, ma colorito colorito proprio alla toscana… Mi ricordo che padre Ernesto Balducci, che era figlio di un minatore maremmano dalla bestemmia facile, sosteneva che quelle bestemmie erano delle vere preghiere, perché riportavano il nome di Dio, della Vergine santa e di tutto il paradiso nelle situazioni quotidiane della vita. E’ una interpretazione un po’ azzardata, ma che mi piace…

Mia madre era invece religiosissima secondo gli schemi tradizionali, austeri e morigerati del suo tempo; frequentava la cattedrale di Santa Maria della Neve e anche la chiesetta-santuario delle Grazie – “Su campanil’e ss’oro, / sas campanas de pratta, / sas  funes de seda…” –, bella nella sua povertà dei secoli, nel quartiere di Sèuna. Bella proprio come San Pietro a Roma.

D’altra parte mi ricordo che Vindice Satta, il figlio di Sebastiano il poeta, sosteneva che la nostra cattedrale, che è di metà Ottocento (dunque non antica e non ricca di marmi e pitture), era la più bella del mondo. Perché il metro di giudizio qui è il sentimento, è esattamente ciò che da quegli altari e da quelle cupole viene al nostro cuore.

Nuoro – 8.000 abitanti quando sono nato io, e tutta la Sardegna 900.000 – aveva ed ha queste chiese umili e belle, a Sèuna e a Santu Predu e nell’altro quartiere del corso Garibaldi, l’antica bia Majore… “Braghera, prena ‘e nuscos, in cravatta / oje ses bella, tosta presumìa. / Atteras bortas, cando ses naschia, / fis d’anticas bardanas un’andatta…”.

Anche Santu Càralu era ed è umile e bella, vicino alla casa della Deledda e anche di Francesco Ciusa lo scultore, che adesso vi è sepolto.

La storia antica e moderna di Nuoro conta almeno trenta fra chiese e cappelle, rurali e urbane… Ai piedi dell’Ortobene c’è la Solitudine… Il corpo della Deledda vi fu portato da Roma, a vent’anni e più dalla morte, nel giugno 1959: io ero prete da tre anni, e lavoravo alla Lateranense da tre mesi soltanto. 

Nuoro poi aveva ed ha ancora, almeno in parte, grandi feste religiose: quella del Redentore, a fine agosto: – “… a voi tutti che al cèrulo / cadere della sera / volgete gli occhi oranti verso l’immenso altare / dell’Ortobene e al bronzeo Redentore sorgente / tra fior di rosee nuvole offrite il vostro cuore…”, versi di Grazia Deledda.

E poi le altre, io bambino e adolescente ho partecipato a tutte le feste e alle novene di prima e di dopo la festa:

la Madonna delle Grazie – vengono da tutta la Barbagia, venivano in costume un tempo, e i signori del municipio offrivano 12 ceri alla Madonna, 12 quanti erano i rioni di Nuoro quando il paese fu salvato dalla peste…;

e ancora il Salvatore, e Sant’Isidoro – Santu Sidore –, e San Giuseppe…

Quando nacqui io, per dire delle cose di Chiesa, era vescovo monsignor Maurilio Fossati, oblato di San Carlo, piemontese, che l’anno prima aveva fondato il giornale “L’Ortobene” il quale un po’ avrebbe salvato la Chiesa dalle eccessive pressioni del regime fascista, dico soprattutto negli anni ‘30; monsignore intanto era stato però trasferito a Sassari e dopo a Torino dove fu fatto cardinale.

Con la nascita della provincia le autorità erano: Dinale il prefetto, Pepi il questore, Bandino il podestà, Ticca il segretario federale, Apicella il presidente dell’Amministrazione provinciale. Anche mio padre, come capo dell’Ispettorato agrario, era una autorità, anche se magari di secondo piano. Fu pure messo nel direttivo dell’Opera Nazionale Dopolavoro, responsabile per l’insegnamento professionale della sezione agraria.

Mi hanno raccontato che proprio cinque o sei settimane prima che io nascessi, a Nuoro ci fu gran festa per il quinto anniversario della Marcia su Roma e l’insediamento nel nuovo segretario federale. C’erano migliaia di persone, quel giorno, nella piazza del Littorio, cioè San Giovanni, vicino a casa, provenienti da tutta la provincia: iscritti al partito fascista, avanguardisti, balilla, piccole italiane, i fasci maschili, le madri e vedove di guerra, i volontari di guerra, i mutilati, i combattenti, i sindacati ecc. Presente anche il vescovo Maurilio, che benedisse tutti e lodò il duce per aver valorizzato la religione “che sotto altri governi veniva da molti calpestata”.

Sotto un profilo per me più esaltante, vorrei ricordare che giusto una settimana prima della fatidica mia nascita, a Stoccolma la mia compaesana Grazia Deledda – sempre lei! – ricevette il Nobel per la letteratura: Nobel per il 1926, ritirato nel ‘27.

Ci furono molte trasformazioni, molti miglioramenti nei servizi, a Nuoro, in quegli anni: sì, la luce elettrica l’avevano portata nel 1915, ma la viabilità, i servizi dei postali, ecc. erano un disastro, e il telefono! c’erano dieci utenze soltanto in città ed a cento arrivarono quando io entrai in prima elementare. Proprio allora le ferrovie complementari presero a collegare Macomer a Nuoro, sicché a venire da Cagliari, o a partire per Cagliari si poteva triangolare…

Fu istituito il Consiglio provinciale dell’economia (in sostanza la Camera di Commercio), che cercava di promuovere lo sviluppo in Barbagia, Baronia, Ogliastra… Era stata costruita la nuova scuola elementare a Tanca ‘e prades – inizialmente intitolata al duce poi a Ferdinando Podda di Loceri eroe della prima guerra mondiale –, si erano già conclusi o stavano per concludersi i lavori per l’acquedotto Osporrai e le canale per la distribuzione dell’acqua potabile, quelli della rete fognaria, furono realizzati il palazzo delle poste, l’ospedale San Francesco, il dispensario antitubercolare, il mercato, naturalmente furono impiantati gli uffici che l’essere capoluogo di provincia comportava, le banche, ma anche le case popolari (per i molti impiegati che arrivavano quasi raddoppiando la popolazione in pochi anni), il campo sportivo al Quadrivio e le scuole superiori, dalle magistrali al mio liceo Giorgio Asproni…

Il ginnasio sì, quello c’era da cinquant’anni, ma il liceo no: o Cagliari o Sassari. E il liceo venne – almeno come delibera – , appunto in quel 1927 della mia nascita. Pochi anni dopo, nel ’34, sorse la biblioteca Satta, cui il liceo Asproni contribuì insieme con altre istituzioni…

Negli anni della guerra si temevano le incursioni aeree, dato che vicino alla città funzionava la sezione Artiglieria, con 300 operai militarizzati, ed a Prato Sardo avevamo le Polveriere. I bombardamenti avrebbero semidistrutto Cagliari, costringendo quasi tutti a sfollare: diverse famiglie cagliaritane vennero proprio da noi, in Barbagia.

A Nuoro era stato diffuso un avviso di preallarme, perché potevamo costituire un “obiettivo militare”. Nei manifesti si davano istruzioni sull’oscuramento, su come proteggere la centrale idroelettrica del Cedrino, si elencavano le precedenze per la protezione delle istituzioni: Prefettura, Opera Balilla, Milizia Volontaria, Poste ed Ospedale, Genio Civile e Banca d’Italia, Carabinieri e Carceri, Intendenza e Provincia… L’allarme avveniva con due segnali di 90 secondi, con 70 secondi di intervallo…

Nel 1942 avemmo la visita del duce, che era già venuto nel ’35: mi ricordo i canti e gli evviva in piazza del Littorio; tamburi e inni guerrieri, anche di noi bambini, io avevo otto anni allora. Nel ’34 accogliemmo Umberto, principe di Piemonte; nel ’37 il maresciallo Badoglio, allora mussoliniano fedele.

Un po’ marziale e un po’ sportiva, Nuoro. Nel ’29 sorse la polisportiva Nuorese, che iscrisse due o tre anni dopo la sua squadra di calcio al torneo regionale di prima divisione. Nel ’33 fummo tappa del giro ciclistico di Sardegna, organizzato dalla Torres per festeggiare il 30° della sua fondazione. Nel ’35 esordì la pallacanestro e anche il motociclismo: si costituì il Moto Club Nuoro e si corse la Nuoro-Cagliari… In quegli stessi anni della mia infanzia – fra elementari e ginnasio – si affermò anche un’altra disciplina che avrebbe dato gloria alla città: il sollevamento pesi…

Io non ero, anche per indole, granché sportivo, ma forse proprio per questo seguivo con interesse, come lo poteva un ragazzino…

Potrei dire degli anni del ginnasio e del liceo. Il nostro preside era il professor Priamo Marras – autentico maestro di latino e greco –, poi preside del Pacinotti a Cagliari. Eravamo un bel gruppo, dico come studenti, ma un bel gruppo era anche quello dei professori: con Mario Ciusa Romagna di lettere italiane, Giovanni Ciusa Romagna di storia dell’arte e anche di latino – erano i due Ciusa, nipoti del grande Francesco! –, Gavino Pau dottissimo e rigoroso marxista anche se libertario, di storia e filosofia…

A proposito del quale rammento che nel 1946, l’anno del referendum – ero in seconda – mi cacciò dall’aula perché mi ero presentato con un distintivo dell’Unione Monarchica Italiana, alla giacca. Me ne dovetti stare qualche quarto d’ora nel corridoio.

Del professor Pau (che noi ragazzi, quando ne parlavamo, chiamavamo soltanto “Gavino”, e che era un bravo violinista e anche un falegname, anzi un ebanista provetto) vorrei ricordare, en passant, che curò un bel capitolo – “Racconto quasi vero, dove si parla di Nuoro e di certe sue antiche vicende” – in un libro edito da Fossataro negli anni ‘70 (“Vecchia Nuoro”) del quale io ho scritto la prima parte, “Nuoro nella storia”.  Curioso: insieme, il vecchio professore e l’ex studente ormai cresciuto, prete e professore a sua volta alla Lateranense…

Il professor Pau inizia così il suo capitolo: “Il mio paese è il più bello del mondo; non perché è il mio, ma perché è il più bello. Favore di dèi e carità di  natura lo hanno toccato, come solo accade ai paesi più belli del mondo”. Potrei sottoscrivere, e vale qui il discorso che facevo per la cattedrale. Potrei sottoscrivere anche quella sintesi impressionistica che lui propone e che il grande Salvatore Satta ha in altro modo pure lui ribadito nel suo “Il giorno del giudizio”: “Nuoro è diviso in tanti rioni che sono tante rivelazioni di aspetti sociali, come insegna la moderna sociologia. Sèuna: operai muratori; il Salvatore: contadini e massai; Lollobeddu: immigrati da non si da dove; San Pietro: boscaioli e carbonari. Proprietari e pastori, seminati a mosaico, dappertutto. Ma anche fra queste classi privilegiate vi era una distinzione che a ben guardare era profonda e sostanziale: i proprietari di San Pietro erano armentari che vantavano antenati abilissimi ladri di buoi. Quelli di Sèuna o del centro erano intellettuali o mercanti, come a dire conservatori. Dunque il popolo di San Pietro era il più rivoluzionario, per via di certo sangue anarchico che circolava nelle sue vene”.

Ricordo anche che qualche anno prima, nel 1943 – l’anno cioè della caduta di Mussolini a luglio, e dell’armistizio con gli anglo-americani a settembre, e quando anche il professor Mario Ciusa Romagna fu nominato commissario prefettizio al posto del podestà fascista (… caro professore! fu tra i maggiori conoscitori della narrativa della Deledda e anche della poetica di Sebastiano Satta…, caro professore!)…

Ricordo che nel ‘43 l’anno scolastico iniziò tardi, addirittura nel gennaio ‘44. Perché? Perché la scuola era stata adibita a ospedale militare, dato che nelle forze armate (e nella divisione Cremona che si era sistemata in case private) il numero dei colpiti da tbc e malaria era molto alto. Per far entrare gli studenti bisognava ripulire da cima a fondo, disinfestare… ci voleva tempo. E questo comportò il ritardo di qualche mese nell’inizio delle lezioni. Successe però che qualche buontempone del mio gruppo, a disinfestazione finita, rimise in circolo le cimici che erano state eliminate. Sicché nuova chiusura e nuova disinfestazione, e altre vacanze per noi… Fino a che il preside Marras scoperse l’imbroglio e minacciò: ”se dopo questa nuova ripulitura ci saranno ancora cimici, anche se in divisa con pennacchio e grancassa, le cimici ve le tenete!”.

Mi è sempre rimasto il ricordo di quegli anni della mia adolescenza e della mia classe: c’era Mario Corda – che poi avrebbe sposato mia sorella Mariolina e sarebbe stato un magistrato di alto livello, di Cassazione, a Roma, e anche uno scrittore di libri molto belli sulla Nuoro del passato; c’era Pancrazio Moncelsi, figlio di un viterbese che nel corso Garibaldi aveva impiantato un bel ristorante, vicino al Banco di Napoli, al cinema e al tabacchino; c’era Lello Puddu, che sarebbe diventato un costruttore edile importante a Nuoro, e anche dirigente del Partito Repubblicano, che di Mazzini e Asproni parlava mattina e sera con il professor Giovanni Ciusa Romagna: Lello il cui padre, che lavorava alla Provincia ed era diplomato all’istituto fisico-matematico, mi faceva lezioni di matematica, dove un po’ zoppicavo; c’era Gigi Carrus, che sarebbe diventato un magistrato anche lui di riconosciuto valore; c’era Romano Ledda, nativo di Tunisi, che sarebbe diventato direttore di “Rinascita”, il settimanale del Partito Comunista; c’era Antonio Francesco Manca, purtroppo morto ancora giovane quando era giornalista de “L’Unione Sarda”…

Fummo per un anno, mi pare in prima liceo, una classe mista, cosa sempre utile nella formazione dei ragazzi… Debbo anche confessare che qualche infortunio lo ebbi a scuola, ma cadere non è male, male è non rialzarsi…

Ah, la Nuoro della mia infanzia ed adolescenza! Ricordi, solo ricordi… Presentando un libro edito, alcuni anni fa, da “L’Unione Sarda” (“Memorie nuoresi”) affacciai una riflessione amara, che non voleva confondersi però con uno sterile passatismo. Scrissi di “una città ingoiata senza rimedio da una modernità anonima e monotona, e certamente più povera umanamente parlando, pur nello scintillio ingannevole e fuorviante di un benessere tutto e solo di facciata”. E aggiunsi: “in pochi luoghi come a Nuoro la trasformazione è avvenuta in modo così rapido e brutale. Per cui, se un tempo la città, cuore della Sardegna, poté assurgere a rappresentante della Barbagia tutta, isola nell’isola, oggi, con il suo gravissimo dissesto antropologico, può dirsi simbolo, purtroppo, di tanta parte della Sardegna, lacerata a sua volta tra antico e nuovo, in un disordine di vaste proporzioni…”.

Ah! Nuoro borgo selvaggio… borgo di antiche famiglie, di una famiglia – l’ho scritto e lo ripeto, lo sento! – “carica di valori formatisi e rafforzatisi in secoli di una storia senza date, senza nomi, senza volti, tramandata in leggende e tradizioni orali, nate nei cortili di fango, ripetute senza fine accanto al fochile nelle lunghe sere d’inverno…”.

Naturalmente partecipai, se non a tutte, a quasi tutte, le associazioni parrocchiali o diocesane, iniziando dall’Azione Cattolica (con il circolo Giosuè Borsi) e, con mio fratello minore Piero, fui scout. Il mio riferimento era alla cattedrale, dove ero stato battezzato e che sempre ho frequentato – bambino, ragazzo, giovanotto, educatore ed animatore di gruppi.

Vorrei dire due parole, anzi quattro, sulla esperienza scout. Gli scout a Nuoro c’erano già dal 1920, curati da monsignor Pier Raimondo Calvisi, allora giovane: avevano sede nel palazzo vescovile, s’intitolavano a Umberto di Savoia ed avevano il celeste e il rosso come colori del fazzolettone, ma ogni reparto avrebbe poi avuto, nel dopoguerra, colori diversi: c’era anche il giallo-rosso (quello del terzo reparto, cioè il mio) e anche il verde-blu…

Da bambino non conobbi gli scout per la semplice ragione che nel 1928 – avevo un anno! – essi furono costretti a sciogliersi; si doveva confluire nell’Opera Nazionale Balilla, e nelle altre organizzazioni del regime. Che tristezza! Vi furono dei luoghi in cui lo scoutismo veniva ancora praticato ma in clandestinità… sembra incredibile a dirsi…, altri riconvertirono per camuffare, sotto il fascismo, le loro sigle: gli “e-sploratori” divennero “e-scursionisti”…

Si riprese nel 1943, a guerra finita, almeno per quanto riguarda la Sardegna. Si cominciò con Cagliari, nel ’44 toccò a Nuoro, commissario di zona Pasquale Corrias e assistente ecclesiastico don Giovanni Pala in città e don Calvisi in provincia. I reparti erano tre: il San Giorgio, in vescovado; l’Argenta, al Rosario; il Mario di Carpegna, con la squadriglia degli Elefanti, nella chiesa di Santa Croce e nei locali di San Carlo: compressivamente eravamo forse trecento, più esploratori che lupetti del Branco allora (c’era stato infatti un massivo travaso dalla ex GIL)… Potrei fare i nomi: Pirari, Lostia, Calzia, Amat, Sanna, Mannironi, Guiso, Fadda, Burrai, Laria… uh! che ricordi… Anche don Multinu, che dormiva in cattedrale, ebbe l’incarico di assistente in uno dei reparti…

Nel 1945 – avevo dunque 18 anni – ero uno dei “capi”, naturalmente di livello B, e partecipai al campo sull’Ortobene, guidato dal mitico Mario Mazza, cui intervenne, mi pare, il caro e compianto don Gonario Cabiddu, fresco di prima messa. Nel ’47 ero Aiuto Istruttore: studiavo già a Pisa, dall’autunno, ma di tanto in tanto tornavo a Nuoro. Diciamo che fino alla partenza per l’università sono stato attivo, dopo compatibilmente con gli studi.

In quel 1947, ma a marzo o aprile, facemmo una escursione a Valverde, che era una delle mete preferite per le attività dei gruppi… Drago giallo e Orso nero, Trampoliere e Buffalo. Pulimmo il terreno, ci procurammo la legna per cucinare e il fuoco per la sera, ci preparammo i pagliericci, e poi ecco i giochi e canti fino al fuoco di bivacco… Io ero il maestro del fuoco, dovevo improvvisare i giochi, ero il factotum… E dopo ecco l’esercitazione di segnalazione Morse con le pile elettriche, e dopo ancora le preghiere e la buonanotte, sotto la luna e il freddo della stagione.

Per San Giorgio il nostro patrono scout, fui capo squadriglia “di formazione”, metà nostri scout e metà scout non confessionali: anticipavamo l’ecumenismo!

A luglio, l’anno era sempre il ‘47 – mi godevo i miei vent’anni allora – con mio fratello visitai il campo allestito dai reparti di mezza Sardegna, sull’Ortobene, a Solotti. Erano state montate quattro tende, fu costruito un tavolo per il pranzo comunitario con tanto ovviamente di cucina annessa, si innalzarono le bandiere, sia quella nazionale che la Fiamma. Esercitazioni di pronto soccorso, cucina, Morse e Semaforico con bandierine di giorno e pile elettriche di notte, costruimmo il ponte tibetano, cioè la passerella a corde: c’è anche una fotografia in cui io compaio su una di queste passerelle, però è di anni successivi, in uno degli infiniti replay… Variazioni al gioco di Kim, nuovi canti come quello dell’addio … “partir è un po’ morir… / Facciamo una catena / con le mani nelle man / stringiamoci l’un l’altro / prima di tornar lontan…”;

o la canzone dell’Esploratore…  “Nel cielo azzurro brilla una stella / Esploratori è l’or bella… / L’angelo annunzia l’Ave Maria / Esploratori è l’ora pia…”;

il “silenzio” scout, che i capi cantavano girando per tende dove, dopo il fuoco di bivacco, gli esploratori si erano ritirati… “Buona notte”.

Ah, ci ripenso a quella mia gioventù… Ancora nel 1947, era febbraio, qualcuno aveva lanciato una bomba, a Siniscola,  contro la casa rettorale, subito dopo che gli scout, riunitisi per l’istruzione religiosa, s’erano allontanati. Scrissi a don Raimondo: “Che la malvagità umana potesse giungere a cercare di danneggiare gravemente e forse uccidere giovani ai quali sorrideva la gioia della vita, nei quali brillava la luce dell’innocenza, certo non me lo potevo immaginare”.

Anche nel ’48 ho fatto qualcosa, come assistente, seppure il grosso del tempo dovevo passarlo a Pisa. Ci sono i “diari di bordo” che ciascun reparto compilava, a riepilogare i fatti:  compaiono Aquila migrante e Serpente nero… Si imparava la Buona azione, che è un classico scout, si imparava la danza di Shere Kian…, c’era il grande gioco di Robin Hood con gli Allegri Compagni della Foresta e c’erano le Guardie dello Sceriffo di Nottingham…

Era tempo ancora di escursioni, di campi, e il Nuorese continuava ad essere il territorio preferito, forse perché baricentrico fra Cagliari e Sassari, e forse per la bellezza dei nostri boschi…

L’amore alla natura, le esperienze di studio

Dato il mestiere di mio padre, all’Ispettorato agrario, con i miei fratelli avrò girato in lungo e in largo centinaia di volte, per le campagne della Barbagia. Agricoltori e pastori hanno sempre avuto un rapporto conflittuale, era una conquista della civiltà farli vivere in armonia, rispettando i cicli della natura, delle stagioni… Io ho nel mio immaginario la vita della campagna e dei pascoli, e dei paesi, come centomila quadri di vita autentica, faticosa ma anche gioiosa, creativa, di sentimenti forti…

Sebastiano Satta, che era un avvocato, socialista, forse ateo, che aveva studiato a Bologna con il professor Carducci, ha fotografato con i suoi versi un’infinità di queste scene: “Dolce, o capanna, quando agli uragani / La selva si querela e si dispoglia. / Riparar nel tuo nido, sulla spoglia / D’un montone, e parlar di cacce e cani…”.

Oppure: ”… Fosco e brullo / Dentro il cuore è il villaggio, erto grifagno / Sulla deserta rupe: al limitare / Filano nere donne taciturne…”.

Avevamo, in provincia, quasi un milione di capi fra ovini, caprini e bovini, e soltanto 200.000 abitanti; da settembre ad aprile i pastori transumavano, soprattutto verso meridione; abigeato, rapina e danneggiamento erano i reati più diffusi, spesso con spargimento di sangue. Fu necessario costringere i pastori e i loro servi a munirsi di carta d’identità per essere facilmente individuati. Iniziò allora un rastrellamento continuo delle campagne, con carabinieri e barracelli.

Le vertenze riguardavano soprattutto il prezzo del fitto dei terreni per pascolo e la concessione di terre per uso seminerio; il regime promosse la Federazione degli agricoltori, che esordì con gli ortofrutticoltori e con le sezioni apicoltura ed olivicoltura. Papà ogni tanto di queste cose parlava con noi, soprattutto con me: mi sognava agronomo.

Come direttore dell’Ispettorato agrario lui era attivissimo, e molto stimato. Fece molti sforzi per migliorare la produttività dei terreni, funzionavano allora i Consorzi di bonifica del Cedrino e di Siniscola, funzionava un segretariato della Montagna.

Aggiungerei, di passaggio, che a combattere l’analfabetismo erano impegnate allora anche le scuole rurali, le elementari per i contadini o figli di contadini, che spesso si combinavano con le campagne antimalariche, antitracomatose, ecc.

I tempi non erano tranquilli; la dittatura cercava di schiacciare ogni disordine, ma si aveva notizia comunque di quel che succedeva. Non mi riferisco adesso alle opposizioni politiche che erano state zittite, e se dicevano ba… finivano in carcere – come avvenne anche per qualche donna: Graziella Sechi che era la moglie dell’ingegner Giacobbe sardista e madre della piccola che sarebbe diventata una grande scrittrice come Maria Giacobbe –, e anche Mariangela Maccioni, insegnante elementare… No, dico di fatti di cronaca nera.

Una bimba mia coetanea, Maria Molotzu, sette anni nel 1933, fu sequestrata e purtroppo uccisa. Era del Sassarese, ma il processo si celebrò a Nuoro; una rapina alla famigliola in macchina, da parte di tre banditi, e il sequestro della bambina a scopo di estorsione. Ci furono anche vari abboccamenti per pagare il riscatto, ma Maria ormai era morta, sepolta in campagna, fra Olzai e Ollolai. Nel ‘36 ci furono il processo e la sentenza, per quel delitto e per altri attribuiti agli uomini della banda Pintore. Il capo, Antonio, che era difeso dall’avvocato Mario Berlinguer, il padre del futuro segretario del PCI, venne condannato alla pena di morte e fucilato a Prato Sardo, di mattina presto, a marzo. Il plotone era di quattordici uomini. Sembra che, arrivando ammanettato in carrozza al posto della esecuzione, egli abbia chiesto perdono dei suoi omicidi, gridandolo ai parenti delle vittime che erano lì ad assistere.

Il banditismo era una spina nel fianco della società, soprattutto perché godeva di molte coperture nelle famiglie e nei paesi. Nell’anno in cui sono nato io in Sardegna c’erano stati 167 omicidi volontari; se il giorno del mio decimo compleanno avessi dovuto contare gli assassini compiuti nell’isola in quel decennio ne avrei contati addirittura 965. Incredibile! la metà e più erano avvenuti in Barbagia…

Il prefetto di Nuoro, nel luglio 1927, aveva rivolto un appello alla popolazione: “Voglio che attorno al delitto non si formi più la spudorata leggenda di un perverso eroismo; voglio che sia soppressa ogni forma di favoreggiamento attivo e passivo…”. Sarà stato fascista, ma aveva ragione. Però questo miglioramento non poteva avvenire per incanto, doveva avvenire per educazione, e l’educazione richiede tempo, il tempo delle generazioni…

Nel 1947 mi iscrissi ad Agraria a Pisa… Ma, come ho detto, mantenni costante il rapporto, oltreché con la famiglia, con la diocesi, la mia parrocchia della cattedrale e gli scout.

Proprio con gli scout di Nuoro e del resto della Sardegna partecipai, nel ‘50, all’anno santo. Andammo a Roma, a San Pietro, con monsignor Calvisi. Avevamo la nostra bandiera dei Quattro mori, la nostra bella divisa, il nostro bel cappello… Fu allora che Pio XII proclamò il dogma della Assunzione.

Una curiosità. Nel 1951, che è l’anno in cui mi laureai, era assistente nazionale dell’ASCI (oltreché sostituto alla Congregazione concistoriale) monsignor Sebastiano Baggio, che fu colui che un giorno mi avrebbe consacrato vescovo, e del quale un altro giorno sarei divenuto successore nella cattedra episcopale di Cagliari… Gli incroci della vita!

In quegli anni, e anche dopo, si cercò di sensibilizzare al mondo scout i seminaristi che studiavano a Cuglieri. Tutti erano entusiasti, i superiori – ricordo padre Calaresu – , i professori, soprattutto i chierici… Io partecipavo alla cosa indirettamente, perché ormai frequentavo la Lateranense, ma ero informato…

Continuavano quei raduni barbaricini, più spesso all’Ortobene e a Valverde, vicino a casa nostra. Monsignor Calvisi era stato intanto trasferito alla Solitudine, e dunque lavorava in casa!

L’associazionismo cattolico nuorese era in generale ben organizzato. Funzionavano allora, in duomo, l’Unione Cattolica Ortobene, il Circolo Giovanile Giosuè Borsi e quello Giovanile Femminile Luisa de Marillac,  l’Associazione di Azione Cattolica per Operai intitolata a Pio XI, l’Unione Donne Cattoliche e il Gruppo Uomini Cattolici.

Dovrei ricordare adesso che negli anni della mia formazione la Chiesa di Nuoro era guidata da presuli tutti di grande levatura: dopo monsignor Fossati che rimase da noi fino al 1929, venne il pirrese monsignor Giuseppe Cogoni – antifascista sotto costante controllo dello spionaggio del regime, insieme al canonico Marchi, a don Corda e a don Lai poi canonico anche lui, e naturalmente a Salvatore Mannironi che su “L’Ortobene” si firmava Ospitone – fino al 1939, quando fu mandato arcivescovo ad Oristano; poi avemmo monsignor Felice Beccàro, fino al 1946, e dopo monsignor Giuseppe Melas, originario di Guasila, al quale è legata la mia esperienza di chierico e di prete… Era stato ordinato nel 1925 da monsignor Piovella, e poi fu lui a ordinare me nel ‘56…

Monsignor Beccaro fu lui a cresimarmi, il 12 maggio 1940, giusto un mese prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Avvenne nella cappella dell’episcopio. Il battesimo – l’ho accennato prima – era stato in cattedrale; officiò canonico Giovanni Daddi, il parroco, ed ebbi allora tre nomi: Ottorino Virginio Pietro. E a quanti battesimi, a mia volta, avrò partecipato, nel “piccolo clero” della cattedrale!…  “E a su pizzinnu tottus sa fortuna / leghene in sas istellas e i su binu / a li cantana a inghiriu sa cantone…”,  versi di Sebastiano Satta.

Fine della prima parte del racconto. Il giorno della discussione della tesi vennero a Pisa, dalla Sardegna, diversi amici e compagni del tempo del liceo. Fu una bella festa. Ci riunimmo poi al ristorante, e infine quando tutti ripartirono io me ne andai a Roma ad iscrivermi alla Lateranense.

Parlando con mio padre glielo avevo detto: “Papà, io Agraria la faccio, l’ho fatta; era una promessa che tu avevi fatto a nonno, che tuo figlio sarebbe diventato agronomo. E sono contento di averti fatto mantenere la parola. Ma io ho un’altra vocazione che può andare in parallelo, è il sacerdozio…”.

D’altronde non era una sorpresa. Era già dai tempi del ginnasio che io avevo detto in casa, come agli amici, che cosa avrei voluto diventare da grande: prete. E tutti, in specie a casa, genitori e zii, mi avevano incoraggiato, anche se poi mi… avevano consigliato, o… dolcemente imposto, di rimandare ogni decisione alla maggiore età. La Provvidenza, dovrei concludere, mi ha dato il tempo di accontentarli, e di… accontentarmi.

L’avventura della Lateranense, docente dopo che discente (e agronomo)

Ho detto prima che mi ero laureato in Scienze agrarie a Pisa nel ’51, il 19 novembre per la precisione. Potrei aggiungere – perché è una curiosità… sì, una curiosità più che un vanto – che, preparando la tesi, scopersi un particolare enzima nei processi chimici propri della fermentazione alcolica del vino: esso fu riconosciuto e denominato, scientificamente, con il nome del mio professore e anche con il mio nome: “Saccaromices Veronae (Verona-Alberti)”. E chi volesse controllare nel registro anagrafico internazionale degli enzimi troverebbe questa mia piccola… gloria. Titolo della pubblicazione: “La Flora blastomicetica di alcuni vini tipici sardi”.

Subito dopo la laurea me ne andai a Roma, mi iscrissi al Seminario Romano Maggiore – era il 12 dicembre – e contemporaneamente alla Pontificia Università Lateranense: i corsi erano quelli di propedeutica, poi teologia. Furono cinque-sei anni di studio intensissimo, fortunatamente con molti rientri a Nuoro. Il Seminario Romano, si sa, è quello in cui si sono formati uomini di Chiesa eminenti: vorrei citare qui soltanto il futuro papa Roncalli… Mio direttore spirituale fu, allora, monsignor Pericle Felici, successivamente vescovo e anche cardinale. Egli fu il segretario generale del Concilio Ecumenico Vaticano II, e nel 1978 fu lui quel cardinale protodiacono che molti ricordano perché dalla loggia di San Pietro annunciò al mondo l’ “Habemus papam”, prima Giovanni Paolo I, poi Giovanni Paolo II… Gli rimasi sempre legato. Morì improvvisamente nel 1982, a marzo, mentre presiedeva alla processione della Madonna Iconavetere, a Foggia…

Venni ordinato diacono a San Giovanni in Laterano il giorno del mio 28° compleanno, nel 1955 cioè. E sacerdote, a Nuoro, tre mesi dopo – il 18 marzo 1956; poi conclusi gli studi, cosicché l’anno dopo, nel 1957 – il 3 luglio –, mi laureai in Teologia.

Dunque avevo 28 anni e mezzo quando monsignor Giuseppe Melas mi ordinò nella cattedrale di Nuoro: lui veniva dalla diocesi di Cagliari, l’ho detto, da Guasila (dove c’è una bellissima parrocchiale disegnata dall’architetto Cima, lo stesso dell’Ospedale civile di Cagliari). Insieme con lui c’erano molti preti, fra i quali, ad impormi le mani, don Salvatore Floris, poi a lungo vicario generale a Nuoro, mio amico fraterno.

Vorrei dire di quei giorni. Proprio in quello stesso marzo, prima di Pasqua (che cadeva il 1° aprile), i vescovi sardi si riunirono a Cagliari ed ebbero la visita di monsignor Cunial, successore di monsignor Baggio come Assistente generale degli scout; egli tenne anche una bella conferenza ai seminaristi e radunò gli Assistenti ecclesiastici, e io lo stavo diventando per Nuoro. Già a gennaio i capi (fra cui mio fratello) si erano riuniti a Lollove. C’era don Delogu, il parroco che aveva dato notizie storiche sulla parrocchiale di Santa Maria Maddalena. Allora ripresi alla grande, anche se fu soltanto per un anno o poco più…

Con il vescovo ero in rapporti di devozione ma anche di grande confidenza. Egli era a Nuoro, l’ho detto, da una decina d’anni, e si era fatto tutto barbaricino, parlava il barbaricino, era presentissimo nelle parrocchie, sempre molto impegnato a favorire la pace dove c’era disamistade, inimicizia tra persone, tra famiglie o clan, tra paesi. Fu un vescovo della pace, partecipò al Concilio Vaticano II fra il 1962 e il 1965, morì nel 1970. Gli ho dedicato un lungo scritto, più volte pubblicato.

Dati questi rapporti, e anche per l’obbedienza – obbedienza positiva – che un prete deve al suo vescovo, da subito accettai gli incarichi che egli volle conferirmi dopo che, laureatomi in Teologia, potei mettermi completamente a sua disposizione. Ricordo che in quegli anni fui docente di lettere nel seminario vescovile e di estimo nell’Istituto tecnico per geometri di Nuoro; fui anche vice cancelliere in Curia, assistente dei Maestri Cattolici, idem dell’Azione Cattolica diocesana (precisamente della GIAC) e pure della Gioventù studentesca e dell’Associazione insegnanti medi cattolici italiani (elementari più medie). Infine, certamente non ultima nell’elenco, dato anche il mio passato, dell’ASCI – Associazione Scout Cattolici Italiani.

Era allora tutto un movimento di Scoiattoli e Castori, Daini e Rondini… Solite uscite a Valverde con monsignor Calvisi in talare ma anche col fazzolettone giallo-rosso al collo e il berretto basco. Un ricordo netto: giorno 24, mese ottobre, anno 1957, io, come Assistente ecclesiastico dei rover, posi la questione della… riparazione della copertura della sede e della più decorosa sistemazione degli angoli di squadriglia. Proposi una lotteria; i ragazzi furono incaricati di vendere i biglietti e di lavorare anche per la rimozione del tetto pericolante, tanto per risparmiare e far fare ai muratori soltanto la ricostruzione (350.000 mila lire). Vendettero anche oggetti fatti da loro stessi. Altri fondi li recuperammo dalle offerte lasciate per il presepio allestito a Natale alla Solitudine. Il 2 novembre tenni una riflessione sul motto scout “Estote Parati”, il nostro motto evangelico.

Nel 1958, a gennaio, celebrai all’asilo Regina Margherita; di pomeriggio qui stesso furono proiettati alcuni documentari scout; poi fu tutto un cantare il repertorio. E, smantellati gli angoli di squadriglia e spostate tutte le nostre cose a San Carlo e nel cortile di Santa Croce, finalmente buttammo giù il tetto pericolante. La sede con la nuova copertura venne inaugurata il 30 marzo. Partecipammo tutti alla processione del Corpus Domini, a giugno, e a luglio  tenemmo il campo estivo a Monte Pizzinnu, verso Loculi, con lupetti, esploratori, novizi; ci furono tre escursioni…

Fine del racconto. Ero prete da tre anni, dottore in Teologia da due, e fui chiamato a Roma. Avevo 31 anni e mezzo. Mi ero fatto le ossa, mi ero proiettato in un mondo sociale largo; avevo la mia formazione religiosa ed ecclesiale che era culminata nel sacerdozio ad un’età relativamente matura e avevo fatto pratica nei servizi diocesani richiestimi da monsignor Melas. Potevo inoltrarmi in un’altra stagione della mia vita, nella città del papa, nella storica università del papa. Questo fu nella primavera del 1959, l’anno dello storico annuncio del Vaticano II da parte del nuovo pontefice Giovanni XXIII.

Si sa: nella tarda estate del 1958, dopo vent’anni di regno, moriva Pio XII, e saliva alla cattedra di Pietro il cardinale Roncalli, patriarca di Venezia e a lungo, prima, diplomatico. Per la Chiesa cattolica iniziava una fase nuova della sua vita bimillenaria, soprattutto segnata, grazie al Concilio, dalla apertura agli ebrei e a tutte le confessioni cristiane, in una visione ecumenica, e amica della modernità, non nemica. Non rifaccio adesso quella storia.

Partii per Roma. “La Nuova Sardegna” mi dedicò un trafiletto, che non dovrei essere io a leggere, e lo faccio soltanto per obbligo di mestiere (biografo di me stesso): “Salutato cordialmente ed accompagnato dai più affettuosi auguri è partito per Roma, dove esplicherà le funzioni di segretario generale dell’Ateneo lateranense, il reverendo prof. dott. – evviva i titoli! – Ottorino Alberti. Al nostro giovanissimo concittadino, già insegnante presso i locali seminario ed Istituto tecnico per geometri e avviato verso una brillante carriera che corrisponde indubbiamente alle sue eccezionali qualità di studioso, porgiamo gli auguri più cordiali della redazione nuorese de La Nuova Sardegna”.

Restando a quel che più direttamente mi riguarda lungo quegli anni ’60 – diciamo fino al 1971 – potrei dire questo: alla Lateranense ebbi due funzioni, una amministrativa e una nel corpo docente.

Presi possesso della segreteria generale, il che significava che ero il coordinatore di tutti i settori operativi in cui era articolata l’università. Si sa che la cattedrale del papa in quanto vescovo di Roma è a San Giovanni in Laterano, che ho prima richiamato. E la nostra Università, la Lateranense appunto, era definita l’università del papa in via d’eccellenza: era stata fondata alla fine del ‘700 – quindici anni prima della rivoluzione francese – da Clemente  XIV, per i corsi di Teologia e di Filosofia; cinquant’anni dopo Leone XII (quello del film di Manfredi “Nell’anno del Signore” e della ghigliottina per Targhini e Montanari) ne spostò la sede presso il palazzo di Sant’Apollinare: qui, nel 1853, Pio IX istituì le facoltà di Diritto Canonico e di Diritto Civile nonché il Pontificio Istituto Utriusque Iuris. Nel 1958 l’Ateneo assunse l’attuale assetto organizzativo. Nel ’59 Giovanni XXIII volle cambiarne la denominazione: da Ateneo essa divenne Pontificia Università Lateranense. Nel ‘64 scrissi una breve monografia sulla onorata storia della Lateranense. Mantenni l’ufficio di segretario generale per cinque anni.

Ebbi quindi un incarico di docente: le prime mie materie furono Cosmologia e Psicologia Razionale. In questo mi aiutavano anche gli studi pisani. E la cosa, ancora di più fu evidente quando passai a Filosofia della natura. Divenni anche vice decano della facoltà di Filosofia.

Insegnai per una decina d’anni, perché proseguii anche nel biennio cagliaritano 1971-73, combinando questo lavoro a quello di ricercatore. D’altra parte, Roma è tutto un archivio, un museo e un archivio. Ho avuto il piacere e anche l’onore di far rivivere tante pagine della storia, soprattutto della Chiesa, e di uomini della Chiesa, immergendomi per lunghe ore, e per anni e anni, negli archivi delle università, ma anche nell’Archivio Segreto Vaticano…

E in quella stessa fine degli anni ’50 iniziai a pubblicare molto; erano ricerche impegnative. Intanto però vorrei dire che cominciai con le collaborazioni a giornali e riviste. In particolare mi piace ricordare la collaborazione a “L’Osservatore Romano”, questo fin dall’autunno 1959: mi pare abbiano contato 28 articoli fino ad arrivare al 1971, cioè al primo rientro in Sardegna. Naturalmente poi ho continuato, magari saltuariamente, negli anni di Spoleto e Norcia: altri cinque articoli riguardanti cose diocesane (San Benedetto, Santa Scolastica, lettera ai diocesani, saluto al papa in visita a Norcia, ecc.).

Intenso anche il rapporto con riviste specialistiche, mi riferisco a testate come “Tabor”, “Divinitas”, “Aquinas”, “Palestra del Clero”, “Amico del Clero”. Per restare ai numeri, mi pare si tratti di 38 articoli o saggi brevi.

Dovrei aggiungere che verso la fine del decennio – diciamo pure, negli anni della contestazione – presi a collaborare con crescente continuità ad alcune riviste isolane, fra cui la nuorese “Frontiera”, diretta da Remo Branca – il grande intellettuale e incisore –, e il “Nuovo Bollettino Bibliografico Sardo”, diretto dal benemerito Giuseppe Della Maria: furono allora, secondo i buoni calcoli di don Cabizzosu, 20 su “Frontiera”, 8 sul “Nuovo Bollettino”.

Citerei anche i pezzi pubblicati, in occasione della apertura del Vaticano II, su “La Nuova Sardegna”, ricordando il contributo dei vescovi sardi al precedente Concilio del 1869-70; fra il ’70 ed il 73 – ormai, posso dire, ero tornato in Sardegna – consegnai a “L’Ortobene”, il settimanale diocesano di Nuoro, nove articoli sempre sulla storia ecclesiastica sarda e anche sulla famosa sommossa de “su Connottu” del 1868.

Sul piano più prettamente scientifico – cosa che poi mi si richiedeva, in quando docente impegnato nella ricerca – direi che fino al 1971 potei dare alle stampe 11 fra libri e monografie. Alcune di queste opere riprendevano i filoni dei corsi universitari che io guidavo: “L’unità del Genere Umano nel Magistero della Chiesa” e “L’Unità del Genere Umano”, “Miti sull’origine del mondo”, “L’origine del mondo secondo la Bibbia”, “Elementi di filosofia cristiana”, “La scienza nel pensiero di Teilhard de Chardin”; altre toccavano la storia della Chiesa e anche la Sardegna: “I Vescovi Sardi al Concilio Vaticano I”, “La Sardegna nella storia dei Concili”, “Le relazioni triennali di don Alfonso De Lorca, arcivescovo di Sassari, alla Sacra Congregazione del Concilio (1590-1600)”, “Il Cristo di Galtellì”, a me particolarmente caro…

Nel 1963 la Lateranense pubblicò una propria storia in due volumi. Nel primo curai 109 voci; nel secondo 3.

Collaborai quindi a diversi volumi del “Dizionario dei Concilii”, pubblicati dalla Città Nuova Editrice fra il ’63 e il ‘68: curai 13 voci nel secondo volume, 24 nel terzo, 12 nel quarto, 51 nel quinto, 9 nel sesto.

Nell’arco dell’intero decennio poi la stessa editrice esitò dodici volumi della “Biblioteca Sanctorum”: e qui curai 5 voci, compresa quella di Pio IX.

A tutto questo sommerei un contributo, sempre per la Lateranense, sui “Problemi di origine in Sant’Ireneo”. E altri tre di argomento invece sardo: nel 1962 scrissi sulle “Dimensioni spirituali e presupposti morali del Piano di Rinascita” (… allora la Sardegna iniziava a modernizzarsi, pur fra tante contraddizioni); nel 1970, in vista del centenario deleddiano, “Nuoro nella storia”, inserito in un libro (titolo “Vecchia Nuoro”) curato dal professor Giovanni Cadalanu, e “I Mercedari in Sardegna con i loro conventi e la loro opera”, in un volume anch’esso collettaneo.

Queste le fatiche di quegli anni. Che mi prepararono ad altre. Non posso tacere che dal 13 giugno 1963 ero canonico onorario del capitolo cattedrale di Nuoro, il che rinsaldava il vincolo con il clero della mia diocesi; l’anno dopo – dunque in pieno Concilio – ebbi da Paolo VI la nomina a cameriere segreto di Sua Santità, un titolo di quelli che si usavano un tempo, e anche oggi, per dare del “monsignore” a qualche prete (che di norma al titolo, nella pratica quotidiana, rinuncia volentieri). Nel 1971 fui chiamato come consultore della Congregazione per il Clero.

Nello stesso 1971, in Sardegna però… Capitò che i padri gesuiti, che dal ‘27 avevano la direzione, oltre che della facoltà teologica, anche del seminario regionale di Cuglieri, notificarono al cardinale Sebastiano Baggio, allora arcivescovo di Cagliari e presidente della CES, la loro rinuncia, peraltro già abbondantemente preannunciata.

Ormai da tre anni la Congregazione per l’Educazione cattolica aveva posto in capo alle Conferenze Episcopali regionali gli onori e soprattutto gli oneri dei seminari maggiori. I rapporti fra l’episcopato sardo e il vertice della Compagnia di Gesù, relativamente al mantenimento di questo impegno direzionale e docente, non erano dei migliori: i gesuiti osservavano che la crisi vocazionale che aveva colpito la stessa Compagnia non consentiva loro di “distrarsi” in affari che dovevano essere delle diocesi, e dunque occorreva che fosse il clero secolare a preparare il clero secolare… professori e direzione…

Per un altro anno ancora – il 1970-71 – si ottenne una proroga, poi basta: i gesuiti lasciarono. Si trattava di trasferire in fretta e furia gli studenti a Cagliari dove non si era attrezzati per niente a una svolta tanto repentina, soprattutto dal punto di vista logistico. Gli studenti furono infatti in parte ospitati al diocesano di Cagliari, in via Cadello, in parte in altri posti. E a gestire questa difficoltà grande e improvvisa il cardinale chiamò, d’intesa con la CES, me. Mi richiamò a servire la Chiesa nella mia terra.

Non era il mio mestiere, debbo confessarlo, ma ubbidii. La situazione era, per certi versi, sfilacciata. Nel 1969 e nel 1970 era andata a Cuglieri una équipe di sociologi salesiani, del PAS, per parlare individualmente con gli studenti e stendere delle schede: veri e propri ritratti psico-pedagogici. Era emersa la conflittualità con i superiori, una socialità che in concreto era problematica e la cui colpa veniva attribuita all’ambiente “limitante”; problemi anche sul piano dell’affettività, e anche circa il contesto socio-culturale di provenienza. Molti mordevano il freno, non si riconoscevano negli schemi tradizionali che il dopo-Concilio non era ancora riuscito ad adeguare ai tempi nuovi…

In ultimo la collaborazione fra il rettore gesuita, padre Giuseppe Bosio, e gli animatori mandati dai vescovi per preparare il passaggio, era stata disarmonica… Si osservava, con una punta di polemica, che nell’ultimo anno i vescovi non si erano fatti vivi una sola volta a Cuglieri…

Mi trovai… intrappolato in questioni, direi anche in atmosfere, non da poco, e tutte molto critiche.

Non potei peraltro lasciare, allora, l’insegnamento alla Lateranense, e cercai dunque di combinarlo con le attività del rettorato del seminario regionale. Metà settimana qui, metà lì.

Furono due anni intensi, faticosi, due voli aerei alla settimana per cento settimane fanno duecento voli…

Allora gli studenti dei cinque anni – due del corso filosofico e tre di quello teologico – erano, se ben ricordo, una cinquantina, una decina o dozzina in ogni anno.

Nel 1971, quando arrivai – non ho quindi nessun merito – furono ordinati una ventina di sacerdoti; c’era anche l’attuale vescovo di Iglesias Gian Paolo Zedda, arburese; ce n’erano da Gonnosfanadiga e da Osilo, da Alghero, Quartu e Settimo, da Silius, Musei e Carbonia, da Narcao, Uta e Narbolia, da Fordongianus, Tula e Ploaghe, da Sassari e da Cagliari… tutta la Sardegna era rappresentata… tranne il Nuorese, quell’anno…

Nel 1972 – un anno di competenza tutto mio – gli ordinati furono, se la memoria non mi inganna, otto soltanto: ricordo don Antonio di Gonnos, don Enrico di Senorbì, don Tonino di Matzaccara, don Gian Carlo di Sant’Antioco, don Sandro di Portoscuso, don Piero di Tertenia, don Alessandro di Loceri, don Giovannangelo di Pattada… (finito poi Nunzio Apostolico in mezzo mondo ed ora sostituto della Segreteria di Stato). E sì, Nuoro mancava ancora…

Nel 1973 – fra giugno e l’estate – gli ordinati furono press’a poco lo stesso numero, qualcuno in più… Ricordo – e come potrei dimenticarli? erano miei studenti! – don Ottavio di Viddalba, don Mosè – olè, don Mosè! – di San Sperate, don Ennio di Villasor, don Antonio di San Vito, don Gian Piero di Mandas, don Carlo di Iglesias, don Roberto di Fordongianus (ma per la diocesi di Iglesias), don Mario e don Salvatore di Narbolia, don Gerolamo di Benetutti, don Pasqualino di Cheremule, don Mario di Bessude e… dulcis in fundo, due comprovinciali miei: don Antonio da Ollolai e don Angelo da Galtellì, la mia Galtellì…

Sono nomi – per me nomi e volti e voci tutti preziosi – ma anche numeri che rivelano l’indebolimento del tempo, denunciano quella flessione che l’ondata contestativa della fine degli anni ’60 aveva contribuito ad accentuare. Gli abbandoni erano crescenti, ogni anno si aggiungeva una unità percentuale, ricordo le statistiche già di prima del fatidico ‘68, nel 1967-68: il 15 per cento. Le ordinazioni sacerdotali allora comunque viaggiavano sulla trentina e anche più, dico sempre negli anni ’60 ante-contestazione: 35, 30, 26, 30… Ma si seminava la discesa: fra filosofi e teologi frequentanti si viaggiava da 154 a 143, a 137, a 114…

Lavoro difficile quello del rettore del seminario. Però, come ho accennato, dovevo ancora combinare quel lavoro alla ricerca e alla pubblicazione, anche se con maggiori limitazioni.

Nel 1972, riguardo alla Sardegna, pubblicai presso Fossataro un volumetto di 140 pagine, “Il Nuorese, cuore della Sardegna”; e detti anche un contributo – “Un autentico sacerdote di Cristo” – a un volume che si stampò per l’ingresso di monsignor Salvatore Delogu nella diocesi di Lanusei, all’inizio come amministratore apostolico.

Per una singolare coincidenza il lavoro successivo fu per un altro esordio, ma il mio: “Primo saluto all’Archidiocesi di Spoleto e alla Diocesi di Norcia”. Dodici pagine appena, ma tutte di amore e responsabilità, stampate a Nuoro nell’estate 1973. Il papa Paolo VI, su proposta del cardinale Baggio, nel frattempo divenuto perfetto della Congregazione per i Vescovi, mi aveva infatti promosso – il 2 agosto – all’episcopato, dopo 17 anni di presbiterato, assegnandomi al servizio pastorale di due storiche Chiese dell’Umbria, la terra di San Francesco e Santa Chiara, di Santa Rita e San Benedetto, per dire soltanto qualche nome illustre dell’Italia e del Cielo…

Completo adesso il riferimento alle cose scritte in quegli anni, perché le considero una offerta, nei limiti delle mie possibilità, alla Chiesa nel divenire e alla Chiesa anche nella progressiva presa di consapevolezza di sé e della propria missione nella storia.

Riguardo alla Sardegna, pubblicai nel ’74, in occasione del primo centenario della cattedrale di San Pietro di Bosa, un breve saggio dal titolo “La Sardegna e in particolare la diocesi di Bosa nei secoli XI e XII”; nel ’78 in “Nuoro ieri e oggi”, un contributo su “La Chiesa delle Grazie”; e la seconda parte del primo volume di “La diocesi di Galtellì’-Nuoro dalla sua soppressione (1495) alla fine del secolo XVI”; lo avrei completato negli anni dell’episcopato cagliaritano, nel 1993…

L’anno dopo, poiché cadeva il bicentenario della diocesi di Nuoro e si tennero delle giornate di studio su vari aspetti della vita sociale ed ecclesiale del territorio, ecco “La diocesi di Nuoro nei 200 anni di vita (1779-1979)”: la relazione confluì in “Pacificazione e Comunione”, e le mie parole sono state impaginate accanto a quelle del mitico cardinale Michele Pellegrino venuto anche lui a Nuoro!

Ancora curai le introduzioni, che però avevano una loro propria autonomia, in alcuni volumi del mio amico Elettrio Corda (“Terra Barbaricina” e “La legge e la macchia. Il banditismo sardo dal Settecento ai giorni nostri”): “Nuoro nella storia e nel folclore” e ”La Chiesa e il banditismo nell’Ottocento”, rispettivamente. A questo aggiungerei altre 9 fra presentazioni e prefazioni a libri di altri, taluno riguardante la Sardegna e Nuoro, sempre fra società e Chiesa, talaltro su questioni storico-religiose più generali o riferite alla realtà ecclesiale delle mie nuove diocesi di Spoleto-Norcia.

Nella stessa logica ci furono, mi pare – sempre se il buon amico don Cabizzosu ha contato bene… trovando tutto – 15 contributi di natura pastorale: fra essi qualche omelia – anche per il Redentore di Nuoro, dato che monsignor Melis mi invitava a celebrare e predicare – e qualche lettera pastorale alle mie comunità umbre; ricordo fra esse un testo, dell’80, “Per il XV centenario della nascita dei Santi Benedetto e Scolastica“ e altri, in successione, “Per il 750° anniversario della Canonizzazione di Sant’Antonio da Padova”, o “Per il V centenario della Madonna delle lacrime in Trevi”, o “Per l’VIII centenario della SS. Icona”, o ancora “Per il 250° Anniversario del miracolo della Madonna Addolorata di Norcia”.

Perché ho fatto queste zoomate? Perché le ricorrenze di calendario sono provvidenziali per indurre le anime e le comunità a ripensare criticamente ai doni accolti o non accolti in un certo torno di tempo…

A Spoleto e Norcia, un sardo in Umbria

Negli anni spoletini e nursini mi calai profondamente nella realtà spirituale-devozionale di quelle comunità che ho amato moltissimo. Ho studiato il percorso umano e religioso di figure di primo piano, come don Pietro Bonilli (il fondatore delle Suore della Sacra Famiglia di Spoleto) o come madre Maria Luisa Prosperi, di imminente beatificazione; molto mi sono dedicato anche ad esplorare la grande figura di Pio IX che, prima di diventare papa, fu mio predecessore come arcivescovo di Spoleto. So che la figura di papa Mastai Ferretti, oggi beato, è contestata da molti, soprattutto per il suo atteggiamento verso il risorgimento italiano e per la mannaia che tagliò il collo di diversi condannati… Ma io ho visto anche e soprattutto il bene che egli fece e la sua fede…

Essendo membro della Congregazione per le Cause dei santi, ho potuto e dovuto consultare migliaia di documenti riguardanti un numero imponente di candidati agli onori degli altari. Mi sono speso per molti, avendo maturato la profonda consapevolezza di quelle virtù evangeliche possedute in modo eccelso ed eroico da battezzati che si sono votati tutti a Dio e al prossimo.

Ho accennato alle fatiche di studio e, come dirò adesso, di pastorale degli anni umbri: furono 5.227 giorni fra le due date dei provvedimenti pontifici, di entrata e di uscita: 9 agosto 1973, 23 novembre 1987.

Dirò intanto che quel giorno della mia consacrazione episcopale, a Santa Maria della Neve, la sera di sabato 8 settembre 1973 – Natività di Maria, una settimana dopo la festa del Redentore –, tutta Nuoro era venuta per pregare per me e con me, per mostrarmi il suo affetto. Non l’ho mai dimenticato. Celebrante principale era il cardinale Baggio, tornato apposta da Roma per la cerimonia; i conconsacranti erano l’arcivescovo di Cagliari Giuseppe Bonfiglioli ed  il carissimo monsignor Giovanni Melis Fois, vescovo di Nuoro. Avevo 46 anni, e molti ricamarono sulla giovane età… anche se poi, confrontato con il grosso degli apostoli, sarei stato forse il più vecchio di loro…

Nello stemma episcopale che la tradizione bimillenaria impone ai vescovi, disegnai l’albero sì… degli Alberti, ma anche e soprattutto immagine di ogni sardo, di ogni uomo, che sorge dalla terra fecondata (“Gli uomini sono piante germogliate dal cuore stesso della Sardegna”). Sopra, la stella con la M di Maria, il mio orientamento.

Dovrei ripartire dalla tarda mattinata di giovedì 9 agosto di quel 1973: quando monsignor Melis dette ufficialmente la notizia, in episcopio. Erano presenti anche diversi miei familiari, e molta parte del clero diocesano, oltre alle autorità civili. Si consideri che l’anno prima un altro prete della stessa diocesi era stato fatto vescovo, l’ho citato prima: don Salvatore Delogu, destinato a Lanusei. Il quale don Delogu fu presente alla mia consacrazione insieme con monsignor Carta, monsignor Urru, monsignor Spanedda. Che bello essere tutti insieme su quel presbiterio affollato!

Dovetti dire una parola già quel primo giorno: “Resterò comunque sempre nuorese”. Cos’altro avrei potuto dire?

Ricordo qualche commento, sui giornali regionali. Il canonico Bonu, scrittore eminente, lodò, su “La Nuova Sardegna”, i miei studi di agraria, quasi introduttivi agli altri di teologia: “Gli arride nell’animo l’argomento virgiliano e come praticare l’arte da dedicare alle viti, agli armenti e alle api, come tenere uffici convenienti alla sua materia e guidare aziende”.

Per non dire che, riferendosi alla destinazione umbra, richiamava con qualche pertinenza, il caro canonico, quel “Cruce et aratro” che, insieme con il più noto ”Ora et labora”, era nella regola benedettina…

Arrivai in Umbria. Le diocesi erano due: quella maggiore di Spoleto e quella di Norcia, due sedi destinate alla fusione – come in Sardegna è capitato per Alghero e Bosa, affidate per intanto allo stesso vescovo, ”in persona epìscopi”, come si dice.

Due diocesi piccole: insieme facevano press’a poco quella che nell’Isola è, per popolazione e territorio, la diocesi di Ales: diciamo centomila anime – un quinto dell’archidiocesi di Cagliari – e milleottocento chilometri quadrati di territorio, meno della metà di Cagliari. Una settantina di parrocchie in 24 comuni di entrambe le province di Perugia e Terni. Un centinaio i preti diocesani, una sessantina quelli regolari. Circa 300 le suore, una ottantina i religiosi. Queste le dimensioni. Aggiungerei che la cattedrale spoletina s’intitola come quella di Cagliari a Santa Maria assunta in cielo; quella di Norcia – oggi concattedrale – a Santa Maria Argentea.

Si tratta di diocesi antiche: una del primo secolo, l’altra del terzo. Entrano nella loro storia San Feliciano e San Benedetto… Norcia era la “vetustissima urbs” sabina diventata romana col nome di Nursia, un municipio autonomo, terra natale della madre di Vespasiano e delle mogli di Claudio e di Traiano…

Vorrei precisare che nel 1986 – vale a dire un annetto prima che fossi ritrasferito in Sardegna – le due diocesi si fusero canonicamente in una sola.

Spoleto e Norcia sono nel sud dell’Umbria. E comunque non lontane da quel Casentino che era la terra d’origine di mio padre. Mi ricollegavo idealmente, e con poco sforzo, alla terra degli Alberti…

Ad accogliermi ai confini del territorio diocesano, in località Molinaccio, domenica 7 ottobre – festa della Madonna del Rosario –,  fu il vicario capitolare, don Giuseppe Chiaretti, che avevo conosciuto – lui studente ma già prete, anzi prete prima di me, io segretario generale – alla Lateranense nel ’59. Fu il mio eccellente vicario generale, ed avrei avuto il piacere di consacrarlo vescovo, di fianco al cardinale Baggio, nel 1983.

Pioveva a dirotto. Fui accolto… Centinaia e centinaia di persone nella strada, nonostante la pioggia: brevi discorsi a Molinaccio e nel palazzo arcivescovile, addirittura duecentesco come primo impianto. Fra l’uno e l’altro, in piazza del Mercato, un reparto della locale scuola allievi sottufficiali di fanteria mi rese gli onori militari. Era la mia prima volta!

La Chiesa di Spoleto dette alle stampe una brochure di quattro pagine, con alcuni attestati di benvenuto. In uno di questi si ripassava qualche mio studio e si prendeva a man bassa dal mio “Il Nuorese, cuore della Sardegna”, uscito l’anno prima, con tutte quelle descrizioni ambientali e sociali della campagna e dei pastori…

Mi hanno detto che la giunta comunale si era presentata con la cravatta rossa social-comunista. E che problema c’è?! Il rosso noi preti lo indossiamo nientemeno che per la Pentecoste, il colore è bellissimo.

Ma, vorrei dire, fui accolto e prima ancora accompagnato: accompagnato da 200 nuoresi, in testa il sindaco Giuseppe Corrias. Che festa! C’era anche una bella delegazione dell’Avis, dei donatori di sangue di Nuoro, con il presidente Elettrio Corda, mio amico.

Il rapporto con la mia città e la Sardegna restò, anche in quegli anni, intensissimo. Soltanto un flash, legato al pellegrinaggio che annualmente compivo con gli amici dell’Unitalsi a Lourdes, presente quella volta anche il cardinale Baggio: era l’estate 1977, ed invitai il coro di sos Canàrjos del maestro Nuvoli, in pellegrinaggio con noi, a cantare nella grotta della Vergine santa. Stupore gioioso dei trentamila partecipanti alla liturgia.

Certo mi occupai del riordino degli archivi storici, ma prima di tutto mi occupai delle impellenze sociali, che erano anche religiose. Il territorio, ripeto, passava per essere di sinistra, e in effetti lo era. Ma la cosa non mi è mai dispiaciuta, pur essendo io, per natura e formazione ed esperienza, un moderato, diciamo pure un centrista, amico dei Mannironi e di un certo ambiente che guardava alla politica. Ma prima di tutto e sempre in tutto ero un prete ed ora un vescovo, che deve guardare chi incontra esclusivamente in termini di fraternità.

Per questo, fin dai primi momenti, mi ricordo, partecipai ai cortei sindacali, parlai dal palco: qualcuno non ci credeva, era la prima volta, poi gli applausi vennero, ma non vennero al vescovo, vennero alla Chiesa che si faceva presente. Avevo scelto come motto episcopale “Veritatem facientes in caritate”, e questo spiega tutto. Così ricordo la immersione piena che feci nel 1979, quando le popolazioni della Valnerina furono colpite da un terremoto. Questo stesso facevano tutti i preti della diocesi, tutte le comunità. Un solo popolo.

Ma già nel 1974 – ero lì da un anno soltanto – ecco scoppiare il caso della diffusione della droga. Anche a Cagliari è di quegli anni, il 1973-74, e poi la valanga andò ingrossandosi sempre più, che il fenomeno dell’eroina, e anche e forse soprattutto degli acidi, oltre che del fumo, si impose alla attenzione di tutti. Eppure v’era chi non voleva vedere. Ebbi questa intuizione: il problema poteva diventare tragedia, per la propagazione facile di quella che era la spia di un malessere diffuso nella giovane generazione. Ne parlai nella omelia di San Ponziano: chiesi al patrono di Spoleto di salvare la città, l’Umbria, da quel male. Voleva essere, tradotto in parole umane, una chiamata alla corresponsabilità. E invece in Consiglio comunale qualcuno mi criticò, considerava eccessivo l’allarme.

Da quell’allarme, da quella presa di coscienza che andò poi espandendosi, nacque il nostro Centro di solidarietà per il recupero dei tossicodipendenti, certo fra i primi in Italia.

Nel 1980 accolsi a Norcia, per i 1.500 anni dalla nascita di San Benedetto, il papa Giovanni Paolo II.

Gli incontri con il pontefice, che pur non potrei dire frequenti, furono comunque diversi: non soltanto per le visite ad limina, non soltanto per le udienze ai membri delle Congregazioni di cui facevo parte o anche per le liturgie solenni di beatificazione o canonizzazione… Capitò una volta, nell’aprile 1982, che portai in Vaticano – lo dico adesso in breve – una giovane donna, Francesca, su cui Giovanni Paolo II esercitò personalmente, e non dico con quanta fatica, un esorcismo…

In quegli stessi anni – la cosa vale a complemento di quanto detto prima – fui chiamato ad altri due incarichi nella curia romana: nel 1981 e nell’84, come membro rispettivamente della Congregazione per le Cause dei santi e della Congregazione per i Vescovi.

Intanto il 18 e 19 marzo 1981 celebrai il 25° del mio sacerdozio: ordinazione e prima messa. La squisitezza da cui fui circondato mi fa ancora venire i brividi. Scrissi un breve testo, un opuscolo diffuso tra tutti i fedeli, per condividere con loro i sentimenti. Ricordai che fino ad allora avevo celebrato 11.466 sante messe…

Vorrei anche segnalare che, incaricato dalla Conferenza Episcopale umbra mi occupai intensamente, nel 1983, del rilancio della testata unitaria delle nostre diocesi, “La Voce”. Non ho detto che la Regione Ecclesiastica umbra si compone di otto diocesi: Città di Castello e Gubbio, nel nord della regione; Perugia-Città della Pieve e Orvieto-Todi nella parte centrale occidentale, verso Toscana e alto Lazio, Assisi-NoceraUmbra-GualdoTadino e Foligno, sulla stessa fascia centrale, ma verso oriente, dunque verso Marche ed Abruzzo, infine Terni-Narni-Amelia e Spoleto-Norcia, nella parte meridionale, rispettivamente ad ovest e ad est.

I tanti nomi che compongono le diocesi rivelano la stratificazione della loro storia millenaria, nel cuore degli Stati della Chiesa, poi dello Stato pontificio. In Umbria si è sviluppato nel tempo un incisivo processo di aggregazione di Chiese particolari. Sola metropolitana è quella di Perugia, che ha per suffraganee le diocesi del centro-nord regionale; sono invece direttamente soggette alla Santa Sede l’archidiocesi di Spoleto-Norcia, la diocesi di Orvieto e quella di Terni.

Ma fatto questo quadro, quel che mi pare importante rilevare è che in tutta la regione ecclesiastica, con l’eccezione di Foligno (che aveva ed ha una sua “Gazzetta” centenaria), c’è un solo giornale cattolico: sì con pagine diocesane particolari, ma unitario nella testata e nell’indirizzo e nella organizzazione. Proprio quel che s’era ipotizzato anche in Sardegna col Concilio Plenario…

Il giornale nacque, o rinacque, grazie alla determinante collaborazione del buon amico avvocato Giuliano Salvadori del Prato, che era stato dal 1968 e per una ventina d’anni l’editore de “L’Unione Sarda”, a Cagliari, prima che la testata passasse a Nicola Grauso. Egli ci procurò le risorse finanziarie, comprammo una buona rotativa, e via…

Mi preme evocare, in ultimo, anche un campo di attività che è stato per me di… speciale beatitudine. Gli scout. Non avrei potuto trascurare questa bella presenza associativa organizzatissima anche in Umbria. Gli incontri sono stati numerosi, e ce n’è anche una bella documentazione fotografica: nei campi – ho celebrato anche la messa da campo! – e in duomo, fra lupetti e tutti gli altri, di tutte le età. Lo dico: ho trovato negli scout umbri, certo non meno che in quelli sardi, una purezza interiore e un pensare positivo che mi hanno incantato sempre.

Peraltro dovrei anche far presente che fu proprio nei miei anni spoletini e umbri, precisamente nel 1974, che l’ASCI – fondata nel 1916 (quando l’Italia era stretta nel macello della guerra!) – si è fusa con l’AGI (Associazione Guide Italiane) dando vita all’AGESCI, viva e vitale ancora oggi, in Umbria e in Sardegna e in tutta Italia, anche se è vero che i problemi non sono mancati per qualche differente sensibilità presente fra le componenti andate alla unificazione…

Poi so – lo dico fra parentesi – che l’attuale arcivescovo di Cagliari anche lui viene dal mondo scout, e la cosa mi tranquillizza molto circa quel che farà…

Il 23 novembre 1987 mi raggiunse ufficialmente la notizia del trasferimento a Cagliari. Ormai sessantenne rientravo nella mia Sardegna.

Salutai con una solenne messa nella festa di San Ponziamo martire, giovedì 14 gennaio. Ero commosso alle lacrime. Dissi: “Questo è il momento che ho scelto per dirvi non l’addio di chi si allontana per sempre, ma l’arrivederci di chi sente, desidera, anzi fermamente vuole, che ci siano altre occasioni di fraterno colloquio, anche se sa che diverso sarà il rapporto, non più di padre con i figli, ma di fratello con fratelli, di amico con amici… Dalla sera del 7 ottobre 1973 ho incominciato a conoscervi, ad amarvi. Non in una maniera indistinta e anonima, ma persona per persona, parrocchia per parrocchia. Eravate la mia chiesa, la mia famiglia spirituale e per questo ho amato chiamarvi figli. Non ho avuto in questi quattordici anni altro amore che per voi, altra preoccupazione che non fosse il vostro bene”.

Mi fu fatto un dono: alla mia partenza mi venne consegnata la “lex spoletina”, una riproduzione del cippo di pietra risalente al II secolo a.C., conservato nel locale museo archeologico. Un pezzo di Umbria che materializzava i sentimenti più belli di un sodalizio umano durato quasi tre lustri…

Mi confessai ringraziando, e riferendomi per lo più agli amministratori che in quel certo primo giorno qualcuno mi aveva descritto come “rossi”. Dissi così: “Uomini che ho sperimentati amici, solleciti come me, quanto me, del bene comune della comunità umana della quale ci siamo trovati a far parte. Uomini con cui ho potuto condividere tante speranze, partecipare preoccupazioni e dolori, concertare azioni comuni, in una collaborazione alacre, intelligente, fattiva: in una parola sola, uomini tra i quali mi è stato una gioia vivere e operare, uomini che mi hanno dato più di quanto ora io possa dire, uomini che hanno arricchito la mia vita, fatto di me un altro uomo da quello che ero, ex professore universitario ed inesperto neoeletto vescovo, animato di tanto amore, di tanto slancio, di tanto desiderio di giovare alla ignota comunità nella quale stavo per inserirmi, ma anche pieno di tremore e di timore”.

Tornai più volte in diocesi, negli anni cagliaritani e anche in quelli successivi nuoresi, quelli del riposo. L’ultima visita è stata l’anno scorso: non stavo bene, ma me lo imposi, un congedo. Speciale l’incontro con le monache del monastero di Santa Rita da Cascia, cui ero particolarmente legato e cui indirizzavo i biglietti di “preghiere insistite” a Dio per le cause più diverse. Molti nuoresi, e anche cagliaritani, hanno avuto le preghiere delle monache casciane. Ero stato in grande amicizia con la badessa madre Geltrude Ceccarelli al tempo della ristrutturazione della basilica di Santa Rita, cui partecipò anche il maestro Giacomo Manzù… Un bel lavoro!

Il primo affaccio a Cagliari, dopo quello del 1971

Feci l’ingresso a Cagliari domenica 24 gennaio 1988 – memoria liturgica di San Francesco di Sales, vescovo e dottore, buon patrono dei giornalisti –, dopo che il vescovo ausiliare monsignor Pillolla aveva preso possesso canonico, per me, della chiesa cattedrale, cioè dell’ufficio di pastore della comunità diocesana.

Rientrare a Cagliari – dove, ricordo, vissi quei due anni 1971-73 con la responsabilità di rettore del seminario regionale appena trasferito, in fretta e furia, da Cuglieri – fu bello. Lo dico, lo posso anche cantare: Cagliari è bella. Come Nuoro, ma diversamente da Nuoro. E’ naturale che sia così.

Da storico della Chiesa, che sono panni che non potrei mai smettere, ricorderei che la Chiesa diocesana nuorese è suffraganea di quella di Cagliari, e che ci fu un tempo in cui il metropolita di Cagliari era anche vescovo di Nuoro: fu quando la diocesi di Galtellì venne soppressa da papa Borgia (il quale altre ancora ne soppresse in Sardegna), per poi riprendere vita autonoma dopo quasi tre secoli…

Cagliari. Che dire? Intanto vorrei dire che Cagliari, per storia e dimensioni, avrebbe significato per me, quasi certamente – pur se mancava l’automatismo canonico –, la presidenza della Conferenza Episcopale Sarda e, a discendere, quella del Concilio Plenario Sardo già indetto. Intendiamoci bene: non dico questo per vanto di cariche; giuro di no. Lo dico per altre ragioni: perché non soltanto come metropolita potevo sentirmi un po’ vescovo anche della mia Nuoro, oltre che di Iglesias e di Lanusei, che sono le altre suffraganee di Cagliari; ma perché avrei allargato l’impegno, la fatica, e però anche la gioia di un rapporto più motivato, anche con le altre Chiese particolari della Sardegna: con Oristano e con Ales, con Sassari e con Alghero-Bosa, Ozieri e Tempio. La trascorsa esperienza di rettore del Regionale mi induceva a questo.

Facendo parlare il cuore, soltanto il cuore: quei due anni in cui fui incaricato della guida del Regionale, mi avevano messo in contatto diretto non soltanto, ovviamente, con i vertici diocesani di tutta l’Isola, dato che ormai il seminario era entrato, come ho detto, nella responsabilità diretta – compresa quella finanziaria – della Conferenza Episcopale Sarda, ma soprattutto con i ragazzi, con i chierici che si apprestavano al sacerdozio, svolgendo il loro corso di studi teologici. E in quegli anni furono relativamente numerosi, ancorché in flessione, i chierici che vennero ordinati – una cinquantina nelle tre uscite del 1971, ’72 e73 –  e più numerosi ancora, complessivamente, furono quelli con cui ebbi contatti quotidiani, i quali avrebbero concluso gli studi successivamente… Ricorderei che negli anni 1974-78, furono ordinati in Sardegna… potrei sbagliarmi di due o tre, almeno  50 chierici, che frequentavano quando io ero rettore. Per questo, vorrei dire soprattutto per questo – è il cuore che parla –, ero felice di fare, fra mille problemi e difficoltà, l’arcivescovo di Cagliari e – come avvenne dal 9 febbraio 1988 – il presidente della Conferenza Episcopale Sarda.

Il mio pensiero andava molto anche a loro, non più studenti ventenni, ma ormai preti maturi ed esperti, e speriamo santi. Avverto in me questo impulso di ricordarli uno ad uno, ma sono troppi… Pierangelo di Arbus, Leonardo di Alghero, Giovanni di Mara, Angelo e Lorenzo di Tresnuraghes, Battistino e Francesco di Sedilo, Salvatore di Cuglieri, Andrea di Bulzi, Roberto di Iglesias, Pietro di Teulada, Antonello di Portoscuso, Salvatore di Santulussurgiu…

Barbaricini o baroniesi o ogliastrini, Pasquale di Gorofai, Francesco di Orune, Pietro di Orani, Luigino di Orgosolo, Salvatore di Bitti, Giovannino di Nuoro, Efisio di Girasole, Giovanni di Ierzu, Ettore di Villagrande…

E del capo di sopra – … sì, debbo citarli! – Giacomo di Benetutti, Tonino di Illorai, Antonio e Pietro di Bonorva, Giovanni di Sorso, Francesco di Porto Torres, Sebastiano di Sassari…

E dell’Oristanese, della diocesi di monsignor Fraghi allora: Pasquale di Baratili, Pasquale di Ollastra, Domenico di Simaxis (la patria di papa Simmaco), Salvatore di Oristano…

E poi quelli di qui, della diocesi di Cagliari: Giuseppe di Assemini, Franco e Luigi di Quartu, i due Franco ordinati a Sant’Anna, Gian Paolo ordinato in duomo, Tore e Alfredo ordinati in seminario…

Di più: qualche mese dopo la permanenza in diocesi, mi venne dal papa Giovanni Paolo II la nomina a presidente del Concilio Plenario Sardo che era stato indetto nel 1987 dal mio predecessore, il cardinale Giovanni Canestri.

Se ne è detto, in questi ultimi anni in cui io sono stato nel buen retiro nuorese, fra casa in via Massimo d’Azeglio 35 e casa a Valverde: se ne è detto che il Concilio Plenario fosse stato abbandonato, che si fosse smarrito il gusto di pensarla “sarda” per l’universale, in sintesi e in comunione regionale cioè per la cattolicità, invece che “campanile più campanile più campanile”… chissà se per l’universale, magari con Cagliari  magna pars. Io non posso e non voglio entrare in questa disputa; sarà la storia a giudicare. Dico soltanto che con la formazione barbaricina, l’esperienza decennale della Lateranense nell’urbe, quella di rettore del seminario maggiore regionale della Sardegna, quella ultima di arcivescovo-vescovo di due diocesi proiettate alla unità piena nel cuore dell’Umbria, l’ufficio di metropolita di Cagliari e di presidente della CES e poi del Concilio mi hanno fatto toccare con mano, e gustare – sì, gustare! – il bello che c’è nel fare Chiesa “insieme” in Sardegna.

Mi è capitato, come studioso, di vedere tutti i documenti direi ormai millenari delle dispute fra gli arcivescovi di Cagliari e di Sassari e anche di Pisa circa il primato, d’onore e giurisdizione. Ancora a Novecento inoltrato sulla carta intestata di qualche presule c’era questa rivendicazione del primato sardo, anche se alla fine la Santa Sede aveva chiarito. Debolezze di uomini. Nella sequela al Vangelo, i primi sono gli ultimi, gli ultimi i primi. E’ bello essere il primo perché risucchiato, d’immediato, all’ultimo posto per servire. Io ho sempre avuto questo assillo: e tutti i giorni, alzandomi dal letto, mi interrogavo: sto servendo la mia comunità, il gregge dell’unico Pastore, lo sto servendo bene, con amore e responsabilità? gli sono d’esempio?

Ho raccontato di me negli anni lontani – fra Nuoro e continente –, quelli vissuti a Cagliari sono stati costantemente all’attenzione generale, perché i giornali certamente non hanno negato spazio alle mie iniziative e a quelle complessive della diocesi.

Chissà che non sia il caso di organizzare un altro incontro – magari fra qualche mese, magari nell’occasione del primo anniversario di questo mio altro trasloco in paradiso dove, vi dico, … tutto è bellissimo! – per mettere meglio a fuoco le tante tappe raggiunte insieme.

Se però me la debbo sbrigare, dirò almeno per sommi capi: pur avendo dei validissimi vicari generali, con i quali dividevo molto lavoro, certo Cagliari non mi consentiva di proseguire i filoni di studio come era stato in precedenza. Diciamo che ho pubblicato, negli anni cagliaritani, pochino: il completamento della storia galtellinese e quel volume “Scritti di storia civile e religiosa della Sardegna”, nel 1994, con prefazione del compianto professor Sorgia. Una ricapitolazione di contributi sparsi, usciti qua e là: 29 fra articoli e saggi brevi, riuniti in quattro capitoli tematici.

Direi che ho fatto il vescovo a tempo pieno… naturalmente mettendoci dentro anche le incombenze assunte presso le Congregazioni della curia romana e quelle della CES, in primis il Concilio Plenario Sardo, merito del quale però, lo debbo dire, è stato del segretario generale, il mio amico monsignor Pier Giuliano Tiddia, arcivescovo di Oristano, il quale ha infine cercato – dopo la pubblicazione degli atti (2001) e il mio congedo (2003) – di mandare avanti, sul piano applicativo, quegli indirizzi pastorali che avevamo concordato, e che è stato il solo, di recente, a difendere quella gran fatica…

Ma se si vorrà, potremo riprendere da qui, un’altra volta, il viaggio nella memoria del mio servizio apostolico nella Chiesa di Cagliari. Mi piacerebbe…

 

 

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