L’ineguaglianza mette in pericolo la democrazia? di Gianni Mula

Nel suo ultimo editoriale il nostro (de Il dialogo) direttore Giovanni Sarubbi coglie nel segno individuando nel tema delle disuguaglianze sociali la chiave di volta per capire le cause vicine e lontane dell’attuale crisi economica. La sua analisi descrive impeccabilmente un sistema ormai alla deriva nel quale qualche decina di persone ai vertici delle cinque banche d’affari e dei cinque istituti di credito che detengono il 90% dei cosiddetti derivati (cioè dei prodotti finanziari che sono la causa prima della crisi del nostro sistema economico) è più potente “dello stesso presidente degli USA o di quello della Germania. Chi li conosce? Chi fra i disoccupati, i cassintegrati, gli esodati, i disperati che si tolgono la vita perché la loro piccola impresa è fallita o perché disoccupati, ha mai associato la propria condizione di miseria alla smisurata ricchezza e potere di queste poche decine di persone?

Non c’è alcun bisogno di ipotizzare un qualche tipo di complotto megagalattico: queste persone operano ciascuna nel proprio interesse e per giustificare il proprio operato dicono che tutti dovrebbero fare come loro. Non hanno bisogno di alcun sistema pensionistico, né di assistenza sanitaria e se serve sono anche pronti a rinunciare alla protezione della forza pubblica. Gli basta in cambio che gli venga data la possibilità legale di comprarsi la protezione armata di cui hanno bisogno.

Sono anche in evidente “buona fede“: per questo ai loro amici italiani dispiace introdurre riforme che riducano lo stato sociale che abbiamo conosciuto sinora. Purtroppo, come disse un sobrio ex-presidente del consiglio, i soldi sono finiti e non ce lo possiamo più permettere.

La descrizione di Sarubbi, che pur si mantiene sempre aderente ai dati di fatto della situazione nella quale ci troviamo, potrebbe essere giudicata eccessivamente allarmistica. Guarda caso, però, è fondamentalmente la stessa fatta da Papa Francesco nella sua recentissima Evangelii Gaudium, quando ha scritto (53 e 54) «…Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare … In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante».

Su questo giudizio di Francesco Michael Novak, ottantenne e molto autorevole filosofo cattolico americano di orientamento conservatore, ha scritto in un suorecente articolo sulla National Review (traduzione mia): «In Argentina, come in altri Stati nei quali non c’è traccia di mobilità verticale, questo giudizio potrebbe essere considerato comprensibile, ma in nazioni nelle quali la mobilità verticale è stata sperimentata nel corso di diverse generazioni non è vero per niente. Il movimento verso l’alto della scala sociale promosso da certi sistemi capitalisti è esperienza di fatto, non rozza e ingenua fiducia. Parlare di ricaduta favorevole non è una buona descrizione di che cosa è avvenuto da noi; noi abbiamo sperimentato che la ricchezza nasceva dal basso. Questa è la ragione per la quale milioni di immigranti continuano ad essere attirati dalla nostra economia».

In realtà con “trickle down”, il termine inglese corrispondente all’italiano “ricaduta favorevole”, ci si riferisce ai supposti benefici dell’economia capitalista. Questi benefici, che corrispondono all’idea che se aumenta il livello dell’acqua ne traggono vantaggio ugualmente tutte le barche, sono però mere illusioni per chi si ritrova senza barca, senza alcuna possibilità di procurarsela, e magari vive in riva al mare. In un libro di Thomas Piketty uscito tre mesi fa in francese e la cui traduzione inglese, dal titolo Capital in the Twenty-First Century (L’economia capitalistica nel XXI secolo) è annunciata per il prossimo 10 marzo, si traggono conseguenze sconfortanti per il mondo occidentale. Sulla base di uno studio accurato dei dati economici disponibili che risale sino al settecento Piketty mostra che la crescita economica e la diffusione della conoscenza hanno sinora impedito che si realizzassero le previsioni apocalittiche di Karl Marx, ma, contrariamente a quanto speravamo nei decenni ottimistici che hanno fatto seguito alla seconda guerra mondiale, non hanno modificato né la struttura del capitale né la tendenza alla crescita delle disuguaglianze.

Per Piketty l’aumento delle disuguaglianze, che è generato dalla tendenza del tasso di remunerazione del capitale a superare il tasso di crescita dell’economia, minaccia di raggiungere livelli tali da mettere in pericolo l’esistenza stessa della democrazia. Poiché Piketty è un economista di fama internazionale e di autorevolezza indiscussa, colgo al volo l’annuncio fatto dal direttore Sarubbi alla conclusione del suo editoriale e propongo che il tema dell’aumento della disuguaglianza e del pericolo che quest’aumento costituisce per il sistema democratico sia il primo sul quale concentrare l’attenzione del sito. La recensione del libro di Piketty recentemente pubblicata dal New York Times e qui da me tradotta potrebbe essere inserito come primo intervento per aprire la discussione. Ne seguiranno certamente molti altri.

 

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