La conversione di color che sanno (o credono di sapere), di Carlamaria Cannas
In un piccolo prezioso libro di Alberto Maggi e Antonio Thellung “La conversione dei buoni” si evidenzia come sia difficile far convertire al bene chi si ritiene già buono, possessore della verità, e quindi automaticamente esente da colpe in ogni circostanza. Una simile resistenza si incontra spesso con le persone colte che, sicure della propria verità faticosamente acquisita, si rifiutano di prendere in considerazione la sola possibilità che le cose stiano in maniera diversa.
L’articolo di Eugenio Scalfari su Papa Francesco che avrebbe abolito il peccato è un caso da manuale di questo rifiuto: poiché uscire dal vecchio schema di un Dio antico testamentario vendicativo contrapposto a un Dio cristiano buonista potrebbe porre problemi al proprio ateismo, Scalfari, come tanti altri non credenti, non esita a presentare il racconto biblico come una storiella insensata. Poiché però le dichiarazioni del Papa nell’intervista che gli ha concesso hanno senso, le utilizza tranquillamente per trarne la conclusione, per lui stesso ovviamente confortante, che quelle dichiarazioni di fatto costituiscono l’abolizione formale del peccato e la conseguente riduzione del messaggio cristiano a una generica filosofia buonista, abbracciabile da tutti, specialmente se ricchi e potenti, senza apprezzabili vincoli pratici. A un giovane praticante si consiglierebbe di rileggersi i testi e di provare a usare il cervello, a un’icona famosa del giornalismo si concedono invece titoli in prima pagina e tutto lo spazio che serve.
Diamo un’occhiata a qualche frase di Scalfari:
«La legge mosaica condensata nei dieci comandamenti ordina e impone divieti. Non contempla diritti, non prevede libertà. Il Dio mosaico descrive anzitutto se stesso: “Onora il tuo Dio, non nominare il nome di Dio invano, non avrai altro Dio fuori di me”. … Il Dio mosaico è un giudice e al tempo stesso un esecutore della giustizia. … Quel Dio è unico, è giudice, è vendicatore ed è anche, ma assai raramente, misericordioso, ammesso che si possa definire [tale] chi premia l’uomo suo servo se e quando ha eseguito la sua legge. … Adamo ed Eva peccarono e furono puniti, Caino peccò e fu punito, e anche i suoi discendenti peccarono e furono puniti. L’umanità intera peccò e fu punita dal diluvio universale.
Questo è il Dio di Abramo, il Dio della cattività egizia e babilonese, di Assiria, di Babele, di Sodoma e Gomorra. Nella sostanza è il Dio ebraico o molto gli somiglia …
[Invece] il Dio che predicò Gesù e che troviamo nei Vangeli e negli Atti degli apostoli … [è un] Dio estremamente misericordioso che si manifestò con l’amore e il perdono.»
Scalfari ha tanto studiato quella che i credenti chiamano Sacra Scrittura che gli è sfuggita una cosa semplice, chiara e condivisa da tutti gli studiosi contemporanei: il Gesù storico era ebreo (Un ebreo marginale è il titolo dell’opera enciclopedica che il gesuita J.P. Meier ha dedicato al Gesù storico) e come tutti gli ebrei credeva nel Dio che si era rivelato sul monte Sinai. Forse il Gesù del quale parla Scalfari non è quello cinematografico, bianco come uno svedese, alto, biondo e con gli occhi azzurri, ma ci si avvicina molto, soprattutto perché non risulta conoscere l’Antico Testamento. Peccato che un Gesù di questo genere non sia mai esistito.
Dopo il Concilio Vaticano II l’interpretazione letterale dei testi biblici proposta da Scalfari è culturalmente insostenibile. Un non credente colto che attribuisca ai suoi interlocutori credenti questa visione di un Dio onnipotente e vendicativo non merita di essere preso sul serio. L’attenta rilettura dei testi, su base ampiamente non confessionale, fatta negli ultimi sessant’anni, ha ormai dimostrato che non c’è soluzione di continuità tra il Dio dell’Antico e quello del Nuovo testamento.
Scalfari è invece rimasto affezionato al concetto (falso, ma che ci è stato instillato da piccoli) di un Dio mosaico che non è in nessun modo misericordioso ma esige soddisfazione per qualunque trasgressione alle sue leggi. In particolare l’affermazione: “La libertà di coscienza fa dunque parte integrante del disegno divino. Il Dio mosaico punisce chi esercita la sua libertà.” mi sembra allucinante: ma il Dio a cui pensa Scalfari è per caso un Dio sadico che ci dà la libertà di coscienza per punirci non appena la usiamo? Un Dio tanto sadomasochista da aver bisogno di sacrificare il proprio figlio per rimediare alla ferita inflitta al proprio orgoglio dalla disobbedienza del genere umano?
In buona sostanza Scalfari difende un Dio nel quale non vale la pena di credere e si compiace con Francesco per averlo reso inutile.
A leggere i testi con un minimo di attenzione, Scalfari avrebbe potuto scoprire che Dio, andato alla ricerca di Adamo non certo con intenti vendicativi (consiglierei a Scalfari di leggere il bel libro del priore di Bose Enzo Bianchi “Adamo dove sei?”), vedendo che Adamo ed Eva erano diventati coscienti di essere nudi preparò loro degli abiti, oppure che impose che nessuno toccasse l’assassino Caino. Potrebbe perfino scoprire il piccolo libro di Giona, dove si racconta di un profeta che non vede di buon occhio la misericordia di Dio nei confronti della popolazione della città di Ninive, che contesta Dio fin che può, tanto da dichiarare “per questo la prima volta ero fuggito a Tarsis, perché sapevo che tu sei un Dio pietoso e misericordioso, longanime e di molta grazia e che ti penti del male! Or dunque, Signore, prendi la mia vita, perché è meglio per me morire che vivere”. Meglio morire che accettare un Dio misericordioso! Perché dopotutto il Dio vendicativo ce lo siamo creati a nostra immagine e somiglianza e ci è difficile pensare che la sua giustizia sia diversa da quella che intendiamo noi.
In ogni caso la “punizione” che Dio infligge non è mai una vendetta, neanche nel racconto biblico interpretato letteralmente: nel giardino dell’Eden l’unico punito davvero è il serpente, all’uomo e alla donna Dio dice che quel che fino a quel momento avevano fatto con gioia e innocenza, ora che hanno scoperto di essere liberi di trasgredire lo faranno non con senso di colpa, come dice Scalfari, ma con cognizione della fatica; i nostri progenitori mitologici avevano perso l’innocenza, abusando della loro libertà.
Inoltre con un pochino di riflessione in più Scalfari si sarebbe potuto accorgere che le innovazioni che Francesco sta introducendo riguardano la visione tradizionale del peccato come trasgressione individuale, quella implicita nell’atto di dolore che parla del peccato come di una offesa personale a Dio. Quella che riduceva il peccato quasi esclusivamente a un soddisfacimento di impulsi sessuali in maniera non approvata dalla chiesa. Ma questo concetto di peccato individuale non si ritrova nell’antico testamento e deriva da un’interpretazione forzata e infondata di un unico episodio, quello di Onan. Un’interpretazione che è stata, questa sì, abolita da tempo: ma non tanto dalla chiesa gerarchica quanto dalla comprensione che si ha oggi della rivelazione e della Sacra Scrittura.
C’è poi un peccato che sicuramente Francesco non ha “abolito” e di cui sottolinea in ogni occasione la gravità, il peccato sociale: non a caso uno dei passi della Evangelii Gaudium più contestati in certi ambienti economici (ed ecclesiali) è quello dove si parla della cosiddetta “ricaduta favorevole” (n. 54), cioè della visione economica neoliberista oggi prevalente che viene giudicata senza mezzi termini come contraria al vangelo.
Il peccato sociale è il male che facciamo intenzionalmente a qualcun altro (quello fatto involontariamente non è mai peccato, è un’altra cosa). Francesco cioè rimarca che questo male ricade sempre su tutti gli esseri umani perché rende il mondo meno vivibile per tutti. Non si tratta di un’offesa a Dio, ma di un’offesa all’umanità.
Il nostro problema è spesso voler vedere solo ciò che conferma le nostre idee pregresse e di conseguenza andare a cercare nella Scrittura solo le frasi o le pericopi che ci tornano comode.
Che persone di cultura commettano ancora, in questo campo, l’errore tipico degli sprovveduti: ritagliare frasi senza tener conto del contesto, e quindi far dire al testo non quello che dice ma quello che gli si vuole far dire, può solo essere compreso come il tentativo di giustificare a priori la propria condizione di non credente.
Mi colpisce, non solo in Scalfari ma anche in molti suoi amici di analoga formazione preconciliare, l’essere rimasti ancorati, da laici dichiaratamente non credenti, agli insegnamenti di un catechismo (parlo di quello di Pio V) come a verità intangibili alle quali è ovvio non credere ma alle quali chi dice di credere dovrebbe rimanere fedele. Sembrano ignorare che l’introduzione del metodo storico critico e la lettura integrale della Sacra Scrittura hanno dato la possibilità all’intera Chiesa, laici compresi, ma anche ai non credenti, di conoscerla e studiarla come mai prima. Se lo volessero persone come Scalfari, con la loro riconosciuta cultura, potrebbero ben andare oltre le storielle assorbite durante l’infanzia (ricordate il Vangelo riscritto per i bambini che cercava di mettere insieme almeno i Vangeli sinottici in un unico racconto?).
Dai tre articoli di Scalfari si potrebbe ricavare l’impressione che il non credente sia, forse nolente, ancora in ricerca e che papa Francesco, col suo dire chiaro, franco, privo di orpelli legalistici, col suo usare la buona novella come unica bussola delle proprie azioni, lo abbia sconvolto: non è forse più semplice definirsi atei se il Dio dei credenti è uno nel quale non vale la pena di credere, pronto a mazzolarci al minimo sbaglio, che non se il Dio dei credenti è uno che non solo perdona ma ci cerca e vuole prendersi cura di noi?
Forse l’interpretazione più vicina alla verità è che è più semplice tener per buono, finché ci conviene, quel che ci è stato insegnato da bambini che non metterlo in discussione col rischio di entrare in crisi dall’esito imprevedibile.
Venerdì 10 Gennaio,2014