Sa chistione sarda est sa chistione de sa limba sarda, di Franciscu Masala

(Scrittore. Presidente del Comitato per la lingua sarda). Articolo pubblicato nel periodico del gruppo sardista in consiglio regionale nel marzo 1981.

 

Sono nato in un villaggio del Logudoro e, durante la mia infanzia, ho sentito par­lare ed ho parlato solo in lingua sarda, in limba.

In prima elementare, il maestro, un uomo severo sempre vestito di nero ci proibì, a me e ai miei coeta­nei, di parlare nell’unica lin­gua che conoscevamo e ci obbligò a parlare in lingua italiana, la «lingua della Pa­tria», ci disse. Fu così che da vivaci ed ìntèllìgentì ché eravamo, diventammo tutti tonti e tristi.

In uno spiazzo vicino alla scuola, il maestro vestito di nero fece piantare un gruppetto di alberelli e lo deno­minò «Parco della Rimembranza». Ogni alberello fu dato in consegna ad un balilla-guardia d’onore. Io eb­bi il mio alberello da guar­dare, sul mìo onore. Un bel giorno, una capra, penetra­ta nel «Parco della Rimem­branza», si avvicinò al mio alberello e comincò a scorticarlo. Io, forse perché ero tonto o perché avevo pau­ra delle capre, non ebbi il coraggio di cacciarla via e la capra si divorò tutto l’al­berello.

Il maestro, severamente in piena classe, mi chiamò traditore della Patria e mi licenziò da guardia d’onore con grossi paroloni, tutti naturalmente, in lingua ita­liana. Io, altrettanto natu­ralmente, non capii i paroloni italioti, ma, da quel giorno, mi sentii disonorato. Ovviamente, in me comin­ciarono a nascere delle ri­serve sul concetto di patria e della sua lingua.

In realtà, a pensarcì bene, la lingua sarda è il linguag­gio del villaggio, del grano, dell’erba ma è, anche la lingua dei vinti: nelle scuole, invece, viene imposta la lin­gua dei vincitori, chiamia­mola pure il linguaggio del­la città, del petrolio e del catrame, cioè la lingua della borghesia italiana del Nord, che ha concluso il Risorgi­mento colonizzando il Sud ma convincendoci di aver unificato la Patria.

E’ proprio vero che, in Sardegna, gli unici «ìtalìanì» sono gli «intellettuali», che parlano in «italiano» ma mangiano in «sardo». Comunque, la mia carrie­ra scolastica (dalle elementari nel mio villaggio, al ginnasio-liceo, a Sassari, Tatari Mannu, all’università, a Ro­ma, l’Urbe) mi ha lasciato bilingue: cioè, voglio dire è stato l’itinerario di un anti­co fanciullo agro-pastorale sardofono, verso la lingua italofona della piccola borghesia urbana, allora, de­formata, gonfiata, travestita dalla retorica del fascismo.

Mette conto di ricordrlo qui: il fascismo proibì ai giornali sardi di pubblicare poesie in lingua sarda e vietò che, nelle feste patronali dei villaggi sardi, si facessero le gare poetiche degli improvvisatori in lingua sarda.  Non era decoroso per i fasti del neonato Impero

Non mi vergogno di dire che, anch’io, feci la mia eroica resistenza al regime: quando rientravo, in vacan­za, dall’Urbe Imperiale, me ne  andavo nelle bettole del mio vìllaggio, coi miei com­pagni, a «cantare in otta­vas»: certamente ero ispi­rato più da Bacco che da Apollo. D’altronde è appena il caso di dire che, se era proìbìto scrivere in lingua sarda, ciononostante tutti nei villaggi, parlavamo in sardo: l’oralità aveva sur­classato la scrittura. Ma e­ravamo divaricati, crocefissi alla croce di Sant’Andrea.

E non c’è da stupirsi se nel mio villaggio. coloro che parlavano in italiano venivano soprannominati “sos migas”: erano, per lo più, giovani finanzieri, giovani carabìnìerì, giovani poliziot­ti che, dopo pochi mesi di servìzìo in continente ritor­navano in licenza in paese parlando una strana misti lingua, piena zeppa di «o­strega», «cerea», «mìga» da cui il nomignolo. D’altronde, proprio durante il fascismo, da studente universitario sballottato fra due lingue, mi resi conto che certe parole, omofone nelle due lingue, hanno due differenti significati: per e­sempio, nella lingua egemo­ne, «la giustizia» significa «la magistratura», mentre nella lingua subalterna “sa giustizia” significa “la polizia”, e rifletta il lettore sui motivi tragici di questo scarto dalla norma.

Caduto il fascismo, come molti altri sardi, pensai che una cosa era la lingua italiana della dittatura e altra co­sa sarebbe stata la lingua italiana della democrazia. Io stesso, come San Pietro, rìn­negai sette volte la mìa lìn­gua materna, ammazzai la mamma: usai, in sette miei libri, il medium italiano. Giunsi, addirittura, a soste­nere che il sardo era un «dialetto» reazionario: in­somma, aspettavo la rivolu­zione dai «Quattrocento Mi­liardi Italiani» per il Piano di Rinascita della Sardegna «industrializzata» e «italia­nizzata».

Ma l’illusione fu breve: ca­pitalismo fascista e capitali­smo democratico, stato ac­centratore fascista e stato accentratore democratico sono la stessa musica, anche se i musìcantì sono cambia­ti. La monocuItura al catra­me ha scritto, in lingua ita­liana, tutto il Piano di Rina­scita della Sardegna, con i risultati che tutti, ora, cono­sciamo: le Raffinerie, anch’ esse, fumano e parlano in italiano ma mangiano in sar­do.

Il monolinguismo ìtalìota sta divorando tutto: limba, letteratura, arte, musica, tut­ta la cultura, insomma, del­la Nazione Sarda. Un pre­fetto «italiano» denuncia un sindaco «sardo», per «crìmen laesae maiestatis», perché ha giurato in lingua sarda, an­ziché in lingua italiana. Uno studente universitario viene allontanato dall’esame per­chè pretende di dare, in sar­do l’esame di linguistica sar­da. Fra le università di ca. gliari e di Sassari scoppia u­na piccola pugna su alcune questioni di glottologia sar­da, e intanto, nelle «Università del Petrolio», a Sarrok e Portotorres, inventano una nuova scienza, la «glottofagìa», cioè il sistema miglio­re per tagliare la lingua ai sardi e mangìarsela.

I partiti politici, in Sarde­gna, altro non sono che filiali» isolane delle «fabbri­che» politiche continentali. Il «Referendum Popolare suI Bilinguismo», prima ed uni­ca legge diirettamente e­spressa dal popolo sardo, dal mese di luglio del 1978 giace dentro il sepolcro im­biancato della «Regione Ete­ronoma» della Sardegna.

E, ora: che fare? Ite fà­ghere? Cto delai”, comente naraìat Lenin in sa limba sua. Il lungo viaggio, fra due lingue, sembra non avere più fine: sa chistione sarda est sa chistione de sa limba sar­da.

 

 

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