Fabio Maria Crivelli: quel primo giorno isolano di sessant’anni fa, di Gianfranco Murtas
La coscienza civile di un liberal a sostegno di una difficile avventura professionale in Sardegna. Note ed osservazioni.
L’autore è da tempo impegnato in una vasta ricerca sulla storia del giornalismo sardo fra Ottocento e Novecento. In tale quadro sta meglio studiando le vicende de L’Unione Sarda nelle due cruciali fasi dell’impianto liberale (1889-1920) e della ripresa nel secondo dopoguerra fino alla svolta programmatoria di centro-sinistra (1943-1963). L’antica amicizia personale con Fabio Maria Crivelli, il più longevo direttore del quotidiano (1954-1976, 1986-1988) da lui celebrato nella corposa dispensa “Omaggio a Fabio Maria Crivelli: il giornalismo, il teatro, la memorialistica, la massoneria” e in un memorabile reading del gennaio 2011 svoltosi a palazzo Sanjust (“Militanza civile di un intellettuale libero”), ha suggerito questo focus sull’inizio della sua esperienza cagliaritana. Esso costituisce una sorta di prologo al regesto dei fondi, corsivi, ecc. dello storico direttore che l’autore del presente scritto va predisponendo per una prossima pubblicazione. Insieme con ciò, però, Murtas ha voluto qui onorare – con intermezzi più personali – il professionista che, a dispetto del disincanto con cui pareva talvolta giudicare i fatti della società, ha inteso il mestiere come servizio di elevazione civile (che è cosa in sé politica) della comunità.
di Gianfranco Murtas
Bisogna ripensarla la Sardegna della fine del 1953, quando un giovane giornalista romano (ma di origini istriane) arrivava nell’isola con un incarico che avrebbe inorgoglito qualunque suo coetaneo: dirigere un giornale, il maggiore dei quattro al tempo diffusi nella regione. Due di tradizione (compresa cioè La Nuova Sardegna della cosiddetta Frumentaria – gloria dell’Unione Popolare di radice mazziniana –, affidata ancora all’abile, dotta e democratica signoria di Arnaldo Satta Branca e alle numerose nobili collaborazioni, iniziando da quelle di Michele Saba e Gonario Pinna) e altrettanti di parte cattolico/democristiana (a Sassari Il Corriere dell’Isola di Francesco Spanu Satta nella sua… involuzione dall’originario azionismo agli interessi elettorali e politici dell’area Segni-Costa e dell’ETFAS, a Cagliari Il Quotidiano Sardo affidato ormai dal 1950 al mestiere di Giuseppe Lepori, sacerdote colto e combattivo a pro di un indirizzo ancora tardo-clericale e dunque resistente alla modernità civile, intimamente laica, del Paese).
Nel capoluogo, alla testa del giornale di Terrapieno, è già da otto anni – nel 1953 – un giornalista forse manierato ma capace di efficace regia redazionale, umbro di nascita con qualche ascendenza patrizia, onesto, colto e di ampie esperienze, radicato in un liberalismo aperto al nuovo pur senza accelerazioni negli affidamenti al sistema politico-sociale appena uscito dalla Costituente. D’altra parte la proprietà del giornale, l’intreccio dei diversi interessi economico/familiari dell’editore – che pur rimane fondamentalmente editore puro – e perfino la militanza a destra di uno dei Sorcinelli eletto in Consiglio Comunale con ampio consenso, nulla possono concedere al direttore più di quanto egli abilmente, con serena autorevolezza, indirizzi e coordini.
C’è stata, negli anni della direzione Spetia – in parte anche nel tandem con Giuseppe Susini, il bancario/banchiere amico di Quasimodo e fra i maggiori critici letterari d’Italia di molti decenni, fatto direttore dell’Informatore del lunedì dopo la breve ma salutare reggenza della stessa Unione dall’indomani del referendum istituzionale (quando la Concentrazione antifascista ha restituito ai legittimi titolari il dominio proprietario) –, la grande novità della Regione Autonoma, che il giornale ha seguito con attenzione, diviso fra taluni residui timori dello Stato che si… frantuma e l’affidamento che una certa classe politica moderata porta in termini di concorso e non di conflitto (pur se conflitti verranno) con il governo centrale. Perché poi i primi anni dell’autonomia speciale, nei limiti stretti in cui la Costituente ne ha ridotto gli spazi rettificando il piano esitato dalla Consulta Regionale, sono spesi più ad organizzare la macchina che a delineare grandi scenari per opzioni esercitate, più a ritagliare dalle burocrazie statali i quadri della nuova Istituzione legislativo-amministrativa che non a caricare quest’ultima di una soggettività esemplare per quegli altri territori della penisola che pur ambiscono a campi di autogoverno.
La novità è grande in sé, e il giornale è sembrato osservare quasi terzo neutro, piuttosto che proporre e motivare, nella sua pretesa indipendenza, un indirizzo. E’ sembrato farsi, in altre parole, vetrina ospitale invece che motore di studio, nel suo specifico, mobilitando i competenti, o interlocutore, per-e-con spirito civico, dei rappresentanti delle diverse parti politiche in gioco. Si conoscono i legami o i condizionamenti storici dell’azienda editoriale, della testata cioè nei livelli tanto dell’azionista quanto della redazione, pur se questa s’è ora parzialmente rinnovata e arricchita di giovani talenti: bastino i nomi dei due fratelli Fiori e quelli anche di Franco Porru uomo-chiave della “cucina” e Antonio Cardia genio dell’informazione sportiva ma non solo (in ritorno entrambi, dopo la parentesi bellica). E d’altra parte la lettura autonomistica che la politica regionale dà della sua chiamata, nel passaggio fra anni ’40 e anni ’50, è quella che risente della preponderanza democristiana (che non potrebbe mai farsi ostile ai governi nazionali a guida parimenti democristiana) e di una doppia opposizione che, in nessuna delle bande, sa essere alternativa credibile e spendibile: per i rigori dottrinari e movimentisti in campo comunista (assolutamente egemone nella sinistra) e per tatticismo senza respiro e populismo tutto umorale della destra monarchica così come dell’appendice missina (che viene, oltretutto, da una storia brutta). Nel mezzo sono i sardisti – non quelli di Lussu, confluiti troppo presto e paradossalmente nel socialismo nato come polo antiautonomista per eccellenza! – ma quelli che il giornale di Spetia ha chiamato giustamente, all’indomani delle elezioni del maggio 1949, “repubblicani” e che si presentano interclassisti non meno dei democristiani, radicati nella società rurale e nella borghesia professionale urbana. V’è (in parallelo a La Nuova Sardegna) una certa malcelata simpatia per questa formazione che in sé reca anche le migliori idealità dell’antifascismo moderato, incarnate in personalità specchiate e lealiste come Anselmo Contu appunto in Consiglio Regionale, Giovanni Battista Melis alla Camera dei deputati e Pietro Mastino e Luigi Oggiano al Senato della Repubblica.
Il giornale di Giulio Spetia accompagna la prima esperienza autonomistica, seguendone da presso anche le impreviste rotture (e magari anche gli aggiustamenti dell’esecutivo, i rimaneggiamenti o i rinforzi con i tecnici di area autonomistica, soprattutto nel settore della politica energetica e dei trasporti). Lo fa sforzandosi anche di coprire – pur in una foliazione ancora minima – l’ampia gamma delle occasioni di cronaca ora sociale (si pensi ai fenomeni banditeschi del periodo) ora economica o di incerta correntezza ed efficienza dei servizi pubblici (dalle comunicazioni interne a quelle con il continente) che, negli anni proprio di esordio dell’autonomia speciale, si presenta ogni volta proponendo un dato di concorrenza fra Stato e Regione, cioè di incertezza dei limiti di competenza e responsabilità dell’uno e dell’altra. E’ il pedaggio che si paga alla rivoluzione sia pure (per adesso) soltanto potenziale dell’organizzazione dei poteri.
Quando lascia la guida de L’Unione Sarda, il conte Spetia non è ancora vecchio – ha 68 anni – ma certo rivela interamente l’opportunità, se non addirittura la necessità e perfino l’urgenza, di un avvicendamento. Appartenente egli ad una generazione che forse ha già dato quanto poteva, tocca adesso a quelli che si sono affacciati, in uno stesso tempo, alla età adulta e alla guerra. Che hanno sofferto e maturato in fretta e, con le prime esperienze professionali compiute nell’Italia della rinascenza postbellica, hanno intuito ed elaborato orientamenti e tempistiche di una più dinamica fase storica nella vita della nazione in coerenza ai più rapidi ritmi espansivi del contesto continentale od atlantico: per lo sviluppo delle istituzioni democratiche, per la trasformazione economica in senso industriale, per un maggior equilibrio territoriale sia occupativo che degli standard di benessere, per la modernizzazione (e laicizzazione) del costume. Questi gli obiettivi. Di fatto gli anni ’50 sapranno soltanto realizzare una accumulazione del capitale capace di dare velocità alla crescita produttiva e ai vantaggi dell’import-export e della solidità monetaria, e gettare non più che le basi di tutto il resto (equilibrio nord-sud, democratizzazione degli assetti civili del Paese, laicizzazione dello spirito pubblico) che sarà appannaggio del decennio successivo, favorito anche dai progressi della distensione internazionale, dall’evento conciliare, dagli avanzamenti scientifici (anche sanitari!) e tecnologici.
Il 1953 che declina presenta sulla scena nazionale e regionale nuove realtà che vanno dal ritiro di De Gasperi, dopo il fallimento della legge maggioritaria alle elezioni dello stesso anno, all’annunciato balzo alla guida del governo – dopo la breve parentesi Pella – di una personalità come Amintore Fanfani, con tutto quanto essa porterà soprattutto nella codifica di un capitalismo di stato a vocazione anche elemosiniera per il partito di maggioranza relativa. Non ce la farà subito Fanfani, bisogna dire, e toccherà per qualche anno a Scelba, Segni e Zoli guidare l’esecutivo con alleanze moderate o altro, ennesimo monocolore, con lui però – Fanfani cioè – influente segretario politico della Balena bianca.
Sul versante isolano l’anno marca il rientro nel giro politico, dopo la sconfitta elettorale del giugno 1953, di due personalità eccellenti: proprio quel Francesco Cocco Ortu che tanto s’era attivato, come avvocato, per il ritorno dei Sorcinelli alla piena proprietà e gestione della SEI nel 1946, e Giovanni Battista Melis direttore regionale sardista che, non meno del collega, molto conterà nella progredente interlocuzione con il nuovo direttore alla scoperta delle complessità della Sardegna.
Va detto meglio: vicino a Francesco Cocco Ortu, per consonanza ideale e gusto per certi tratti dello spirito pubblico, Crivelli successore di Spetia porterà nel giornale dei Sorcinelli una sensibilità democratica, attenta al sociale come anche può raccontarlo la cronaca di una città ambiziosa e volta a nuovi equilibri ed una regione che, per converso, appare ancora prigioniera di frequenti e cruenti episodi delittuosi, arretrata nell’economia e negli standard civili, cominciando dalla scolarizzazione, dall’assistenza sanitaria ecc. Con Melis, apostolo appassionato del Partito Sardo d’Azione vissuto come strumento redentivo, la consonanza è tutta morale, piantata nell’aspettativa anche sentimentale della rinascita, secondo le modalità di un’autonomia speciale invero ancora molto o troppo legata, per demone interno, alle logiche ministeriali (cioè di burocrazia ministeriale) di cui s’è detto, e ad un insuperabile disegno di tutela governativa vincolata ad interessi elettoralistici.
Sono rientrati sulla piazza regionale entrambi, il Cocco Ortu che sarà presto, nella lealtà critica al suo partito, nel range riflessivo e progressista de Il Mondo di Pannunzio ed il Melis che avrà diversi dei suoi migliori collaboratori presenti anch’essi nella esigua pattuglia degli scrittori sardi proprio del grande periodico del liberalismo revisionista, interessato ai fermenti intellettuali di un meridionalismo comprensivo anche del sardismo autonomista pur nelle contingenti alleanze (comunque aliene da ogni suggestione e miopia nazionalitaria) ora con i repubblicani ora con gli olivettiani di Comunità.
Sono le premesse di una direzione, quella di Fabio Maria Crivelli, efficace nelle innovazioni via via introdotte nella foliazione, non soltanto nella grafica – che pur è cosa non soltanto formale nella fattura di un giornale – ma negli speciali (pagine o inserti), nelle collaborazioni fisse che puntano a portare il grande mondo dentro gli interessi di lettura del pubblico fidelizzato. Se ne vedrà, per fare soltanto un nome, con gli scritti, sovente a puntate ed a pagine piene, di Riccardo Forte. E se ne vedrà nel corso del tempo, per il rilievo dato ai grandi fatti internazionali – si pensi, per restare ai primissimi anni di direzione, alla crisi di Suez o ai fatti tragici di Ungheria – ed al quadro europeistico che andrà presto a delinearsi, pur se ancora nella dimensione del mercato comune e non ancora della intesa politica o confederale (ad iniziare dalla difesa).
Pare da subito evidente, nei fondi crivelliani così come nelle titolazioni, nei commenti dei quattro o cinque editorialisti in esclusiva a L’Unione o incardinati nei circuiti nazionali di riferimento della testata, come la tensione professionale del giovane direttore sia quella della massima sprovincializzazione del notiziario, nel senso dell’inquadramento delle dinamiche civili, sociali, economiche dell’Isola entro coordinate dalle quali non sarebbe né giusto né possibile prescindere. Conta qui, ed è manifesto, l’esperienza da lui compiuta come notista di esteri al romano Il Momento e come redattore capo a Il Giornale d’Italia, le tappe giornalistiche che, dopo l’esordio a L’Epoca di Leonida Repaci, ne hanno modellato il mestiere.
Dalla patria del repubblicano Nazario Sauro alla Roma del sacrificio di Mameli. Mi piace rivederlo così, Fabio. Una volta Vittorino Fiori – dovevano essere gli ultimi anni ’70 o i primissimi ’80 – se ne uscì, rispondendo ad una certa mia osservazione, con queste parole riferite all’allora ex direttore non ancora rientrato alla guida del giornale: «E’ naturale! lui è repubblicano». Ora io non la faccio così facile, né poi mi sembrerebbe corretto fare di Crivelli un militante, ancorché senza tessera, di un partito o di una corrente di pensiero definita ed organica com’è stata ed è, storicamente, quella repubblicana pur nelle sue varie versioni dottrinarie (mazziniana comunalista, cattaneana federalista, ferrariana socialista, ecc.). Vi sono state stagioni in cui la vicinanza al liberalismo coccortiano era nelle cose, e altre che per il tramite di Giuseppe Tocco riportavano al PSI del centro-sinistra moroteo o postmoroteo. Il voto socialista, nel passaggio fra anni ’60 e anni ’70, era stato dichiarato dal direttore. E neppure allora lo si sarebbe potuto scambiare per un militante né d’area né, tanto meno, d’apparato.
Certo non mancano neppure – ripenso a taluni fondi e anche alle note di “Agenda aperta” – le parole di stima per un padre della patria come Ugo La Malfa e la sua testimonianza politica: stima del suo rigore patriottico espresso nel servizio alle istituzioni della Repubblica e nella risolutezza delle opzioni di politica economica secondo cardini programmatori e meridionalistici. Le ho rilette di recente alcune delle parole battute su quei fogli tutti corretti a mano, da mandare subito a stampa, prima accompagnando – secondo le cronache – l’infruttuoso incarico di formare il governo, poi accompagnando lui stesso, lo statista (statista vero!), nell’estremo passo al solenne funerale celebrato in piazza Montecitorio dal presidente Pertini e dal senatore Valiani: «Personaggio che non ha uguali e che non lascia eredi sulla sempre più grigia scena politica italiana», «Dov’è l’Italia che La Malfa e tanti laici come lui hanno sognato? Chi, nella folla dei politici che ora è qui, al suo funerale, ha capito la lezione di rigore morale, di intransigenza civile, di fermezza nella ragione che La Malfa per tutta la vita ha predicato contro le ironie, i massimalismi beceri, le furberie accomodanti, lo scetticismo utilitario, il cinismo qualunquistico? Perché così poco ha influito nell’indole di questa classe politica allo sbando la lezione di coerenza, di severità dottrinale, di religiosità laica, che per un trentennio Ugo La Malfa, leader senza seguito, ha incessantemente svolto da un pulpito che sembrava ergersi nel deserto»… (così il 25 febbraio, il 1° aprile 1979).
Ciò non di meno non l’ho mai preso, Fabio, per un mio compagno d’appartenenza. No, ed anzi ho sempre goduto della sua indipendenza che però, ben lo ammetto ed affermo, non ha mai potuto dirsi neutralità. Davanti ai grandi scenari ideali egli si è sempre schierato ed ha schierato il suo giornale. (E’ ancora nelle colonne di “Agenda aperta” – questa volta del 4 marzo – il riconoscimento della statura morale di una classe politica ormai residuale, destinata ad esaurirsi presto, per legge di natura, lasciando il campo a quelli che, nell’ultimo ventennio, non solo ci hanno malgovernato, ma hanno anche intristito le istituzioni, fra i belati e i battimano acritici dei conformisti: «E’ un confronto dal quale non solo Pertini e La Malfa, ma ancora i Nenni, gli Amendola, i Lombardi, i Terracini e perfino i Saragat e i De Martino escono nettamente in vantaggio»).
A me, riecheggiando nella memoria il motivo di qualche piana e amichevole, fraterna conversazione, piace collocarlo, Crivelli, nella banda democratica e nazionale, purificata dalle distorsioni retoriche e patriottarde imposte dal regime negli anni cruciali della sua formazione scolastica. Proprio per l’amore che serbava alle radici dei Crivicich e dei Plascan – e questi ultimi riportavano dritto dritto nientemeno che a un Guglielmo Oberdank, l’impiccato ventiquattrenne di Cecco Beppe – e anche per quella educazione romana di cui conservava il tratto sobrio e austero del fare familiare (nella casa della piccola borghesia immigrata), non quello estroverso e chiacchierone di fuori. Sì, di Fabio Maria Crivelli porto questa testimonianza: del sentimento forte ed alimentato negli anni per i valori della patria, al modo forse di un Gobetti – insomma di un Risorgimento senza eroi, con una preferenza per i politici-architetti più che per i politici-filosofi, per i pragmatici più che per gli ideologi, per un Cattaneo più che per un Mazzini insomma –, e insieme dello sguardo critico verso uno Stato accentratore non rispettoso delle fragilità e insieme dei diritti del meridione e delle isole: «per l’unità vera della patria», come avrebbe detto, come aveva detto cento volte in Parlamento Titino Melis. Ancor più, con ciò, mostrandosi gobettiano, toccato dalle riflessioni critiche dell’intellettuale torinese amico di Gramsci e scopritore tempestivo del primo sardismo, finito vittima innocente della volgare violenza del fascismo.
Tutto è avvenuto, nella carriera di questo giornalista nativo di Capodistria ma fattosi romano ad otto anni e costretto anche a cambiare il suo cognome dalla formula slava ad una italiana, a questo giornalista cresciuto nella capitale compagno d’adolescenza, vicino di casa (nel quartiere Trieste!) ed amico di Vittorio Gassman, a questo giornalista che per quattro anni e più – millesettecento giorni! – ha dovuto campare combattendo in guerra e, a maggior rischio ancora, in una dozzina di campi di lavoro nazisti, fra Polonia e Germania, dove s’è fatto internare ventiduenne, pur di non aderire alla repubblichetta di Mussolini e sparare agli italiani. Tutto s’è accelerato dopo il ritorno a casa nella tarda estate del 1945: per riprendere gli studi e completarli con la laurea in giurisprudenza, per fare finalmente famiglia con la dolce Liliana della sua prima giovinezza, per cercare uno sbocco lavorativo e alleggerire le preoccupazioni di casa e i pesi sul gracile stipendio d’un impiegato d’assicurazioni… Ha recuperato e sviluppato gli amori per la scrittura sorti o suscitati da una pratica di lettura per gli autori dei meridiani e paralleli, degli americani in particolare, al tempo ancora della scuola e della formazione: aveva cominciato a scrivere novelle su La Tribuna, il grande quotidiano della sua città di prima adozione – e a proposito di Sardegna, potrebbe anche dirsi il giornale nato come di riferimento nazionale per Cocco Ortu sr. –, e anche su altre testate cercate nei repertori della stampa necessariamente di regime, al tempo del GUF.
S’è trovato a Cagliari che certamente non era nelle sue previsioni né di breve né forse di lungo periodo (e per difendere la sua conquistata cagliaritanità avrebbe rinunciato un giorno alla direzione de Il Resto del Carlino, il giornale di Carducci dal 1955 e fino al 1968 affidato al liberal-repubblicano Giovanni Spadolini). E’ vero che da redattore capo de Il Giornale d’Italia aveva avuto una conoscenza, più o meno diretta, delle collaborazioni che ad esso arrivavano per nutrire la pagina sarda, che era una pagina con una grande storia alle spalle, rimontando addirittura agli anni ’10 e particolarmente arricchitasi alla vigilia della dittatura: quando ad essa collaborava in pianta stabile una personalità d’oro della democrazia sarda come Michele Saba e dove anche un giovanissimo Attilio Deffenu aveva avuto la sua parte. Quei collaboratori – un nome fra tutti, quello di Nicola Valle – li avrebbe presto volturati in ruolo fisso, Crivelli, alla sua Unione progressivamente risagomata nelle cose e nelle forme, col tempo ampliata nel notiziario provinciale perché quel passaggio alla informazione a tutto campo e a tutto mondo fosse bilanciato da una doverosa considerazione del corrente vissuto sociale delle comunità locali dell’Isola: non soltanto quelle urbane, ma anche minori rurali e marginali alle logiche dello sviluppo.
Ancora la Venezia Giulia, ancora la Trieste materna, ancora Capodistria. Il 1954 (26 ottobre) è l’anno di svolta per Trieste, l’anno del suo ritorno all’Italia a seguito dell’accordo di Londra, anche però della cessione definitiva dell’Istria al comunismo di Tito. «Vola, colomba bianca, vola…», aveva profetato Bixio Cherubini già ormai da due anni, confidando nella saggezza della storia, e segnando di amor patrio il festival di Sanremo e la carriera della Pizzi. Crivelli e L’Unione Sarda seguono da presso, e in ottobre con mira quotidiana, lo sviluppo delle trattative e la gioia di tutt’Italia per il ritorno nei confini della sua giurisdizione della città di Guglielmo Oberdank (quell’Oberdank celebrato a Cagliari dalle minoranze repubblicane, ogni anno, dal giorno del martirio fino al compimento della grande guerra: un trentennio e più!). Hanno nel contempo – Crivelli e L’Unione Sarda – parole forti, di fuoco e di dolore, per il rinunciatarismo governativo e politico in generale, a riguardo della sorte della penisola istriana.
Sì, bene per Trieste. Dalla primavera, in particolare, i titoli si fanno più frequenti (ne ho contati almeno novanta), più spesso in prima pagina e perfino in apertura, integrati dal fondo firmato o siglato – come sarà più spesso per un quarto di secolo – f.m.c. “Di nuovo confermata la spartizione del Territorio Libero di Trieste” (ed editoriale “L’asso nella manica”) il 18 maggio, “Continua l’altalena di notizie sulla soluzione del problema giuliano” il 18 luglio, “Soluzione a sorpresa per la questione di Trieste” il 5 agosto, “Da ieri il tricolore sventola su Trieste” il 6 ottobre, “Aerei e navi italiane a Trieste assieme alle truppe” il 24 dello stesso mese, e ancora “Stamane le nostre truppe entrano nella città di S. Giusto” ed “Einaudi e Scelba a Trieste per le manifestazioni del 4 novembre” il 26. Così per citarne qui appena alcuni.
Nel novero meritano di essere richiamati alcuni articoli in particolare. Martedì 26 ottobre, sotto il titolo “Torna l’Italia”, a firmare è il sindaco di Trieste Gianni Bartoli. Con questo distico non anodino, ma anzi di contenuto, chiaramente del direttore: «Quando, diciotto giorni or sono, vennero annunciati i termini dell’accordo di Londra in virtù dei quali Trieste tornava all’Italia e l’Istria passava definitivamente sotto il dominio di Tito, esprimemmo su queste colonne la nostra amarezza per una soluzione che a nostro parere rappresenta il triste bilancio di una lunga e ormai irrimediabile serie di errori.
«Oggi l’accordo di Londra va in attuazione; le truppe italiane tornano nella città di San Giusto, dopo undici anni. Nella solennità di questa ora – in cui gioia e dolore sono strettamente mescolati – ci pare che nessuno possa commentare l’evento meglio del Sindaco della città giuliana cara al cuore di tutti gli italiani. Siamo perciò lieti di pubblicare questo articolo che Gianni Bartoli ha scritto appositamente per il nostro Giornale».
Merita, in tale contesto, richiamare l’editoriale a firma piena Fabio Maria Crivelli di mercoledì 6 ottobre: “Con il cuore a Capodistria” (e varrà appena ricordarne anche un altro, con Capodistria nel titolo: “In barca da Capodistria e da Pirano incontro alla nave con bandiera italiana”, sulla terza pagina del 19 giugno ancora del 1954, a firma di Gustavo Taglia. Altri ne seguiranno, di articoli, negli anni avvenire oppure su L’Informatore, certamente giustificati dalla cronaca, ma è da pensare non meno curati dal sentimento ). Intuibili i giudizi, dopo le analisi. Eccoli:
«Sia permesso a un italiano nato a Capodistria di non associarsi alle manifestazioni di giubilo con le quali il patrio Governo ha voluto festeggiare il definitivo distacco di gran parte della Venezia Giulia.
«Ma in quest’ora in cui Trieste cancella in un legittimo respiro di gioia otto anni di amara attesa, in quest’ora in cui un’Italia dimentica fa garrire al vento d’autunno tutte le sue bandiere, il nostro cuore torna all’Istria natia per un addio senza speranze, per un triste congedo ideale da una terra sulla quale da oggi cala, col permesso di tutto il mondo civile e dell’Italia democratica, la mano di un nuovo padrone.
«L’ora è troppo amara per discutere in termini strettamente politici l’accordo firmato ieri a Londra. C’è un proverbio molto usato dalla nostra gente che dice “tutti i nodi vengono al pettine”.
«Così è avvenuto per la Venezia Giulia. La firma che è stata ieri apposta ad un trattato che ci toglie, sotto un’ipocrita insegna di provvisorietà, Capodistria, Pirano, Parenzo, Fiume, Pola, e venti altre italianissime città, non è che il naturale epilogo di una lunga serie d’errori. Il tragico bilancio di otto anni di insipienza, di imprevidenza, di false illusioni, di calcoli sbagliati, di manovrette elettorali, di bassa astuzia, di dolce far niente. La storia e la politica non si fanno con i sentimenti, d’accordo. Ma è un fatto che tutte le carte che abbiamo avuto in mano nella lunga partita giocata con Belgrado sono state da noi buttate via nel più insipiente dei modi. Avevamo dalla nostra parte i diritti della storia e della geografia: in che modo abbiamo saputo prospettarli? Di fronte ad una propaganda jugoslava che spendeva miliardi per imbottire i crani degli inglesi e degli americani con le più stupefacenti menzogne, che cosa abbiamo saputo opporre? Basta, per rispondere, ricordare quei turisti anglosassoni che girando per Trieste e vedendo insegne totalmente italiane sui negozi chiedevano: “In che anno il fascismo ha italianizzato tutti i nomi?”.
«Avevamo dalla nostra il diritto della lingua; dalla costa fino a Lubiana si è sempre, da secoli, parlato veneto, cioè italiano. Ma che abbiamo fatto per dimostrarlo? Solo una volta si è osato chiedere timidamente un referendum: ma al pronto “no” di Tito ci siamo precipitosamente ritirati; ed era la nostra carta migliore, quella alla quale non avremmo dovuto rinunciare mai.
«Abbiamo avuto, specie negli ultimi anni, delle ottime chances politiche: di fronte alle pressioni cediste potevamo opporre i nostri sacrosanti diritti. Ci siamo invece sempre affrettati a dir di sì a Washington e a Londra accontentandoci delle elettoralistiche dichiarazioni alleate in cui Trieste era la grande, la massima concessione. Fin dal primo momento, in partenza, abbiamo rinunciato all’Istria, senza avere mai il coraggio di parlar della Venezia Giulia come di un tutto unico, come di un’unica grande regione italiana di fatto e di diritto.
«In quest’ora suona come una beffa la firma di quest’accordo che segue di sole quarantotto ore la fine di una conferenza in cui si sono gettate le basi di una nuova unità europea ricollocando la Germania sul piedistallo delle protagoniste. Nello stesso momento, cioè, la Germania viene proclamata pedina insostituibile per opporsi alla minaccia sovietica e terre italianissime vengono assegnate a Tito per punire noi di aver perso la guerra.
«Oh carta di San Francisco, che misera fine per i tuoi brandelli se essi servono ad accendere i falò per le milizie di Tito che bivaccano sull’Adriatico!
«Ma l’Italia fa garrire le sue bandiere, l’Italia manda i suoi bersaglieri credendo di poter riaccendere la stanca fiamma di trentacinque anni fa: dimenticando che allora Trieste significò anche Pola, anche Parenzo, anche Pisino, anche Isola, anche Capodistria. Oggi Trieste ritorna, ma è una città che dovrà vivere di carità governative, una città che dovrà vivere del pane altrui, come una grande mutilata.
«Ma tutto è buono in una Nazione dove per alcuni anni questo sarà un motivo di speculazione politica e per altri un pretesto per un giorno di vacanza. Per questo, ci sia permesso in questo giorno di fanfare e di discorsi dire sottovoce la nostra amarezza. Lasciate che il nostro cuore torni per un momento alla piazzetta veneziana di Capodistria dove siamo nati a pochi passi dalla casa di Nazario Sauro. Forse anche là ci sono ancora italiani, a guardare con occhi che non sanno più piangere altre bandiere svettanti nella fredda bora d’ottobre. Le bandiere con falce e martello del maresciallo Tito».
Mi sembra doverosa, a questo punto, una considerazione personale. Perché il sentimento (di cui, in tempi di barbarie valoriali, posso anche vantarmi) mi porta ad associare il dolore patriottico di Fabio Maria Crivelli fatto orfano della sua terra a quello cento volte gridato, quasi un secolo avanti, dal nostro Garibaldi per la perdita di Nizza, secondo il calcolo di Cavour che, s’era detto, analoga sorte ipotizzava per la Sardegna allora infatti combattivamente difesa da Mazzini e dai suoi, con Asproni fra i primi. La realpolitik contro il diritto nazionale, le logiche diplomatiche contro l’intangibile umano, il più personale dei vincoli di vita.
Potrebbe dirsi che la sciagura fascista, con quel che ne è venuto per l’asse con i burgundi e la guerra perduta, ed il protagonismo internazionale conquistato dopo il conflitto dalla dittatura comunista del maresciallo Tito hanno come riportato la storia italiana alle fatiche e alle contraddizioni del Risorgimento, alle partite politico-militari contro l’autocrazia austriaca e dopo al patto della Triplice alleanza, alle feroci quinte colonne dei regni e dei ducati sparsi nella penisola ed alle spicce e sanguinarie pacificazioni imposte dai reparti o da certa soldataglia pur in camicia rossa.
Sembra storia antichissima questa dell’Ottocento, e antica anche quella – pur a noi assai più vicina – della perdita subita e non negoziata dell’Istria. I trattati europei, dopo la felice caduta del comunismo e dopo anche le rovine delle tragiche guerre etnico-religiose della ex Jugoslavia post-titina, garantiscono oggi un quadro di amicizia fra governi e fra popolazioni: ma la buona novità non può risarcire la perdita che non è stata soltanto materiale ma morale, identitaria e culturale. Meriterebbero una lettura i bellissimi articoli dedicati da Fabio Maria Crivelli alle città della sua Istria rivisitate molti decenni dopo quella indicibile perdita. Eccone un richiamo almeno alle date di pubblicazione: “Sapore di nostalgia. Ricordando con rabbia Capodistria, piccola patria perduta” (3 dicembre 1985), “Di nuovo a casa. Nell’Istria che non ci appartiene più c’è ancora chi parla italiano” (5 dicembre 1985), “Fulvio Tomizza. L’istriano che parla europeo. Per capire le vicende di una terra tormentata sulla quale ha infierito la storia” (11 dicembre 1985), “Vegliani e Morovich, scrittori senza patria tra sogni e melanconie” (30 novembre 1988)…
Di più. In “Agenda aperta” – la rubrica domenicale che Crivelli aveva ottenuto di curare, nella terza pagina de L’Unione Sarda, a far data dalla prima settimana di pensionamento, nel gennaio 1977 –, sono relativamente frequenti, e sono comunque suggestive le rievocazioni della terra della prima infanzia, quella dei primi otto anni di vita e della prima socializzazione, quella dei confini in cui entravano anche, pur attraverso strade diverse, i genitori: Joseph-Bepi, nato a Budapest ma figlio di croato di Buje, e Maria-Mery, triestina di famiglia ormai trapiantata a Capodistria…
La Capodistria «flagellata dalla bora», la «vecchia casa» riscaldata «da un’asmatica stufa a carbone che forse contribuiva più alla crescita dei geloni che ad un efficace riscaldamento». I ricordi sono commossi: «Dalle finestre penetravano assieme agli spifferi i bagliori della neve illuminata dalla lune e il mondo aveva qualcosa di magico, di irreale, di indimenticabile». Così il 7 gennaio 1979, in “Agenda aperta”, il giornalista-scrittore richiama quadri teneri di memoria domestica .
Una visita compiuta nel giugno 1963 – cioè 34 anni dopo l’abbandono della città divenuta ormai slovena (Koper) – ha innescato, risvegliando immagini e ricordi sedimentati «in quella parte del nostro essere in cui chiudiamo i nostri sentimenti più nascosti» (e collegati «ai momenti fondamentali dell’esistenza: la nascita, i primi affetti, la scoperta del mondo attraverso gli occhi dell’infanzia») , le emozioni più vivide: «Nelle vie vecchie di Capodistria, nelle sue piazzette di stile veneziano, nel vialone delimitato da tigli e platani che dal Belvedere conduce al porto, in ogni angolo rimasto intatto come a sfidare i timidi tentativi di rinnovamento dei suoi nuovi abitatori, ritrovavo figure, suoni, odori che in qualche modo mi appartenevano: era come tornare alla culla, riannodare radici che si credevano estirpate, riaccostarsi a quell’unico angolo dell’immenso mondo in cui hai avuto solo momenti felici. Tutto attorno a me sembrava aver retto all’incalzare del tempo: perfino la casa in cui sono nato, all’inizio di via del Ginnasio, nella sua struttura ottocentesca stava ancora in piedi; le finestre con i doppi vetri continuavano guardare il fronteggiante palazzetto dei marchesi Gravisi oggi utilizzato come conservatorio: e infatti sulla via stretta, piena di ombra, continuavano a piovere le note di un pianoforte, un allievo ignaro accompagnava quel mio pellegrinaggio sentimentale con un notturno di Chopin. Varcato il portoncino della vecchia casa salivo in silenzio le scale umide in cui l’odore della muffa era ampiamente soverchiato da quello dell’orina di interminabili generazioni di gatti; col respiro corto del ladro che teme di essere sorpreso sostavo davanti alla porta chiusa del secondo piano: dietro quella porta ero nato, un mattina di gennaio di tanti, tanti anni fa, qui avevo mosso i primi incerti passi, atteso l’arrivo di San Nicolò con i suoi doni, visto il primo albero di Natale, scritto sui quaderni di prima le letterine dell’alfabeto, poi le sillabe, le parole, guardando nel cortiletto il cadere dei primi fiocchi di neve, qui ho fatto i miei primi sogni, ho letto i miei primi libri, ho ascoltato le fiabe che mia nonna raccontava attorno al fuoco del caminetto».
Scoraggiato dalle «voci straniere» udite oltre la porta, aveva lasciato: «Silenzioso, furtivo, ero risceso all’androne, poi sulla strada, mi accontentavo di guardare le finestre, sbarrate come le avevo viste l’ultima volta, partendo, in quel mattino di febbraio del 1929, nel pieno di un terribile inverno, verso quella Roma che ai miei occhi infantili appariva davvero all’altro capo del mondo.
«E poi ancora, lentamente muovendomi per altre strade, sulla Piazza del Brolo, alla Porta della Muta, nella caletta dei pescatori, tutte le cose intorno mi sembravano straordinariamente immutate, simili alla fotografia che per tanto tempo la memoria aveva trattenuto. E perfino il caffè della Loggia, accanto al Duomo, sembrava attendere, immutato, i suoi antichi frequentatori, “i siori” che ne erano soci fissi per gran parte della giornata. Ma quando mi ero seduto, unico cliente, l’illusione di nuovo era svanita: il cameriere croato dai lunghi baffi sbattendomi davanti la bibita chiesta in italiano mi aveva ricordato con un’occhiata in tralice che qui la lingua dei vecchi “occupatori” non è molto gradita. E così, guardando la piazzetta tanto simile ad un campiello veneziano, avevo potuto cogliere nella sua intera prospettiva il doloroso dualismo di questo luogo: la distanza inesorabile fra le cose (le pietre, i monumenti, le abitazioni, gli alberi) e la gente: immutate le prime, del tutto nuove, straniere, venute da altre regioni le persone, uomini, donne, vecchi che non pronunciano una parola d’italiano, che della storia di questa città conoscono quel poco che è stato loro detto dalla propaganda ufficiale quando li hanno portati qui dalle zone interne, dalla Serbia, dalla Bosnia, dal Montenegro»…
Nella rubrica del 14 agosto 1983, concludendo la cronaca di questo suo personale pellegrinaggio, scrive: «Fra pochi mesi saranno trent’anni da quel 1954 che ha visto l’assegnazione definitiva dell’Istria alla Jugoslavia. Settecentomila giuliani hanno pagato con infiniti drammi il rispetto d’un trattato di pace che essi continuano a considerare iniquo. Per me il ricordo di Capodistria, come questo che è scattato in treno sulla scia d’una parola, è solo la malinconica ricerca d’una infanzia che si immedesima con la perdita d’una città: la mia famiglia partendo per Roma nel ’29 ha trapiantato altrove le sue radici, non ha vissuto che da lontano, con sofferenza puramente morale, il passaggio della nostra vecchia terra al dominio di uno Stato straniero. Ed io, a mia volta, ho più tardi messo le radici in un’isola che è diventata la mia nuova piccola patria. Ciò non toglie che di tanto in tanto mi torni alla mente una frase che ho letto nella cappelletta di Semedella – in quel mio viaggio di vent’anni fa – incisa da un ignoto capodistriano il giorno della partenza, nel 1945, verso l’esilio: “Addio Capodistria, ti seppelliamo per sempre nel nostro cuore”».
In treno aveva udito un giovane triestino parlare delle sue vacanze istriane e citare anche Koper. «D’istinto mi ritrovo sulle labbra la correzione, sto per dire ad alta voce “ma che Koper, per noi italiani è Capodistria”, poi mi trattengo. Probabilmente lo sa anche lui, ma il nome slavo gli è rimasto in mente per averlo letto così sui depliant e sulle insegne, e del resto che differenza fa?”».
Alcune di queste pagine di memoria istriana – che è come dire dell’infanzia – rimbalzano felicemente in quelle più organiche di “anni rubati”, il bel libro di letteratura memorialistica che Crivelli ci ha lasciato. E v’è anche, si può dire, più che soltanto la traccia di un mondo morale e sentimentale che accarezzerà gli anni della vecchiaia domestica di Fabio, nelle pagine di un romanzo purtroppo incompiuto, ma non a tal punto da non meritare una stampa (sostenuta certamente da note di commento ed integrazione). Si tratta di “Il Vaporetto per Capodistria” con un incipit che dà il senso dell’avventura: «Stanotte ho nuovamente sognato di tornare a Capodistria»…
Così è, ma con particolarità tutte sue, anche il rimpianto agrodolce di Roma, sì la Roma scettica e frizzosa, trilussiana della seconda infanzia, non indifferente però alle sue glorie d’arte, pensiero e religione: la Roma genericamente popolare che sa delle grandi cose (dei classici latini, del papa e anche però di Garibaldi e Ciceruacchio), ora scaduta – l’articolo che scorro è datato 13 giugno 1988 e s’intitola “Com’è malinconica ‘Roma capoccia’ che scivola nel razzismo” – nell’aggressiva e greve intolleranza dei cattivi provinciali. Confida come gli abbia «fatto bene al cuore», perché in controtendenza rispetto alla fanatica insofferenza in espansione, l’immagine di una certa iniziativa «decisa ed organizzata dalla federazione giovanile del PCI» a Villa Borghese: «gioiose sequenze di bambini negri mescolati a coetanei bianchi in spensierati giochi sui prati sotto lo sguardo compiaciuto di folle di genitori sorridenti, i canti di fratellanza sotto il palco adorno di bandiere e cartelli privi di retorica, il sentimento reale di un’amicizia spontanea»… Un ritorno, pur segnato anche da rischi da non sottovalutare, alla dimensione di caput mundi, italiana e insieme internazionale per vocazione. Verrebbe proprio da dire, ripensando all’amato Risorgimento: città-patria anche degli stranieri d’ogni provenienza, che non sono né i tedeschi del 1943-44, né gli austro-ungarici imperiali di centosessanta anni fa, e neppure i francesi di Napoleone III che a Roma erano venuti per abbattere la repubblica e mandare a morte Goffredo Mameli , il ventunenne poeta mazziniano che nelle vene portava sangue cagliaritano…
Roma dopo Capodistria e prima di Cagliari, la maggior tappa – Cagliari e la Sardegna – di una vita lunga e importante, una vita buona spesa fra non poche sofferenze familiari. «Riprendo a raccontare di me mentre Danilo mi ascolta con attenzione, rievoco la mia lunga e all’inizio difficile scoperta di quella immensa città che era allora Roma per me, il mio graduale inserimento, gli anni del ginnasio, poi del liceo fino alla maturità conseguita nel 1939 quando ormai nella capitale ero completamente inserito tanto da perdere ogni accento del natio dialetto istriano e assorbire l’inflessione del romanesco che continuo a portarmi addosso…». Un passo di “Il Vaporetto per Capodistria” che ricorda come davvero quella nuova inflessione romanesca s’era come pietrificata in Fabio, a nulla bastando in compensazione quella tutta meravigliosamente sarda e cagliaritana dei figli…
Cagliari 1954, una vivida memoria di trent’anni dopo. Scrivendone nell’inserto – bellissimo – allestito il 19 maggio 1983 per ricordare il quarantesimo dei tragici bombardamenti del 1943 – Crivelli evoca la città che, ancora quasi dieci anni dopo, mostrava in uno strano mix i segni dello sconquasso e quelli del risveglio riparatore e modernista. Eccone alcuni passaggi fra i più significativi:
« Della Cagliari distrutta io ho solo una visione indiretta, quella che ho acquisito leggendo magistrali pagine di cronaca di Francesco Alziator, Antonio Ballero e Vittorino Fiori; ma delle ferite aperte dalle bombe ho fatto a tempo a scorgere le ultime tracce quando sono giunto per la prima volta in Sardegna nel dicembre del 1953.
«… la memoria fissa quel primo incontro nell’immagine di una mattinata d’inverno rallegrata da un tiepido sole e da un cielo reso terso dal soffio di un leggero maestrale. Sullo sfondo via Roma vista dal mare col contorno dei colli che inquadrano tutta la baia; guardando in alto l’impressione di una città costruita su un monte “metà roccia e metà case di roccia”, proprio come quella “Gerusalemme della Sardegna” descritta nel libro di Vittorini ch’era il mio primo vademecum.
«Poi, dopo lo sbarco, la scoperta dei contrasti che in quell’anno e per i molti a seguire avrebbero contrassegnato ai miei occhi la città che andavo scoprendo: una sorta di perpetuo conflitto fra il vecchio e il nuovo, fra residui di rovine e cantieri frettolosamente allestiti, angoli popolati da fantasmi e strade modernissime, mucchi di macerie che nessuno si preoccupava di rimuovere e palazzi cresciuti con rapidità incredibile. Nel giro di un chilometro passavi dal centro affollato allo spiazzo verde di campagna; da una strada perfettamente asfaltata al viottolo malamente disselciato; dalla viuzza stretta che aveva l’odore dei secoli all’arteria illuminata al neon e gremita di auto.
«Nel 1954, il primo anno della mia residenza a Cagliari, la città aveva ancora addosso le piaghe aperte dalle bombe di undici anni prima ma dava l’impressione di essere troppo occupata a costruire il nuovo per avere la voglia e il tempo per curarle e liberarsene. Lasciava che cicatrizzassero da sole, e guardava oltre, verso i nuovi quartieri che sorgevano a ritmi febbrili, tutta tesa ad espandersi più che a risanarsi. In pieno centro cumuli di macerie restavano fra le nuove costruzioni come se si esitasse a liberarsi di memorie tanto dolorose; percorrendo di sera, con l’illuminazione ancora scarsa, certe zone fra via Garibaldi e via Sonnino sembrava di essere in un luogo remoto, abbandonato, destinato a restare così per sempre. In realtà era solo un tempo d’attesa: l’edilizia che per i primi anni aveva trovato più facile e più economico espandersi verso la periferia, presto sarebbe ripiegata sull’interno e, sempre frettolosamente, avrebbe rimosso le macerie unendo in un unico, e non sempre felice impasto, ciò che rimaneva della vecchia Cagliari con i contrassegni di una città pretenziosamente moderna.
«Cagliari, insomma, risorgeva ma sotto le spinte che chiaramente mancavano di coordinazione e di piani razionali: la gente aveva bisogno di case e l’iniziativa privata copriva il vuoto lasciato dalla burocrazia troppo lenta. Nel 1954 e ancora dopo l’immagine prevalente della città era quella di un grande, disordinato, disseminato cantiere. Dal bozzolo pieno di crepe usciva un nuovo agglomerato cittadino: capi-mastri improvvisatisi imprenditori allargavano senza soste il perimetro urbano senza curarsi troppo della mancanza dei servizi. Così nelle nuove abitazioni continuava a scarseggiare l’acqua, la condotta fognaria diventava sempre più insufficiente, gran parte della città nuova mancava di illuminazione pubblica. Il progetto per la diga del Flumendosa era ancora alla fase iniziale: presto Cagliari avrebbe riscoperto il problema della sete. Ma si andava avanti: l’atmosfera del cantiere contagiava tutti, e in definitiva le note positive superavano quelle negative se Guido Piovene, giungendo in città nel 1956 per scrivere il capitolo sardo del suo “Viaggio in Italia”, dedicava una pagina, piena di ammirativa sorpresa per la vitalità dei suoi abitanti, a questa Cagliari miracolosamente risorta dalle distruzioni belliche.
«… A ricordare oggi mi pare di aver trascorso i miei primi due anni cagliaritani come in un piccolo cantiere dentro un cantiere più grande. Al mio arrivo la palazzina sul Terrapieno che oggi ospita “L’Unione Sarda” era appena agli inizi della costruzione. Gli uffici e la tipografia del giornale erano tutti raccolti al pianterreno, di fianco alle fondamenta del nuovo edificio; si lavorava tutti, giornalisti, impiegati, tipografi in due immensi androni, ex magazzini, dove una diecina di tavoli si allineavano fra le cataste delle bobine che facevano anche da tramezzi fra un reparto e l’altro. Le ventiquattro ore della giornata erano equamente ripartite fra chi fabbricava il giornale e chi costruiva la sede: di giorno lavoravano i muratori, gli idraulici, i tecnici che preparavano la piattaforma per la nuova rotativa in attivo; di sera e di notte i giornalisti che facevano il giornale e lo stampavano su una ansimante rotativa datata 1912.
«In quel magazzino che solo le cataste cartacee separavano dal freddo dell’inverno e dalla calura della estate, “L’Unione” nasceva ogni notte nell’affannoso ritmo dettato dalle mille difficoltà della situazione: le scarse apparecchiature di comunicazione, l’insufficiente numero di linotypes, i frequenti guasti dell’antiquata macchina stampatrice, erano gli ostacoli che si frapponevano alla nostra baldanzosa volontà di rinnovare e migliorare di continuo la vecchia testata. Aspettando con ansia i nuovi mezzi superavamo la emergenza con un entusiasmo che cementava ogni rapporto con i vincoli dell’amicizia fraterna.
«Ci sembrava, tutto sommato, che i muratori di giorno e noi nel nostro lavoro notturno fossimo impegnati in una comune impresa: quella di fabbricare un nuovo giornale in cui si riversava e si rifletteva l’ansia di rinascita di un’intera città.
«… Tutta la vita politica e sociale di quell’epoca era dominata, a Cagliari, da impulsi in cui l’ansia del fare aveva il sopravvento su ogni altra motivazione magari più razionale. Ma la Cagliari di oggi è nata così, forse assai diversa rispetto ai sogni di chi l’avrebbe voluta ricostruire con altri criteri, con più ordine, con maggiore rispetto di certi suoi caratteri storici ed estetici; ma per chi ricorda l’aspetto di cratere lunare che gran parte della città presentava nel maggio del 1943 la Cagliari di oggi è sempre un piccolo e forse insperato miracolo».
Mi sembrerebbe giusto chiosare questa splendida memoria sulla città “lunare” del 1954, ancora ferita per la pioggia d’acciaio – maledetta e… benedetta insieme! (ma sempre più maledetta che benedetta) –, con un’altra pagina dello stesso Crivelli evocatrice della maggior tragedia e delle sue conseguenze protratte nel tempo, perché in essa è meglio documentato il rapporto con il capocronista Antonio Ballero, per un mese intero – fra la cessazione dal servizio di Giulio Spetia il 30 novembre 1953 e l’inizio formale della nuova direzione – responsabile del giornale. Dico: con il nobiluomo Ballero assunto come autentico Virgilio (in parallelo ad Alziator) del nuovo “capo” destinato a farsi, per il resto della sua vita, tutto cagliaritano.
Si tratta di una pagina uscita il 21 febbraio 1982 su L’Unione Sarda e riportata anche in un bel libro agenda-e-album pubblicato dal Rotary Club (“Cagliari: una città che non volle morire”, Cagliari, 1993). Vale questa testimonianza anche per la sua finezza letteraria, di più: per la scelta misurata e giustificata di ogni parola che riporta poi ad altro, e cioè alla italianità sardizzata dell’autore…
«A quei miei primi giorni in una città che risorgeva lentamente e disordinatamente dalle macerie è indissolubilmente legato il ricordo di Antonio Ballero. Con lui, il fedele cronista, l’insostituibile testimone, il malinconico narratore di una Cagliari perduta, ho compiuto quei miei lontani pellegrinaggi in una città che a poco a poco, grazie a lui, mi svelava i suoi segreti, i suoi bizzarri umori, le sue antiche storie. “Don” Ballero non aveva ancora scritto le sue meravigliose pagine sulla città devastata dalle bombe, sulla vita da cavernicoli dei sopravissuti, sull’esodo disperato da una Cagliari che sembrava morta e invece conservava, nelle sue viscere segrete, l’invincibile anelito alla resurrezione: quelle pagine bellissime che per ora sopravvivono solo nelle annate ingiallite de “L’Unione Sarda” ma che dovranno essere raccolte in un libro se non si vuole privare i nostri figli, quelli che verranno dopo di noi, di una testimonianza fondamentale per la drammatica storia della nostra piccola patria.
«Allora, in quel nostro girovagare fra quartieri a metà in ricostruzione e a metà ancora in rovina, Antonio Ballero quei racconti li anticipava a me, col suo discorrere asciutto, quasi brusco, il distacco ostentato di chi vuol nascondere un amore e una pena che bruciano il cuore. Anomalo e nello stesso tempo perfetto rappresentante di quella nobiltà di Castello in cui si raccoglie tanta parte di storia cagliaritana, egli ricostruiva davanti ai miei occhi, come se rimettesse insieme pietra su pietra, mattone su mattone ogni angolo della città che era scomparsa sotto le bombe. Dal suo racconto era facile per me scoprire una città mai conosciuta: la Cagliari piccola e deliziosa con i suoi bastioni, i suoi teatri, i suoi caffè, la sua vita estiva alla Plaia e al Poetto, le sagre di primavera, i festosi carnevali, gli sciroccosi autunni, gli inverni tiepidi, le passeggiate sul lungomare, le burle, gli amori segreti: tutta un’esistenza regolata da placidi ritmi, da convenzioni assurde e bonarie, da ribellioni stemperate nell’ironia, fino alla tragedia della guerra che prima aveva spento le luci cittadine e poi portato, nel giro di due giornate fatali, la morte e la distruzione.
«Questa riesumazione di una città che faticosamente riprendeva a vivere dopo essere stata dichiarata morta “Don” Ballero la andava compiendo, allora, per me solo, con l’affettuosa e un po’ ironica condiscendenza del vecchio “casteddaio” verso il continentale venuto, chissà perché, a dirigere il giornale cittadino; mi sembra – ora che sono passati tanti anni – di rivederlo mentre continua il suo racconto, trotterellandomi a fianco con le sue magrissime gambe, nel girovagare per le vie, o facendo sosta al Caffè Genovese, con l’immancabile sigaretta incollata al labbro. Gli chiedevo, gli chiesi per anni, di scrivere per il giornale quei suoi ricordi, quelle sue descrizioni di una città di cui conosceva ogni palpito, presente e passato, mi rispondeva che la cronaca della piccola realtà quotidiana, la compilazione dei suoi “Terrapieni” già lo annoiava abbastanza. Solo molto più tardi, quando andato in pensione si trasferì – controcuore io credo – a Venezia, accettò il mio rinnovato invito. E scrisse le bellissime pagine che ho detto… ».
Ce n’è, ad anticipare tutti, almeno un altro ancora: un altro di articolo di memoria. Questo datato 14 dicembre 1979 – poco dopo l’uscita dalla ruotine professionale, per l’intervenuta e inopinata (forzata e gloriosa) andata in quiescenza alla fine del 1976. E’ impaginato nello speciale per il 90° di vita del giornale, titolo “Le speranze degli Anni ‘50”.
Merita una ripresa anch’esso per quel di più magari di dettagli che viene affacciato, pur se la storia è quella nota e partecipata e, appunto, più tardi estesamente fissata sulla carta. Magari ad integrazione di quanto ha detto quella o quell’altra volta, Crivelli, in una conferenza al Rotary Club.
Stralcio i passi, al riguardo biografico, più pertinenti: «La memoria di un anziano giornalista è come quella di un computer che per troppi anni ha ingoiato dati, schede, numeri e che ora, messo in disuso, annaspa tra i fili logorati e cerca di dipanare una matassa nella quale si sono imbrogliati brandelli della propria vita e migliaia di titoli di articoli di fotografie, tutto lo sbiadito bagaglio che resta al termine di un viaggio probabilmente illusorio e inutile
«Curiosamente, mentre rievoco questa parte essenziale della mia vita di giornalista, quella trascorsa a “L’Unione Sarda”, mi accorgo che gli anni più chiari nella memoria non sono quelli, pur gratificanti e ricchi d’impegno, del giornale in piena affermazione e in continua espansione, ma quelli del primissimo periodo, di quei mesi del 1954 in cui appena giunto da Roma, facevo il giornale, assieme ai sette redattori che formavano l’intero organico, annidato fra cataste di bobine nel magazzino che una saracinesca di ferro separava dal viale Regina Elena. Siamo rimasti in pochi – ahimè – a ricordare quel periodo. I muratori di giorno lavoravano alla costruzione dei nuovi uffici, gli operai stavano montando una nuova rotativa, noi, al riparo di barricate di carta che facevano assomigliare il locale adibito a redazione a un rifugio antiaereo, preparavamo, notte dopo notte, quel giornale a quattro pagine che una vecchissima rotativa ansimante sfornava alle prime luci dell’alba. La carta era pessima, i caratteri sbiaditi, le notizie ridotte all’osso; ma nel riguardarlo ancora fragrante d’inchiostro noi continuavamo a discuterne con passione per ore, progettavamo la sua trasformazione appena i nuovi macchinari e i maggiori mezzi ce lo avrebbero consentito, ci sentivamo un po’ come dei pionieri lanciati alla conquista di più vasti orizzonti.
«Del resto Cagliari e la Sardegna sembravano, in quei giorni, rispecchiarsi perfettamente in quella nostra fede di transizione scomoda ma così ricca di speranze. La città in vaste zone era ancora sommersa dalle macerie dei bombardamenti; in altre, invece, erano visibili le nuove e sovrabbondanti ricostruzioni, s’incominciava ad intravedere quel tumultuoso sviluppo che fra disordini, errori e speculazioni avrebbe partorito la Cagliari di oggi. La Sardegna continuava a spopolarsi, il primo annuncio del “miracolo economico” italiano chiamava in continente vere masse di emigranti: ma la Regione Autonoma sembrava promettere, a breve scadenza, migliori possibilità di dignità e di vita per chi aveva il coraggio di resistere, di restare. La parola “Rinascita” aveva allora un suono nuovissimo, carico di promesse, nessuno avrebbe immaginato che un giorno si sarebbe dovuto pronunciare la parola solo caricandola di desolata, disperata ironia.
«Come siano finite quelle speranze, come siano state tradite tante attese, come la Sardegna sia passata dalla fase delle grandi illusioni alla crisi drammatica di oggi, è storia del dopo. Sfogliando la collezione de “L’Unione Sarda” dal 1954 in poi, chi ne avrà voglia potrà ricavarne dati essenziali: le denunce, le critiche, gli avvisi di tempesta non mancano. Gli errori, i misfatti, le inadempienze di una classe politica inadeguata al suo compito ma tenacemente attaccata alle leve del potere sono puntigliosamente presenti sulle pagine oggi sbiadite di quella collezione… Credere che un giornale possa influire direttamente sulle sorti del mondo e renderlo migliore sarebbe follia da utopisti: ma trasmettere, attraverso un duro lavoro, la documentazione degli errori e delle cause che hanno portato al male è compito, io credo, di chi fa un giornale. Lasciare tracce e segnali potrà servire al domani: per ricostruire, per capire, se possibile per rimediare. A noi giornalisti si addice soprattutto il monito di Antigone quando grida: “Non sono qui per discutere, ma per dire la verità e poi morire”».
Il panorama giornalistico e la città en marche. L’edicola locale, se n’è accennato sia pure in generale, nel 1954 è affollata: oltre a L’Unione c’è infatti La Nuova Sardegna e ci sono anche altre cinque o sei testate che si dividono la piazza secondo le preferenze politiche o gli interessi territoriali di provenienza dei lettori (i sassaresi non rinunceranno mai a La Nuova Sardegna e i comunisti militanti a l’Unità!)… Gli anni ’50, nonostante la diffusa povertà materiale, vedono nell’Isola un grande dinamismo nel mondo dell’informazione: chiusa la stagione dei settimanali di partito come s’è presentata nel 1945 ed ha resistito alcuni anni, dopo l’esordio dell’Istituto autonomistico la stampa regionale si è data, più che a seguire con stretto criterio di militanza l’organizzazione particolare, ad affiancare, ora a supporto ora criticamente, le politiche concrete elaborate da Consiglio e giunta. Non mancano, in questo riassetto che concentra su Cagliari l’attenzione di analisti e cronisti, gli avvicendamenti perfino rapidi nelle redazioni periferiche dei giornali non cittadini (più spesso il corrispondente o il responsabile della pagina regionale lavora a casa e trasmette i suoi pezzi sulle linee “fisse” degli orari in convenzione fra TETI – che gestisce le linee telefoniche – e singole testate). Restano nelle antologie i nomi dei più duraturi: La Nuova Sardegna ha affidato le corrispondenze da Cagliari all’inizio a Mario Virzì e anche a Mario Mossa Pirisino (destinato poi a passare a L’Unione), quindi ad un giovane pubblicista di grande talento – Enrico Clemente –, tutti ovviamente impegnati a portare la loro speciale diligenza sulla politica ed i dibattiti in Assemblea Regionale, ed a produrre resoconti ricchi e interessanti. Il Corriere dell’Isola – l’altro quotidiano sassarese – non ha spazio a Cagliari, bisogna dire, altro che negli abbonamenti del “palazzo” trattandosi di una testata ritenuta (anche se parzialmente a torto) di puro appoggio ad una corrente politica e alla sua maggior proiezione operativa quale si rivela l’ETFAS impegnata nella riforma agraria (giusto ai primi del 1954 hanno superato i 12mila gli ettari ridistribuiti, per qualcosa come 1.200 lotti). C’è Il Quotidiano Sardo, con redazione in via San Lucifero e direzione clericale in stretta obbedienza dell’arcivescovo, con appena 5mila copie vendute nonostante la diffusa rete parrocchiale fra Cagliari e le diocesi più prossime, da Iglesias ad Ales a Oristano (se ne dirà). Il Giornale d’Italia – e così l’altro romano (e politicamente centrista) Il Tempo segue da presso con Remo Concas – ha la sua pagina regionale, ben conosciuta da Crivelli, all’inizio affidata ed Enrico Baravelli, successivamente (e dopo breve interregno di Carlo M. Caretta) a Gian Paolo Caredda, in servizio all’Ufficio stampa regionale e capace di assicurare sempre un prodotto di livello. C’è anche, a proposito di quotidiani nazionali, l’Unità, della cui pagina regionale sono responsabili in staffetta Aldo Marica e Giuseppe Podda (presto s’affaccerà alle vendite anche Rinascita sarda). Nella evoluzione del panorama pubblicistico lungo il decennio avrà presto spazio anche Il Popolo – poi Il Popolo Sardo – organo democristiano, con affidamento della responsabilità a Mario Angius.
In anni in cui ancora non è partita l’irradiazione televisiva, peraltro all’inizio assolutamente avara di notiziari locali, la stampa nazionale raggiunge il territorio regionale offrendo cronache e inchieste anche in più puntate. Sarà storia di una decina d’anni, poco più. Ogni testata rimodulerà, dalla fine degli anni ’60 o poco dopo la propria foliazione, inglobando, anzi assorbendo, la pagina locale nell’edizione nazionale. L’emeroteca in capo al sistema bibliotecario pubblico favorisce senz’altro un approccio di studio mirato, da cui è possibile trarre elementi di conoscenza e giudizio sul dibattito al tempo in corso sulle materie che terranno banco per lunghi anni ancora (dalla riforma agraria con le assegnazioni agli ex mezzadri alla politica di Rinascita, dall’industrializzazione pesante che muove in parte come alternativa alla crisi delle miniere alle opportunità del turismo costiero ecc., ma nel mezzo ancora e sempre le emergenze della perdurante emigrazione e del banditismo).
Sembra altresì di rilievo, questo studio sulle collezioni ingiallite dei giornali degli anni ’50, per misurare gli indici di lettura e fidelizzazione, come pure gli strumenti – o alcuni degli strumenti – di formazione della opinione regionale e della maturazione elettorale (fra regionali, parlamentari e amministrative nel decennio gli appuntamenti alle urne sono almeno sei).
Molto di tali dinamiche si concentra, evidentemente, nel capoluogo. Qui l’Amministrazione centrista del sindaco Leo (che ha ricevuto il testimone dalla giunta Crespellani – arrivata al suo capolinea nel 1949 in coincidenza con l’avvio della esperienza autonomistica ed il passaggio del sindaco alla presidenza della Regione – ed ha superato l’esame elettorale del 1952) è totalmente presa delle complessità e dalle urgenze dei problemi sociali quotidianamente pressanti. La politica municipale arranca, i fondi di bilancio minimi. Gli equilibri in Consiglio, rispetto alla prima conta dell’ormai remoto 1946, registrano un imbarazzante rinforzo delle ali estreme, pur senza traduzioni proporzionali in termini di seggi: sulla sinistra, a fronte del 22 per cento circa del dato base di PCI e PSI, i consensi sono saliti al 27; idem a destra, dove i qualunquisti del 1946 contati in un quasi 12 per cento si sono moltiplicati, fra monarchici del PNM e nefascisti del MSI, fino a sfondare il 30 per cento, quasi dimezzando i liberali e ridimensionando anche se marginalmente il Biancofiore.
E’ ben vero che il sistema elettorale, ripeto, favorisce smaccatamente la DC, che con meno d’un terzo dei voti riunisce la metà dei cinquanta seggi, duramente penalizzando entrambe le ali dell’ opposizione ma è certo, comunque che, numeri a parte, la statura di diversi consiglieri di minoranza è capace di mettere a rigore gli assessori. Si potrebbe ricordare che le elezioni del 1952 hanno portato in Consiglio uomini come Ludovico Geymonat (dimessosi però a fine 1953) fra i comunisti, Giuseppe Asquer e Carlo Sanna fra i socialisti, e anche, a destra, Mario Aresu e Rodolfo Maran fra i monarchici, Antonio Spanedda e Guido Vascellari fra i missini, per non dire poi – guardando alla maggioranza – Francesco Cocco Ortu e Raffaele Sanna Randaccio fra i liberali, Giuseppe Macciotta fra i socialdemocratici, Ignazio De Magistris, Enrico Fois, Brunello Massazza fra i democristiani…
La città che accoglie Crivelli è quella che egli ha ripetutamente descritto per dimensioni e, soprattutto, contraddizioni nel suo ordito urbanistico e anche nella trama sociale quale l’evento di guerra ha prodotto, accelerando scalate o espandendo, al contrario, bisogno e precarietà soprattutto lavorativa.
Al censimento del 1951 Cagliari ha sfiorato i 140mila abitanti, inclusi i residenti delle frazioni di Elmas, Qurtucciu e Monserrato (non più Selargius, emancipatasi nel 1947). Nel 1954 si superano i 147mila. L’avvio della esperienza autonomistica ha appena avviato un processo di urbanesimo (a vocazione terziaria, specificamente impiegatizia ed a supporto commerciale) che sarà progressivamente marcato nei due decenni a seguire. Quel che si vede è un gran numero di cantieri edili aperti qua e là: nel centro per sanare le ferite o coprire i vuoti prodotti dai bombardamenti (che hanno colpito il 40 per cento del patrimonio immobiliare, pubblico e privato, cittadino), in periferia per allargare le opportunità residenziali. La questione abitativa costituisce la vera emergenza di Cagliari nei primi anni ’50. Il rientro massivo degli sfollati nel gran caos delle macerie e i tentativi anche di spostamento dai paesi dell’interno sono problemi che non danno tregua agli amministratori. Ancora qualche struttura militare è adibita ad alloggio, così soprattutto fra San Bartolomeo e Is Mirrionis; alcuni quartieri di periferia – anche l’Ausonia al Poetto – sono trasformati in centri di residenza popolare, provvisori ma necessari; le grotte di Tuvixeddu e anche di Bonaria continuano ad accogliere i più disperati.
Pur senza ancora un suo piano regolatore – che sarà un lusso degli anni ’60 (e precisamente del 1964) – il Municipio pensa alla città cercando compatibilità e coincidenze fra le risposte dell’immediato e l’impostazione per il futuro. Non sempre si riuscirà a cogliere quel nesso. Ormai le direttrici di sviluppo urbano per sovvenire alla domanda dei ceti poveri – una buona metà dell’intera popolazione – sono individuate: Sant’Avendrace e Is Mirrionis/San Michele a nord, Sant’Elia a sud; anche La Palma – a ridosso dell’industria delle saline – accoglierà ceti operai e, insieme, quelli impiegatizi. Per le classi di mezzo della burocrazia e del commercio si rinforzerà l’area di San Benedetto fino alla Fonsarda, si trasformerà la zona di Su Baroni, fra Monte Urpinu e la via Dante. Più tardi si guarderà, ma per una edilizia di miglior campione, alla cintura attorno al Monte ed anche a Genneruxi, mentre al polo opposto le cooperative degli impiegati svilupperanno Mulinu Becciu e, per le tipologie economico-popolari, crescerà il CEP.
Per intanto si ristrutturano il Villaggio Pescatori e la città-giardino di via Pessina, e così vari altri compendi: l’Istituto San Vincenzo de’ Paoli, il cinema Ariston, l’Auditorium di piazzetta Dettori, l’area della Fiera Campionaria e la caserma della Finanza in viale Diaz, lo stadio Amsicora, la stazione autolinee e quella marittima al porto, ecc. Si perfezionano gli appalti per cinque o sei scuole elementari nella sola cinta urbana, per l’Istituto Nautico – giù di Bonaria –, per le nuove Magistrali a ridosso del palazzo di Giustizia ormai pienamente funzionante. Nel 1954, dal liceo-ginnasio Dettori si staccano le sezioni carboniesi, e l’anno dopo – ultimato il maggior lotto del nuovo casamento di via Cugia – iniziano a trasferirsi, dalla Marina, le prime classi (sicché poi l’antico collegio gesuitico passi al Siotto-Pintor che, a sua volta, lascerà l’arciantico Fatebenefratelli alla media Spano…).
Si mette mano alle infrastrutture civili di base: il sistema idrico e quello fognario, le strade e naturalmente l’illuminazione di accompagno alla viabilità fra centro e periferia, si guarda al rilancio dello scalo portuale e dell’area industriale di Macchiareddu, si riassetta l’intero comparto annonario, con l’allocazione dei mercati civili rionali sostitutivi del magnifico Partenone perduto al Largo, e così dell’ingrosso ortofrutticolo e del mattatoio.
Alcune importanti aree vengono promesse al Comune sia dalla Regione (quasi centomila metri quadrati a Su Siccu, per la costruzione di impianti sportivi) che dall’Amministrazione militare (20mila metri quadrati per strade e servizi). Sul campo il protagonismo è si di impresari piccoli e medi (sovente capimastri promossi di rango dalle circostanze e qualcuno anche dal talento) ma anche degli enti governativi o comunque pubblici: dall’INA-casa all’INCIS, all’ IACP. Pur non coprendo tutte le esigenze – se è vero che l’ufficio del sindaco è ogni giorno affollato di disoccupati e di mogli e madri senza mezzi –, le maestranze edili costituiscono forse l’aggregato lavorativo più cospicuo della città.
Parallelamente allo sviluppo territoriale e alla ricomposizione dei quartieri va diffondendosi l’impianto delle nuove parrocchie urbane, luoghi di socializzazione e non soltanto di culto: da Santa Lucia (nel quartiere di San Benedetto, in ripago della perduta antica e preziosa chiesa della Marina) a San Paolo (affidata ai salesiani, nel raccordo fra San Benedetto e la Fonsarda), da San Carlo Borromeo (nella strada per Pirri) a San Francesco d’Assisi (data ai conventuali, a La Vega), da San Pio X – che ritaglia il suo spazio dalla giurisdizione di Bonaria – a Sant’Elia (nel borgo nuovo delle case minime giusto anch’esso al suo esordio) in faccia al mare, alla SS. Vergine della Salute (all’Ausonia del Poetto, in mano agli immacolatini), dalla Medaglia Miracolosa (in piazza San Michele, curata dai vincenziani) a Sant’Eusebio (ai piedi del colle)… Anche San Domenico, pur non parrocchia, entra nell’elenco, con le sue glorie storiche addirittura tardomedievali e il prestigio di sede culturale e convegnistica (per la sua inaugurazione si scomoda addirittura un cardinale, il segretario del terribile Sant’Officio Alfredo Ottaviani, che tornerà a Cagliari per la benedizione del nuovo seminario arcivescovile nel 1960)..
Storia degli anni successivi, ma complemento delle fatiche ridistributive sul territorio di monsignor Paolo Botto – davvero l’autorità numero uno della città capoluogo per un intero ventennio –, ecco il nuovo ciclo di insediamenti che sempre più e meglio significheranno non soltanto strutture materiali, ma spazi d’accoglienza e sinergia delle comunità di quartiere, in specie delle nuove generazioni in affaccio sociale: si chiameranno Cristo Re (delle suore eucaristiche) e SS. Giorgio e Caterina (pure a Monte Urpinu, in rimpiazzo della chiesa distrutta dai bombardamenti a sa Costa), Madonna del Carmine (rialzata anch’essa dalle macerie della guerra in viale Trieste), Santo Nome di Maria (alla Palma), Santa Maria del Suffragio (al CEP), Nostra Signora di Fatima (a Giorgino)… Colpisce che la metà delle nuove chiese siano intitolate alla Vergine: conseguenza forse della devozione mariana degli anni ’50, rafforzata dal centenario della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione nel 1954 – ecco l’anno che ritorna – o dall’eco dell’altra proclamazione, più vicina nel tempo (1950), della Vergine assunta in cielo, come nel titolo della primaziale cagliaritana.
La Chiesa, con le sue rappresentazioni pubbliche – è tempo di processioni stradali come per il Corpus Domini, è tempo di raduni come per l’Immacolata pari a dieci comizi, in piazza del Carmine – detta molto dell’ordinaria agenda dei cagliaritani. Cagliari negli anni ’50 è insieme città e paese, città nel respiro dell’accoglienza degli immigrati dai comuni dell’interno provinciale e regionale così come nell’allestimento dei servizi per i grandi numeri, paese o, meglio, paesi perché ogni rione dentro ciascun quartiere tanto più del centro antico vive e rivitalizza ogni anno le sue tradizioni patronali, ricucendo così – per miracolo di volontà o magari di Provvidenza – la storia d’anteguerra con quella in gravosa elaborazione fra i vuoti spettrali di certe strade e le montagne di disfacimenti e rovine non ancora rimosse.
Alla fabbrica di Terrapieno, l’entusiasmo della fatica. Può sintetizzarsi: L’Unione Sarda tra continuità e rinnovamento, nel 1954. Il prezzo del giornale al pubblico è di 20 lire. Coincide quasi con l’arrivo del nuovo direttore il potenziamento tecnico dello stabilimento di stampa. Lo ha anticipato Crivelli stesso nel fondino di presentazione, il 1° gennaio (che, a dirne la necessità, reca anche un bel… pasticcio di righe saltate di posto): «Fra pochi giorni L’Unione Sarda apparirà in una nuova e più moderna veste tecnica, potenziata nei suoi servizi e con una più vasta rete di corrispondenti, collaboratori, informatori».
Così sulla prima pagina del giornale del 14 gennaio, insieme con il terzo editoriale del direttore (“Questo giorno è ogni giorno”), ecco un riquadrato con i “Telegrammi augurali” per il rinforzo tipografico inviati dai presidenti della giunta e del Consiglio Regionale (Luigi Crespellani e Alfredo Corrias rispettivamente) e dal ministro Malvestiti titolare dell’Industria e Commercio, ed una foto – di spalla – dei linotipisti all’opera con ampia didascalia: «L’Unione Sarda appare stamane ai suoi lettori in una nuova, più moderna veste tipografica. Nuove linotypes, nuovi caratteri e una modernissima, potente rotativa sono entrate in funzione stanotte. Questo rinnovamento coincide con l’inizio ufficiale del 66° anno di vita del giornale. In 5.a pagina le vicende e la storia dell’Unione Sarda vengono rievocate in una serie di articoli» (questi ultimi sono a firma di Vitale Cao, Antonio Ballero, Vittorino Fiori e Mario Pintor, e in supplemento un affettuoso “Ricordo di Nando” Sorcinelli).
Ancora il giornale è a quattro pagine, ma sempre più di frequente – e già nello stesso 1954 – esso va alle sei e alle otto. L’altro balzo – fra un lustro – sarà alle dieci e anche alle dodici pagine. E il maggior spazio favorisce ovviamente varietà e specialità del notiziario.
L’editoriale è ancora a firma piena di un direttore che andrà quindi, sempre più spesso, a preferire la sigla, l’arcinota sigla delle tre iniziali minuscole e puntate. Ritorna, il direttore, sulle questioni interne al giornale – la modernizzazione delle sue macchine –, ma deve per forza combinarle con un commento alla situazione politica nazionale che vede l’on. Fanfani impegnato in colloqui esplorativi per la formazione di un ministero possibilmente di coalizione, dopo il monocolore Pella (governo d’affari tutto democristiano, con benevola astensione liberale e monarchica). Congiuntura complicata dalle incertezze sulla prossima successione di Einaudi al Quirinale.
Il quadro internazionale, con l’imminente svolgimento della conferenza di Berlino fra le potenze vincitrici della guerra mondiale (conferenza priva, alla fine, di sbocchi concreti), pare consigliare un miglior profilo al governo italiano. Tutto è movimento nel mondo: l’impasto politico-militare già registra un lento avvio di nuovi equilibri in URSS dopo la morte di Stalin, il consolidamento dello stile Eisenhower e le sperimentazioni della bomba H in America, il debutto della rete SEATO nel sud-est asiatico e, per contro, lo slancio di iniziative anticolonialiste in Indocina e anche in Algeria, il dibattito sulla Comunità europea di difesa (infine bocciata dalla Francia) e molto altro sul fronte ora delle tensioni fra ebrei e palestinesi a Gerusalemme, ora delle nazionalizzazioni delle compagnie petrolifere in Iran, o su quello della crisi coreana, ecc.
L’occidentalismo scelto dall’Italia negli anni della Costituente consiglia – è l’opinione di Crivelli editorialista – un nuovo esecutivo a larga base parlamentare per il che non dovrebbe neppure arretrare la destra monarchica con un appoggio esterno, pur se la coalizione fosse tutta centrista: «questa potrebbe essere la buona occasione perché il PNM dimostri quella sensibilità ai problemi sociali che spesso i suoi avversari hanno messo in dubbio».
Dal nazionale al regionale. A Cagliari la seconda legislatura autonomistica è iniziata male: proprio a gennaio s’è dimessa la giunta monocolore (rinforzata da un tecnico sardista) a presidenza Crespellani. Le subentreranno, in successione nello stesso 1954, due esecutivi a guida Alfredo Corrias (in replay del precedente il primo, bicolore DC-PSd’A il secondo). Sono forse troppi i democristiani in Consiglio, e anche per questo divisi e litigiosi fra di loro. Scrive Crivelli: «Sia permesso a questo giornale, nel giorno in cui esso inizia ufficialmente il suo 66° anno di vita in rinnovata e perfezionata veste, rivolgere agli uomini responsabili della Regione un appello sincero che si basa sulla precisa convinzione di essere il portavoce delle più vaste correnti dell’Isola. Si ricordino questi uomini che la Sardegna attende da loro risoluzioni concrete, attività operante, coraggiose iniziative in tutti quei campi in cui ancora poco o nulla si è fatto.
«La Sardegna ha bisogno di troppe cose perché si possa permettere alle ambizioni o ai puntigli personali di inceppare una macchina che finora non ha trovato forse il suo giusto punto di funzionamento ma che certo non lo troverà se continuerà a subire periodiche soste che quasi sempre hanno origini molto lontane dalla realtà dei problemi ancora insoluti.
«Quali siano questi problemi non da oggi il nostro Giornale lo va dicendo. Continueremo ad agitarli giorno per giorno, perché chi deve affrontarli li abbia sotto gli occhi in ogni momento. E’ questo il proposito che rivolgiamo a noi stessi nel numero con il quale si apre un nuovo ciclo nella vita di questo giornale che da 66 anni nella sua testata ricorda ai Sardi la prima base di ogni sicuro progresso».
E’ certo credibile e probabile che qualcuno dei redattori o dei collaboratori che l’hanno accolto nella sede di viale Regina Elena abbia illustrato al nuovo direttore le origini lontane della testata, riportata proprio come insegna alla mobilitazione regionale pro-ferrovie (o antigovernativa e pro-ferrovie) della metà degli anni ’70, vigilia della prima elezione di Francesco Cocco Ortu alla Camera e vigilia anche del passaggio della maggioranza parlamentare dalla destra storica alla sinistra prima cairoliana poi depretisiana e trasformista.
L’Unione Sarda, per la penna del suo nuovo direttore, affaccia una sensibilità pragmatica, anche se resta indubbio essere fuori dal novero delle sue simpatie o predilezioni la sinistra comunista o social-comunista, di cui si ha frequentissimo riscontro nelle polemiche con l’Unità – l’organo di stampa del PCI che vanta quella vivace pagina regionale di cui s’è detto –, e la destra estrema missina, di cui sarà altresì prova uno scontro dai toni aspri, e seguito nelle aule di giustizia, con Francesco Caput, consigliere regionale del MSI e in gioventù direttore lui stesso de L’Unione Sarda fascistizzata (1922-1926).
Non di scarto sono le energie che il giornale pone nella difesa di una posizione autonoma e laica che non incrocia – né forse lo può – il gradimento degli ambienti della curia arcivescovile anche se, in verità, dalla generalità delle parrocchie (non soltanto urbane ma anche dell’entroterra e della provincia) e dell’associazionismo organizzato la preferenza per il giornale nato e rinato liberale è cosa pacifica, sedimentata anche nelle abitudini o nell’affezione che ogni testata sa suscitare, forse per la puntualità dell’incontro in edicola o con lo strillone per la via, nel corso del tempo. Si sa dello scontento dell’arcivescovo Botto che sostiene le ragioni de Il Quotidiano Sardo e lamenta un diffuso disimpegno delle strutture cattoliche verso la “buona stampa”, di cui a suo parere il giornale diretto da don Giuseppe Lepori sarebbe felice espressione. Ne dirò poi.
L’Unione, Crivelli e i democristiani. Trattare, con criterio analitico e scavo mirato nei materiali disponibili, della linea politica di una testata giornalistica è cosa evidentemente impegnativa e questo esula dagli scopi di questo pur corposo articolo, in fondo volto appena a richiamare alcuni elementi dell’impatto isolano avuto, nel 1954, dal giornalista trentatreenne venuto dalla capitale d’Italia nella capitale della Sardegna per assicurare qui un’informazione di più elevato standing.
E’ certo, in linea generale, che la relazione con la politica (istituzionale e partitica) ed i politici (in carne ed ossa) avviata o maturata da quella istituzione assolutamente singolare che è un giornale quotidiano costituisce un passaggio obbligato dell’identikit ideale e professionale di un qualsiasi direttore. Crivelli non è democristiano, si sa. E’ uomo culturalmente di minoranza, intimamente “solitario” nella ricerca del vero e del giusto: la sua formazione e talune faticose e prolungate esperienze lo hanno come radicato in questo assillo. E’ uomo morale, che nutre il suo mondo di letture più ancora che di relazioni. Ha una sua riservatezza, un pudore che non perderà neppure quando gli anni di direzione – si direbbe di praticaccia – supereranno il quarto di secolo: la sua indipendenza, che pur non significa che non abbia infinite volte cercato mediazioni e compromessi, costituisce per lui un valore fondante la professione, il mestiere. Sì, l’indipendenza (fuori dalle saccenterie e dai dogmatismi cattedratici ed autoreferenziali) rappresenta per lui come una garanzia di coscienza che il mestiere offre, nel concreto, un buon prodotto: ecco, un prodotto onesto a chi si affida alla rettitudine dell’operatore ed alla sua virtù intellettuale.
E’ estraneo e diffidente e anzi alieno, Crivelli, alle suggestioni delle mitologie come alle influenze o malie dei “pacchetti pronti”, dei rimedi confezionati da faciloni (per non dire imbroglioni) di piazza che passano per sapienti ed esperti . E’ laico, in questo, anche in questo, razionale, ammiratore di Voltaire, il Voltaire della tolleranza perché consapevole delle complessità e, dunque, dell’irriducibilità di ogni percorso ad un tracciato banale e predeterminato. Ed è però (rimasto) anche prossimo alle tavole valoriali della sua prima educazione in casa e magari in parrocchia, interno a quell’umanesimo cristiano che guarda alla persona piuttosto che all’individuo. Per questo non è semplicisticamente classificabile, non potrebbe esserlo, nelle categorie delle appartenenze strette, semmai delle parentele ideali che guardano sempre al binomio libertà-giustizia, associando ad esso il monito della responsabilità sociale.
C’è un articolo fra gli altri, del suo primo anno di direzione a Cagliari, che rimanda a qualcuno di tali concetti. Il 12 dicembre, nel suo fondo titolato “La sola via” tutto dedicato a un’analisi politica ed a considerare cosa sia il comunismo in un frangente storico in cui esso ancora fa rima con lo stalinismo, spiega che ben più che la politica è stata l’autorità morale della Chiesa cattolica a fronteggiare il pericolo, a spiegarne l’intima contraddizione ed il portato destabilizzante. Ma – aggiunge press’a poco – in Italia è il disagio sociale che costituisce il brodo di coltura di un’ideologia che in sé non può favorire rimedio alcuno al male dei ceti deboli. E, continua, se la DC vuole avere l’orgoglio di essere, e di essere riconosciuta, figlia di una scuola morale e religiosa di tanto rilievo storico quale è quella che echeggia nella sua denominazione, sviluppi essa una politica di giustizia sociale che eviti, nelle masse, aspettative eccessive e indebite sul fronte del… soccorso rosso e legittimi invece la sua leadership stornandola dal rischio di essere soltanto elettorale. Il tutto conclude e sintetizza con questa battuta: «Non c’è autorità senza Dio e senza una vera concreta giustizia sociale».
Il rapporto con i democristiani è aperto, critico ma non incapace di distinguere. Non mancano certo, infatti, le personalità di grandissimo spessore morale e culturale e di credibilità politica nella dirigenza della DC: Crespellani, Pietro Leo – buon collaboratore del giornale e sindaco di Cagliari nel 1954 già da un lustro (anche se contestato per talune scelte amministrative) –, Agostino Cerioni, Efisio Corrias, Alfredo Corrias esponente oristanese che molto si impegnerà sul fronte della possibile quarta provincia… Poi c’è la palude, quel tanto di mestieranti con pacchetti di voti di preferenza come sola dote, senza un disegno alcuno di sviluppo sociale, senza tensione etica. C’è anche Giuseppe Brotzu, certo non della palude, che dopo una prolungata presidenza della giunta regionale avrà anche la responsabilità di primo cittadino del capoluogo. L’uomo è rispettato perché è rispettabile, pur se così accentuatamente di destra: i suoi esecutivi vengono definiti “sdraiati” a destra, per dire dei monocolori variamente approvati dai gruppi monarchici e dai missini, così come invero capiterà, nello stesso periodo, per la giunta Palomba a Cagliari. Il giornale guarda con diffidenza a questo “sdraiamento” di cui avverte l’insufficienza del respiro riformatore e la sgradevolezza con cui esso è recepito in larghi settori della pubblica opinione non necessariamente avversaria per partito preso. Gioca a difesa di queste amministrazioni conservatrici, per quello che conta (e, nonostante tutto, conta), il giudizio di monsignor Paolo Botto e de Il Quotidiano Sardo che ha nel professor Brotzu l’amministratore dello sgangherato bilancio. Ma poi…
S’è detto che, quasi in coincidenza con l’inizio della direzione Crivelli a L’Unione Sarda, parte l’anno e mezzo di presidenza Alfredo Corrias (cui seguirà un triennio e oltre di presidenza Brotzu). Il giornale segue e sostiene la battaglia politico-parlamentare per la provincia di Oristano, per la quale la DC è impegnata, anche se non mancano le divisioni interne a motivo degli equilibri di potere (e/o elettorali) che cadrebbero e sarebbero da ricostruire. La sconfitta parlamentare della proposta rinvierà molti discorsi aprendo invece nuove faide intestine al partito di maggioranza relativa che conta, nella seconda legislatura autonomistica, 30 consiglieri su 65, mentre la sinistra social-comunista ne assomma appena 20, il PSd’A 4, PLI e PSDI uno ciascuno, e le destre (i monarchici del PNM ed quelli del MSI) ben 9.
Sono del 1954 ma più ancora degli anni che immediatamente seguono – in cui pare anche assai sbilanciato a favore dell’esecutivo sul Consiglio l’equilibrio politico delineato dallo Statuto – tutta una serie di cruciali (orientative) deliberazioni direttamente incidenti sugli assetti produttivi e lavorativi della Regione: così nel settore minerario (si contano a decine le occupazioni dei pozzi fino alla chiusura delle miniere metallifere), in quello agricolo (con la riforma pilotata dall’ETFAS che cerca, pur in chiave democristiana, la trasformazione della mezzadria in piccola proprietà contadina). Sul fronte delle grandi infrastrutture, è in corso di costruzione il grande invaso sul Flumendosa così come quello sul Mulargia, idem alcune gallerie di collegamento ecc. , il tutto destinato a cambiare assetti fisici dei territori ma soprattutto ad appagare necessità idriche, idroelettriche e di varia altra natura di vaste popolazioni isolane. Sono relativamente poche – neppure una trentina – le leggi esitate dall’Assemblea Regionale: provvidenze per promozione di studi e ricerche in materia industriale e mineraria, agricola e zootecnica (apicoltura inclusa!), idem in materia di trasporti, turismo, alberghi e terme, finanziamento ai lavori di completamento della carta geologica isolana, acquisto di collezioni d’arte ed artigianato (quelle del comm. Cocco), erogazioni di contributi alle gestioni iniziali di ospedali, ambulatori e brefotrofi…
In questi primi anni della sua esperienza, con mezzi limitatissimi, la Regione è più amministrazione che legislazione. Essa va progressivamente componendo il complesso mosaico delle sue strumentazioni operative – ora enti (come l’ESAF , poi L’ESIT, l’ISOLA, ecc.) ora banche chiamate ad essere i bracci d’intervento dell’Istituto autonomistico (Banco di Sardegna e CIS giusto nel 1954 vedono approvato il loro statuto) –, mostrandosi sempre più organo pensato come democratico-dirigista. Tale si rivelerà ancor meglio – e ciò sia detto facendo ampie tare delle scelte sbagliate – all’avvio della politica programmatoria in attuazione del Piano di Rinascita del 1962 (passato per infinite fasi di elaborazione lungo l’intero decennio: ancora nel 1954 prende a riunirsi la commissione economica di studio “per la rinascita della Sardegna” in mix fra governo nazionale e Regione). Per intanto funzionano i cantieri della Cassa per il Mezzogiorno che assicurano nel concreto, ancor più negli anni ’50, la sensibilità meridionalistica – invero instabile o rapsodica – dei governi di Roma.
Tutto appare in salutare movimento nell’Isola. Certo così è anche sul versante cruento e banditesco, se l’anno 1954 si apre con la perquisizione a tappeto di Orgosolo da parte di ben cinquecento agenti della P.S. Perché la sicurezza è stata ferita, un’ennesima volta, fra Baronia e Barbagia, con il sequestro e l’assassinio di un noto professionista cagliaritano (Davide Capra) impegnato nella costruzione di una strada con una squadra di venti operai all’inizio anch’essi sequestrati… E si chiude, lo stesso anno, con un conflitto a fuoco e la morte del pericoloso latitante Pasquale Tandeddu…
A dire poi della cultura isolana è, il 1954, l’anno di un lutto grave: scompare don Pietro Casu, scrittore e poeta (ha tradotto in sardo anche la “Commedia” di Dante!) che ha segnato larga parte della letteratura (e della critica letteraria) della prima metà del Novecento . Autore e linguista, prete ed omelista in limba, di genio prolifico ed animo generoso… E’ anche l’anno, il 1954, di un evento che porta Cagliari al centro dell’attenzione nazionale per l’organizzazione, a settembre, del congresso della Dante Alighieri. La seconda volta, dopo il 1907: quella era ancora la città di Ottone Bacaredda, questa è la città di Pietro Leo. Per l’occasione Il Convegno – la rivista degli Amici del libro (e della Dante) diretta da Nicola Valle – pubblica quattro numeri speciali: tre dedicati rispettivamente a Oristano, Nuoro e Cagliari, l’ultimo dedicato a “Dante e la Sardegna”.
Dal suo osservatorio di Terrapieno, grazie alla collaborazione di molti – fra i più amati e preziosi è da subito Salvatore Cambosu, guida ai fondamentali dell’Isola che è “quasi un continente” (secondo la definizione di un altro intellettuale collaboratore de L’Unione, Marcello Serra cioè) – Fabio Maria Crivelli va a passi veloci, a dispetto dell’apparente pigrizia, nella conoscenza della Sardegna tutta, non soltanto di Cagliari. Cerca di sapere tutto, o di tutto, senza invadenze. Si presenta alle autorità anche delle altre città isolane, perché il giornale che ha in mente è quello che, meglio che nel passato, deve onorare la propria testata: dunque non soltanto cagliaritano, ma regionale. Sa bene che non potrà sfondare più di tanto nel capo di sopra, ciò non di meno ha consapevolezza e volontà di affermare il suo quotidiano in aree di opinione anche di Sassari ed Alghero, anche della Gallura, così come del Nuorese (fino al 1927 circondario della provincia di Sassari ed al capoluogo turritano unito da una storia che ha anche in quell’università un utile polo attrattivo).
Quella lettera all’arcivescovo Botto, e un necessario flashback storico. Il dinamismo al momento forse soltanto annunciato della nuova direzione de L’Unione Sarda preoccupa la curia diocesana. Quest’ultima si esprime, s’è detto, attraverso una testata che fatica ad affermarsi negli stessi ambienti cattolici dell’Isola, che preferiscono, nelle letture d’informazione, il giornale concorrente, pur nato liberale e diffidente (ma non prevenuto) verso il partito e anche il sistema di potere impiantato, con perdita progressiva di idealità, dagli uomini dello Scudo Crociato.
Bisogna fare qui un pur rapidissimo riassunto di cosa sia stato, fra il 1946 e il 1954 – quasi otto anni –, Il Quotidiano Sardo (rinvio, in materia, alle diverse anticipazioni di un saggio che spero di poter quanto prima licenziare per la stampa). Nato per iniziativa dell’arcivescovo di Oristano Giuseppe Cogoni – il solo presule che negli anni del regime era inviso all’autorità (costantemente informata dall’OVRA circa le sue iniziative nella diocesi di Nuoro, a capo della quale era arrivato da Cagliari nel 1931 e sarebbe rimasto fino a tutto il 1938, per poi passare appunto ad Oristano e coprire anche, con una breve amministrazione apostolica, la Chiesa di Ales) – il Quotidiano era formalmente organo dell’Azione Cattolica. Esso rispondeva ovviamente, e al suo meglio, ad un impulso della Conferenza Episcopale Italiana interessata a promuovere giornali cattolici un po’ in tutte le regioni, sulla scia della maggior testata nazionale che era appunto Il Quotidiano Cattolico pubblicato a Roma.
In obbedienza a questa direttiva, nell’Isola si puntò ad una sede pressoché baricentrica rispetto ai maggiori poli territoriali. Oristano poi costituiva, proprio per una remota ma effettiva competenza giornalistica di monsignor Cogoni (che a Cagliari s’era occupato, dal 1928, del settimanale La Sardegna Cattolica e a Nuoro de L’Ortobene), luogo doppiamente propizio per una tale nuova avventura editoriale.
La prematura scomparsa del presule determinò o accelerò, già nel 1947, il trasferimento della redazione centrale al capoluogo, ottenendo il giovane direttore Mariano Pintus (poi deputato democristiano) la conferma della fiducia dell’arcivescovo Piovella, peraltro giunto anch’egli ormai alla sua ultima stagione. Venne, il giornale, con debiti e altri ne contrasse negli anni delle uscite cagliaritane fino a che il successore di monsignor Piovella, l’energico ligure Paolo Botto giunto a Cagliari nell’ottobre 1949, prese in pugno la situazione (con la debole collaborazione del giovane vescovo Antonio Tedde per incarico della CES) deliberando il cambio di direzione e il diretto intervento della curia di Cagliari nell’amministrazione (affidata al prof. Brotzu) oltre che nella linea politica.
La direzione di don Giuseppe Lepori, per quasi due decenni – i peggiori del Novecento italiano – coadiutore del can. Giuseppe Lai Pedroni alla guida de La Sardegna Cattolica (nata afascista, poi passata all’indulgenza verso la dittatura… antibolscevica, infine anche incredibilmente tollerante verso il paganesimo nazista!), significò proprio l’assunzione in prima persona, da parte della Chiesa cagliaritana, della responsabilità del giornale. Esso divenne strumento del massiccio e incessante interventismo sociale e politico della curia locale, del protagonismo pubblico della Chiesa fattasi interlocutrice delle maggiori istituzioni, a cominciare dal Consiglio Regionale e dalla giunta per arrivare alla Provincia e agli enti territoriali minori.
Al fondo restava una visione che la Chiesa – e per essa la gerarchia episcopale e la rete clericale – aveva di se stessa, non come di lievito evangelico nella pasta sociale, ma di soggetto pubblico portatore di valori ed interessi (terreni) ed immesso nella dialettica corrente con altri soggetti portatori di altri valori e altri interessi. In tale contesto, il giornale in uscita dalla tipografia San Giuseppe, nel mezzo fra il vecchio mattatoio e la piazza San Cosimo, serviva anche come collante e copione dei molti attori sulla scena nonché come pratica promozione di fortune elettorali di questo o quello.
In una siffatta visione autoreferenziale ed interventista, Il Quotidiano di don Lepori – peraltro fornito di una buona squadra redazionale e di una pur non foltissima ma qualificata schiera di collaboratori (fra essi piace ricordare il giovanissimo Lorenzo Del Piano) – doveva marcare il suo range, assolutizzando invece che relativizzando. Insomma, definendo e dimensionando il suo bacino d’opinione, esso passava a statuire diritti e doveri – doveri, obblighi anzi, soprattutto – di assidua prossimità e per taluno (i chierici, i soci nei gruppi laicali e fraternali) perfino di disciplinata militanza da esprimersi nel sostegno alla testata, intanto con la ordinaria lettura personale, ma poi anche con la raccolta degli abbonamenti e dunque l’espansione missionaria, proselitistica dell’area di simpatia e convergenza.
In una parola: il giornalismo cattolico ben poteva chiamasi da sé “buona stampa”, e ben poteva considerare quella concorrente in città e paese “cattiva stampa”. Per questo, anche nel 1954 – in forma più enfatica ed impegnata che in precedenza – la Settimana della stampa cattolica promossa dall’arcivescovo Botto nei locali austeri del Seminario Tridentino (prossimo alla cessione allo Stato e al trasferimento, dopo una pausa a Dolianova, nel nuovo e moderno complesso di San Michele) mira a ridefinire il campo e le classifiche dei giudizi, accentuando non attenuando i rigori nella compilazione delle pagelle. E L’Unione Sarda – anche o soprattutto L’Unione Sarda del nuovo direttore Crivelli – resta confinata in uno strano, soltanto supposto e comunque indimostrato spazio epidemico da cui salvarsi.
I pannelli e le vetrine allestiti in via Università presentano, insieme con un certo numero di preziose incisioni religiose, le carte che documentano la gloria della “Chiesa scritta”, anche in Sardegna, nei secoli remoti e in quelli più recenti. Cagliari, in particolare, ha contato a decine i fogli di marca clericale: dall’Ichnusa, che precede d’un decennio quasi e quasi sfiora il… sacrilegio dell’unità d’Italia, al trittico intransigente del can. Miglior – La Lealtà, L’Operaio Cattolico e L’Unione cattolica – dopo la presa di Roma, da La Voce della Sardegna affidata al giovane don Luca Canepa (futuro vescovo di Nuoro e fatto direttore già da seminarista) a Il Risveglio, che riporta agli episcopati Berchialla e Serci Serra, a La Sardegna Cattolica e poi a Il Corriere dell’Isola dell’avvocato e conte palatino Enrico Sanjust, a Il Lavoratore, organo giovanile della prima Democrazia Cristiana a guida del dottor Virgilio Angioni (presto smentito e chiuso dall’arcivescovo francescano Pietro Balestra), da La Voce del Popolo negli anni della grande guerra al Corriere di Sardegna dei popolari (la cui tipografia era stata incendiata dai fascisti nel 1926, giusto all’indomani della stolida alleanza degli stessi popolari con i loro carnefici in odio al monumento di Giordano Bruno per la cui rimozione avevano appassionatamente raccolto firme insieme!), ecc. Tutto vale, naturalmente, per arrivare a Il Quotidiano Sardo, a presentarlo come esito ultimo di una lunga tradizione e meritevole della più convinta ed entusiastica solidarietà dei cattolici. (Non per niente, e con pieno diritto, il giornale dà conto dell’iniziativa scrivendone puntualmente per un mese intero! Scrive della mostra nel Gabinetto delle stampe, scrive degli incunaboli esposti, scrive delle conferenze dell’on. Manzini e di don Vallainc, scrive dei traslochi delle vetrine ora all’Istituto salesiano – puntando sulla stampa giovanile cattolica –, ora all’Ospedale civile, ora a Quartu Sant’Elena).
Il magistero episcopale, in Italia e nell’Isola, ha prodotto un’infinità di testi che al dunque – bisogna dirlo – non sembrano aver arricchito una società la quale è dal liberalismo e dalla democrazia, dalle spinte ideali anche del socialismo che ha invece saputo trarre la linfa del suo progresso, mentre dalla Chiesa servente più che da quella militante – si pensi al Buon Pastore dell’avversato dottor Angioni, o ai santi cappuccini di fra Ignazio – attendeva e sperava i soccorsi umanitari e la fraternità realizzata.
Nel 1954, per la curia dell’archidiocesi anche il giornale di Terrapieno è da includere senz’altro nel novero di quella stampa ostile da cui i fedeli dovrebbero tenersi cautamente distanti, valorizzando per contro l’altro foglio, il foglio amico.
In una lunga “Lettera aperta all’arcivescovo di Cagliari” – così proprio il titolo –, uscita di spalla sulla prima pagina de L’Unione Sarda di mercoledì 20 gennaio, Crivelli pone domande ai critici del suo giornale, non per contestare loro il diritto a un giudizio qualsiasi, ma per comprendere la logica di quel certo giudizio, e i dati fattuali che lo giustificherebbero. E’ legittimo e perfino sacrosanto – scrive il direttore – che la Chiesa sostenga i propri organi di stampa e combatta a viso aperto quei periodici o quotidiani «che si dedicano all’esaltazione, sotto svariate forme, di tutte quelle ossessionanti turpitudini, che si chiamino cronaca nera o pornografia, che purtroppo sembrano ogni giorno di più allargare i confini del lecito e del tollerabile». Ma – ecco la domanda – che cosa c’entra L’Unione Sarda con tal genere di pubblicazioni? Perché mai alcuni sacerdoti si sono sentiti di ammonire i fedeli, parlandone dal pulpito di qualche chiesa cittadina o di paese, a scegliere secondo consiglio, non secondo coscienza, la stampa in offerta all’edicola?
Domanda Crivelli: «Perché alcuni di questi predicatori hanno voluto scendere al dettaglio, specificando quali sono i giornali che un buon cattolico non deve comperare, elencando in prima fila fra i giornali regionali, fianco a fianco con i fogli estremisti, L’Unione Sarda»? Aggiunge: «Uno di loro ha voluto addirittura dichiarare il nostro giornale “più pericoloso dell’Unità”, perché se l’organo del PCI è un giornale “apertamente e dichiaratamente nemico”, il nostro lo è invece “abilmente e copertamente”».
La cosa pare inaccettabile perché costituisce puro dileggio del lavoro di una redazione costituita peraltro da credenti, e comunque da professionisti di valore. Amarezza, sbigottimento: ecco il sentimento di reazione ad accuse infondate. O fondate – pare di capire – su una indebita e perfino spregiudicata applicazione della proprietà transitiva, sicché ogni riserva del giornale per la politica dei democristiani deve estendersi ai patroni elettorali dei democristiani, e quindi alla variegata organizzazione cattolica sul territorio e magari al vertice diocesano… «I componenti di questa redazione – scrive Crivelli – sono tutti buoni cattolici», certamente fallibili così come ogni uomo è fallibile, ma certamente non riducibili ad un’accolta di mendaci o ipocriti. E aggiunge ancora: «Dove comunque non crediamo, noi tutti, di aver mai tradito i nostri principi di buoni cristiani è nella nostra professione, in questa difficile professione che abbiamo scelto per vocazione, per la presunzione di poter essere di qualche utilità al bene di tutti, e, comunque, non certo attirati da agi o da comodità, ahimè rigorosamente lontani e inconciliabili con chi questa professione esercita».
Spiega ancora, il direttore, quali siano i criteri seguiti quotidianamente dai redattori de L’Unione Sarda nella fattura del loro giornale e intende dimostrare come tale pratica sia perfettamente coerente con i grandi valori di un cristianesimo non assimilabile certo ad una setta, ma avvertito semmai come potente scuola etica, che guarda al vero e impegna al dovere: «in politica questo giornale ha sempre sostenuto la causa della libertà e della democrazia», mentre alle estreme il comunismo si richiama allo stalinismo sovietico e il Movimento Sociale Italiano riunisce i nostalgici della dittatura. In campo sociale «stando fuori e al di sopra dei partiti – precisa – ci siamo sempre battuti per più vasti e più meritevoli interessi: soprattutto per quelli delle classi più disagiate, convinti che migliori condizioni di vita per loro possono venire solo da illuminate e graduali riforme, quelle stesse che vaste correnti cattoliche nobilmente propugnano non da oggi».
Ma se questi sono i principi etici che la stessa dignità della cittadinanza – intesa come condizione della persona riconosciuta dall’ordinamento – implica come irrinunciabili, il mestiere del giornalista da lì muove nel concreto nella valutazione dei fatti della cronaca, quale che sia il suo teatro – ora politico ora culturale, o sportivo, o giudiziario, o genericamente civico – e con gli strumenti della indipendenza e della intelligenza critica compila il notiziario senza censure di comodo, e ne propone letture ragionate. Ancora: «ignorare il male non significa combatterlo», e dunque nella selezione di fatti da raccontare la cronaca nera deve avere il suo spazio, senza censure come senza intenti provocatori o, peggio, quando se ne darebbe facile occasione, pruriginosi. D’altra parte la foliazione d’un giornale, e de L’Unione Sarda nel caso specifico, presenta spazi non marginali con contenuti suscettivi di «letture serene, adatte alla grande massa di famiglie che da tanti anni sono affezionate» al quotidiano. Per non dire – sotto altro profilo – della sollecitudine del corpo redazionale a sovvenire alle molte situazioni di bisogno materiale promuovendo collette fra i lettori (così è stato, ed è riscontrabile, anche nel primo numero firmato, a Cagliari, da Crivelli).
Le collezioni sono lì a documentare come, nel bene o nel male, lo sforzo di tutti sia stato quello della imparzialità e, associato ad esso, quello di farsi difensore civico, voce di coloro che non avrebbero accesso ad una interlocuzione con il potere pubblico, si tratti dell’Amministrazione comunale o di qualsiasi altro ente deputato a realizzare, pro quota, l’interesse generale che è in sé inclusivo dei senza voce.
E’ così che Fabio Maria Crivelli scrive all’arcivescovo Botto, non mancando infine di alludere a quelle che a lui paiono le ragioni vere degli affondo che da qualche parrocchia, da qualche prete, dallo stesso presule in prima persona, sono venuti forti e ripetuti contro il più antico e diffuso giornale dell’Isola. Si tratta forse di un implicito riconoscimento della debolezza – per tiratura, diffusione, accredito – del caro Quotidiano Sardo («un nostro concorrente…»).
Mancherà, pur al termine della settimana convegnistica, fra quadri espositivi e conferenze di vari competenti – religiosi e laici – una risposta ufficiale al direttore de L’Unione Sarda. E mancherà una risposta ancorché indiretta, per qualche tempo, anche sulle pagine del «concorrente». Non basta insomma una chiusa nei termini della più assoluta deferenza («Ci aiuti Lei, Eccellenza, a vedere. Ci dia modo di pentirci di questi nostri ignorati peccati e fare onorevole ammenda. Attendendo questa Sua paterna e illuminante parola La preghiamo, eccellentissimo Monsignore, di accogliere i sensi della nostra filiale devozione»), forse perché il destinatario coglie in quelle parole uno spirito educatamente ironico, o magari la fermezza dell’esigenza posta di accompagnare alla critica i fatti.
Sarà certamente manifestazione di uno spirito sempre leale, ma certo anche di un altro spirito – quello della storia che incalza –, l’offerta che, nell’ottobre 1962, Crivelli avanzerà al suo competitore Giuseppe Lepori di presentare l’evento conciliare ormai al suo incipit in San Pietro. Il vecchio direttore de Il Quotidiano Sardo firmerà allora in prima pagina per la testata che aveva combattuto per otto lunghi anni, fino al 1957, quando la chiamata al parrocato nobile di San Lucifero lo aveva tolto dalle pene giornaliere di titolazioni, editoriali, corsivi e manabò.
Non mancheranno comunque, per intanto, le occasioni per l’esercizio dei pungiglioni polemici. Con civiltà, ma talvolta anche con il fiero gusto della rapida sciabolata. Ne accennerò, adesso, limitandomi soltanto ad uno o due episodi del 1954. Peraltro, indugiare su taluni passaggi di tali vicende, pur nell’economia di questo scritto volto a più generali e complessive registrazioni, aiuta forse a penetrare nel concreto anche un certo spirito pubblico cagliaritano, certi tratti della politica e dell’Amministrazione civica verso la metà del decennio, la disponibilità dialettica della stampa locale e, in questo specifico, il dinamismo imposto al compassato giornale di Terrapieno dal giovane direttore giunto da Roma.
Il cadetto di Guascogna. Replica (nelle intenzioni) d’un film popolare. Bisognerebbe rifare, pur in breve, la storia della maggior polemica che, per una settimana e anche più, infiamma (e insieme agita e diverte) i lettori dei due giornali cittadini concorrenti ma, credibilmente, soprattutto i protagonisti che sulla scena pubblica si raccontano od insegnano reciprocamente cosa debba essere… il mestiere di giornalista.
Sullo sfondo sono questioni importanti, d’interesse generale, al centro delle sedute che il Consiglio Comunale, riunito dopo il rientro in città del sindaco Leo (per tre mesi infortunato a causa di una rovinosa caduta occorsagli a Roma), affronta a cavallo fra luglio ed agosto. In particolare si tratta della proroga delle sub-concessioni del Poetto concesse dal Municipio. L’istruttoria è dell’Ufficio Tecnico Comunale, la cui conduzione è ampiamente messa in dubbio da L’Unione Sarda anche per altre vicende amministrative che hanno a che fare con costruzioni ritenute dalla cittadinanza, se non proprio speculative, scarsamente compatibili con il contesto.
I lunghi resoconti delle tornate consiliari (il primo copre addirittura le sette colonne, fra prima e seconda pagina!) sono accompagnati da corsivi anonimi in cui il Comune è il primo imputato, ma con esso anche i beneficiari delle sue (improvvide) deliberazioni ed altresì… Il Quotidiano Sardo, che sembra rincrescersi degli attacchi sferrati dal suo concorrente, in via diretta o indiretta, alla maggioranza politica che è democristiana per la massima parte. E qui tutto entra nella polemica che si accende coinvolgendo l’uso pertinente o non pertinente del vocabolario, le carriere personali dei giornalisti, le supposte recondite intenzioni di singoli e testate, ecc.
Comincia L’Unione giovedì 29 luglio con un corsivo (“Vestire gli ignudi”) critico verso il Municipio e messo ad integrazione del resoconto consiliare: “Evasive dichiarazioni del Sindaco sui più scottanti problemi di Cagliari”. Sulla prima pagina de Il Quotidiano Sardo, lo stesso giorno, di spalla si legge: “Il Sindaco di Cagliari ghiaccia la polemica”, e l’impostazione redazionale è ovviamente benevola con il primo cittadino e la sua giunta.
L’indomani, il giornale di Terrapieno spara in quarta, sotto l’occhiello “La seconda giornata dei lavori consiliari”, un titolo pesante: “Sul banco degli imputati l’Ufficio Tecnico del Comune”, ed il 31 pubblica in prima il corsivo (della rubrica “Anticamera”, attribuibile nella sequenza ad autori diversi) “Ghiaccioli su ordinazione” ed in quarta il più corposo “Una volta per tutte”, sotto il maggior titolo di cronaca “Si acuiscono le accuse e le proteste contro l’Ufficio Tecnico del Comune”. I toni sono duri: «Nel tentativo di svalutare la nostra campagna sul Poetto, il Sindaco e la stampa fiancheggiatrice, cui la cittadinanza chiedeva argomenti e non elusive formule polemiche, hanno preferito dare dell’atteggiamento da noi assunto una interpretazione di comodo. Per gli autorevoli contraddittori il giornale altro non ha fatto che infierire su un esercente, l’Usai, escludendo dalla polemica il D’Aquila; così che tutto si riduce, sembra dire il Sindaco, ad un fatto personale tra i compilatori de L’Unione Sarda ed il gestore del Lido…».
E’ la reazione a quanto il giornale della curia ha sostenuto, il 30, riferendo del dibattito consiliare e – così ha riportato in un sottotitolo di prima pagina – di “Un violento ingeneroso attacco dell’Unione Sarda al dott. Leo”. Il tutto accompagnato da una nota critica (“Spietata requisitoria”) che ricorda come, per alcune sue campagne (ritenute implicitamente strumentali), L’Unione sia stata querelata. Così han fatto, appunto, gli impresari responsabili del palazzone del viale Regina Margherita e così anche il sub-concessionario del Lido (ne dirò, di entrambe, più oltre). Così nel testo: «Il giornale curatore degli interessi cittadini, il giornale della Sardegna che sull’altare di questi interessi è quasi giunto ad immolare la libertà personale del direttore, il giornale che con scrupolosa imparzialità esalta gli indifesi e perseguita i sopraffattori, ha severamente inflitto al Sindaco di Cagliari una lezione di correttezza amministrativa…
«Per la verità nel demolitore corsivo di ieri era anche una parte riservata al buon gusto, quella in cui il giornale autorevolmente esprimeva la propria soddisfazione per il fatto “che il buon umore del Sindaco non abbia sofferto negli ultimi mesi di appannamento”… Il resto è una sola spietata requisitoria, una denunzia di errori e la deplorazione più accesa per la sorpresa suscitata da un discorso nel quale fatti artificiosamente resi scandalosi sono stati ricondotti alle loro reali proporzioni.
«Noi non riferiamo quali favorevoli o sfavorevoli commenti il bilioso attacco ha avuto presso l’opinione pubblica… Lo “scandalo”del palazzo del Viale Regina Margherita è chiaro… esisteva un’autorizzazione regolare né poteva essere diversamente, ed è noto che essa consentiva l’elevazione dell’edificio sino a metri 27,90… Ora è comprensibile che dolga vedersi morire così fra le mani un’altra furibonda campagna di stampa… E c’è da chiedersi: come mai l’Unione Sarda, il giornale che non sciupa occasioni per proclamarsi generoso ed imparziale sostenitore degli interessi cittadini, ha trovato roventi parole per bollare la deturpazione della visuale panoramica del Bastione San Remy, mentre ha taciuto per il grattacielo di Piazza Yenne che ha deturpato irrimediabilmente la visuale panoramica dal Bastione Santa Croce? In base a quale criterio discriminativo?… [in piazza Yenne la Regione vorrebbe fissare la sua sede ed ha scomodato molti, ma nessun architetto, per legittimare quella costruzione come «espressione dell’anima sarda»: cf. US 1° gennaio 1954, “In sede architettonica che significa dire ‘espressione dell’anima sarda?’”, NdA].
«Ma la buona fede dell’Unione Sarda emerge ancor meglio da un altro brano del violento attacco di ieri dove si legge: “L’argomento del Poetto è stato appena sfiorato. Non una parola sul rinvio dello schema di convenzione approvato dal Consiglio; non una parola sulle costruzioni abusive del Lido; e poche parole sulla proroga delle sub concessioni dalla stagione scorsa a quella attuale. Il tutto si spiega con la nessuna importanza del problema”. Capite? Il Sindaco Leo tenta di insabbiare la discussione sul problema del Poetto, la minimizza, si sforza di farla dimenticare. Tant’è vero che ha iscritto la questione all’ordine del giorno e non più tardi di domani su di essa farà delle comunicazioni ed aprirà il dibattito, tant’è vero che avant’ieri interrompendo un consigliere dell’opposizione faceva rilevare che inserendo all’ordine del giorno intendeva provocare su di essa il più ampio dibattito. Come può leggersi nella seconda pagina della stessa Unione Sarda di ieri. Così la buona fede e la lealtà sono assolutamente fuori discussione».
E’ solo la premessa, la preparazione del terreno, perché l’oggetto della contesa si rivela presto un altro.
Le parole liquidatorie, e gli accenni ironici agli «occasionali e indifesi lettori» de Il Quotidiano Sardo ed anche a certe scelte grammaticali di quest’ultimo, nonché alla pratica delle veline, cioè delle note ufficiose e riservate (clandestine) che la parte interessata passa al giornale per una pubblicazione all’apparenza redazionale, ravvivano la fiamma polemica.
Ha scritto Crivelli: «Molte cose dovremmo dire e ricordare ai nostri amici del “Quotidiano Sardo” se dovessimo crederli perfettamente convinti di quanto hanno scritto; e prima di tutto dovremmo invitare il loro resocontista a prendere appunti durante le sedute del Consiglio onde evitare di doversi poi servire delle veline passate dagli interessati… Ma, Santo Cielo, come si fa a prendersela con così simpatici colleghi: dovremmo, oltretutto, dimenticare, prima la cordiale solidarietà dimostrataci in occasione della nostra vertenza con i costruttori di Viale Regina Margherita anche se oggi i redattori del “Quotidiano Sardo”, stranamente, se ne mostrano quasi pentiti. (A proposito: vi ringraziamo, amici, della vostra preoccupazione per la nostra personale libertà, ma non è poi il caso di allarmarsi troppo. Il cortese mons. Lepori, che querele ne ha avute più di noi, potrà ben spiegarvi che solo in casi eccezionalissimi e particolarissimi questo genere di vicende giudiziarie si conclude alla Guareschi» [cioè con il carcere].
Ancora, ed è spunto interessante anche per la biografia umana e professionale del giovane direttore de L’Unione Sarda: «Ma il motivo per il quale, soprattutto, non ce la sentiamo di infierire, contro questi nostri sfortunati colleghi, nasce dall’esperienza. Anche a noi è capitato, quando eravamo agli inizi della professione, di dover lavorare per un certo tempo in un piccolo giornale di una determinata tendenza. E anche a noi è toccato talvolta difendere d’ufficio cause di cui eravamo, intimamente, tutt’altro che convinti. E ricordiamo sempre con uno stringimento nel cuore l’umiliazione provata nel dover scrivere certe cose; non c’è niente di più penoso, di più mortificante, per un vero giornalista, di dover scrivere frasi che non si pensano e non si sentono.
«Pax vobiscum, dunque, amici del “Quotidiano”; ovvero “statteve boni” come dicono a Napoli…». A seguire è andata – ma tanto per far colore – la briosa condanna della coniugazione del verbo “ghiacciare” com’era stata proposta (appunto “Il sindaco di Cagliari ghiaccia la polemica”) nel pastone politico dei militanti del Biancofiore …
I quali, presa la palla nel loro campo, alzano ancor più il tono con un articolo, più che con un corsivo , benché quello sia il carattere tipografico, domenica 1° agosto. Titolo: “Il cadetto di Guascogna”, due righe robuste su tre colonne, di spalla. Anonimo l’autore, negli ambienti individuato per essere Paolo Pinna. Egli scrive: «Il direttore dell’Unione Sarda ha risposto con una sola compatta divagazione ai circostanziati appunti da noi mossi al suo giornale; e ha dato ad essa un accentuato riferimento personale che maggiormente sorprende in quanto né i redattori né il direttore del giornale noi abbiamo chiamato in causa ma la linea seguita dall’Unione Sarda nelle virulente campagne condotte intorno ad alcuni problemi cittadini…
«Chi è, dunque, questo guascone – vi sarebbe da chiedere –, chi è questo illustre sconosciuto che varca il Tirreno e viene in Sardegna a diramare con degnazione suggerimenti e consigli a chi ha per anni sudato in una redazione di giornale e si vede ora affrontato con non concessa confidenza; chi è questo ignoto che, dandosi lustro dell’intelligente collaborazione di alcuni suoi valorosi redattori, consente un nuovo repentino sfogo alla sua presunzione intimando a chi lo infastidisce un perentorio “statteve boni”: quali titoli sostengono tanta sufficienza? Una veloce luminosa carriera o gli studi pazienti della lingua italiana? L’inesperienza forse gli nega garbo e buon gusto, sarebbe dunque ingeneroso sopraffarlo…».
La polemica si è fatta ormai tutta personale. Ribatte, Pinna, anche sulla questione veline, rammentando che infinite volte sono stati i cronisti de Il Quotidiano Sardo a fornire le notizie sui lavori del Consiglio Regionale così come di quello Comunale ai loro più titolati colleghi de L’Unione, impediti di essere presenti alle sedute.
Augurata poi buona fortuna circa l’andamento dei processi intentati da chi s’è sentito diffamato dal giornale concorrente, e fatto appello nientemeno che al Melzi per difendere l’adottata coniugazione del verbo “ghiacciare” e contrastare quella proposta di “far agghiacciare” (!), Pinna conclude riferendosi proprio alla confessione spontaneamente portata da Crivelli riguardo alle situazioni in cui può trovarsi un giornalista che deve sostenere tesi non condivise: «Intanto noi non abbiamo avuto disavventure e poi non ci è capitato “quando eravamo agli inizi della professione… di difendere d’ufficio cause di cui eravamo, intimamente, tutt’altro che convinti”, né ricordiamo d’aver conosciuto in Sardegna “l’umiliazione [di] dover scrivere frasi che non si pensano e non si sentono”.
«L’amico Crivelli, invece sì, ha conosciuto tutto questo. La sua grave ammissione ci autorizza a ritenere che l’esperienza degli sfortunati inizi si sia stratificata in lui determinando l’affermarsi di un particolare abito mentale. La cittadinanza di Cagliari sa ora quale sia il responsabile morale dell’Unione Sarda, con quale profondo senso di responsabilità egli possa condurre una campagna di stampa, con quali precedenti egli osi bersagliare una persona. E’ molto triste per i sardi».
Da tale polemica un po’ di fioretto un po’ di spada merita ora estrapolare due corsivi entrambi attribuibili a Crivelli stesso, benché soltanto il secondo sia siglato. Intanto è da dire che nello stesso 1° agosto, sotto il titolo di cronaca “Denunciato un clamoroso episodio di speculazione sulle aree fabbricabili” una nota titolata “Quello che vogliamo” ha picchiato di nuovo sulla maggioranza e l’esecutivo: «Non siamo l’organo di una tendenza politica e le cose denunciate a carico della giunta democristiana avremmo detto chiunque si fosse trovato al governo della città, fascista o comunista. Ci sono i democristiani e con buona pace loro il bersaglio della polemica non possono essere che gli amministratori democratici cristiani… Che cosa ci proponiamo? In breve: di portare al centro dell’attenzione problemi e temi che parevano essere caduti nell’oblio…».
Nella già richiamata rubrica di prima pagina “Anticamera” ecco il 3 agosto la nota titolata “Ultima domanda”: «Un giovane redattore del “Quotidiano Sardo”, impermalito per non essere stato da noi preso sul serio, dopo averci rimproverato di non voler polemizzare sui fatti, ci dedica due colonne di contumelie di carattere personalissimo, tentando di sostenerle con una doviziosa trafila di sciocchezze, inesattezze e amenità di pretto sapore scolastico.
«Sarebbe fin troppo facile dimostrare a questo giovane polemista che, prima di definire un giornalista con quindici anni di professione sulle spalle “un illustre sconosciuto”, avrebbe fatto bene a consultare un qualsiasi “Chi è”; o andare a leggere sul suo conto quello che ne hanno scritto Renato Simoni e i più illustri critici italiani, quando Ruggeri e altri rappresentarono i suoi lavori. Ma non abbiamo né tempo né spazio da sciupare, per erudire i ragazzi sprovveduti e permalosi. Lo faremo, se mai, a voce, quando ci capiterà di incontrarli, amichevolmente, perché, malgrado una carriera già abbastanza lunga, non disdegniamo di discutere con chi ne è agli inizi.
«Agli amici del “Quotidiano Sardo” porremo solo un’ultima domanda: come mai, e per ordine di chi, dopo aver solidarizzato chiaramente con noi nella questione del palazzo del Viale Regina Margherita, e dopo aver dignitosamente taciuto su quella del Poetto, proprio oggi quando l’intero Consiglio Comunale ha fatto propri i nostri argomenti hanno così violentemente cambiato strada scendendo in campo, lancia in resta, contro di noi e in difesa della Giunta e del Signor Gaetano Usai?
«Gradiremmo una risposta in poche righe; col caldo che fa su certi infuocati mattoni è meglio mettere del ghiaccio».
Pronta viene la risposta dalle colonne del giornale di via San Lucifero. Con un titolo che è tutto un programma: “Professori d’importazione”. Eccone gli argomenti:
«Anzi che tentare di farsi dimenticare, il direttore dell’Unione Sarda insiste… Sebbene il tentativo ci abbia procurato manifestazioni di calorosa spontanea simpatia da parte dei colleghi di Cagliari, noi non possiamo non rivolgerci al pubblico isolano invocando la più serena considerazione di una simile condotta da parte di chi mostri d’aver scambiato un incarico in Sardegna con una missione colonizzatrice. I titoli li ha: giornalista professionista dal 47. Il “giovane redattore” al quale si è rivolto ancora ieri è al Quotidiano Sardo dal 20 ottobre del 1947. Ma sono episodi personali; ci sono gli altri titoli: è commediografo. Ciò sottintende la buona conoscenza della lingua italiana; fortunatamente egli non è geloso del suo sapere, tant’è vero che dopo averci ragguagliato sul verbo ghiacciare (ma fu una disavventura) ha scritto: “Non abbiamo tempo né spazio da sciupare…”. Ha scritto proprio così: disdegniamo con la i. Erudisca, dunque, ci erudisca pure.
«In breve. Egli annunzia ora che a quattr’occhi ci confiderà molte cose. Pettegolezzo per pettegolezzo: a quattr’occhi gli illustreremo i modesti motivi che hanno provocato le campagne sul Poetto e la difesa degli interessi cittadini in Piazza Costituzione ma non in Piazza Yenne … Ci costringe a dirgli: tu hai il dovere morale di provare pubblicamente l’insinuazione secondo la quale saremmo improvvisamente scesi in difesa del sub-concessionario del Lido, sig. Gaetano Usai, al quale noi mai abbiamo offerto il piacere di offrirci o negarci una cabina gratuita. Finché non lo farà sarà un professore senza cattedra. Comunque, quando avrà finito di abusare dei suoi poteri di direttore per svillaneggiare impunemente la grammatica italiana, potremo anche riprendere il dialogo».
Finalmente, e improvvisamente, scoppia la pace. Così L’Unione Sarda il 5 (titolo “Conclusione”): «Toccherebbe oggi a noi rispondere all’ultima nota de “Il Quotidiano Sardo” ma non desideriamo tediare i lettori con questioni così personalistiche e così scarsamente costruttive quali sarebbero purtroppo imposte dal tono ultimo della polemica. Abbiamo perciò preferito incontrarci privatamente col nostro antagonista e giungere, con reciproca cordialità, ad una franca chiarificazione. Nel corso della quale, dopo aver preso atto del nostro più che rispettabile passato professionale e dopo aver ammesso che il nostro “disdegniamo“ lascia viva e vegeta la ortografia italiana, il corsivista del “Quotidiano” ha avuto da noi assicurazione che parlando di mutato indirizzo del suo giornale non intendevamo fare insinuazioni ma, nel caso, solo prospettare un’interferenza d’ordine politico. A sua volta, il redattore del “Quotidiano”, preso atto di quanto siamo stati in grado di dimostrargli, si è impegnato a chiarire sul suo giornale, che mai il direttore dell’Unione Sarda ha chiesto, di persona o tramite altri, cabine al Lido; anche perché fin dal mese di maggio chi scrive aveva già regolarmente prenotata una cabina in un altro stabilimento.
«In questi termini la polemica si deve dunque intendere chiusa».
Della pace firmata (pur con tutte le riserve), riferisce nello stesso giorno, ancora in prima pagina, Il Quotidiano Sardo con il colonnino “Risposta ad una domanda”. Eccolo:
«In un leale amichevole incontro con il direttore dell’Unione Sarda è avvenuta fra noi e il dott. Fabio Maria Crivelli una leale chiarificazione. Veramente di buon grado poniamo fine ad una polemica che aveva assunto aspri toni e cogliamo l’occasione per una precisazione cui particolarmente teniamo. Ieri, nell’affermare, come è nostro legittimo diritto, di non aver dato al sig. Gaetano Usai “il piacere di offrirci o negarci una cabina gratuita”, intendevamo semplicemente rispondere all’ “ultima domanda” portaci dall’Unione Sarda, che sembrava volesse formulare una insinuazione, questa: che noi ci accingessimo a sistemare con una campagna di stampa le ragioni del sig. Usai per sottintese sue cortesie.
«Ben lungi dall’insinuare, dunque, intendevamo far rimarcare che il nostro atteggiamento passato e futuro sulla intera questione del Poetto, e del Lido in particolare, è stato e verrà assunto con assoluta indipendenza e con piena serenità di giudizio; né potevamo onestamente tentare un’insinuazione perché ci risulta che l’amico Crivelli neppure come privato cittadino ha richiesto al sig. Usai l’affitto di una cabina.
«Ma ciò che ci preme precisare è questo: che per il nostro giornale non la sola questione delle sub-concessioni del D’Aquila e del Lido deve essere affrontata definitivamente ma tutto l’ormai vasto problema costituito dalla situazione creatasi sull’intera spiaggia del Poetto, sulla quale situazione da lungo tempo il nostro giornale si è pronunciato, e, come è documentato, non ha mai riveduto la sua posizione».
Venerdì 6 agosto L’Unione Sarda canta vittoria, riferendo su molte colonne: “Voto unanime al Consiglio per le concessione del Poetto al Comune”. Naturalmente con commento riquadrato per risaltare con la grafica l’importanza dell’oggetto: “Legittimo compiacimento” è il titolo, ed il passo centrale recita: «l’assoluta prevalenza dell’interesse pubblico nei confronti delle personalistiche esigenze dei sub-concessionari è stato il caposaldo sul quale si è imperniato tutto il problema».
Una conclusione si impone. Dalla parte avuta nella polemica emergono, della personalità del giovane direttore de L’Unione Sarda presente sulla scena cagliaritana da appena sette mesi, ma di essa già ampiamente padrone, alcuni aspetti meritevoli di essere rimarcati. Sul piano caratteriale, o della sua personalità, colpisce il doppio livello, della attitudine alla polemica nella scrittura e però anche, in savio bilanciamento, della propensione a comporre nella relazione professionale, cioè di colleganza, ove possibile, ogni ragione di scontro. Fondamentalmente uomo di pace, temperante, Crivelli non può impedirsi di difendere le opinioni sue (e/o quelle condivise con i suoi redattori che, ben si può immaginare dati anche i numeri ridotti della compagine, lo sostengono informandolo anche sul contesto per quelle pieghe a lui ancora in parte ignote) sul merito dei fatti: per questo modula il contraddittorio, ne smorza i toni quando riconosce una sostanziale buona fede in chi lo contrasta, s’infastidisce platealmente quando la polemica si fa personale, rispondendo per le rime. Se il contrasto esce dai limiti convenzionali, difende quanto sa e può. Non senza qualche forzatura: perché quando attribuisce a sé quindici anni nella professione, è chiaro che… arrotonda alle prime prove studentesche di novelliere ospitato su La Tribuna… Per il resto gli anni sarebbero nove soltanto – dall’esordio sulla prima pagina di L’Epoca, nel l’autunno 1945 – oppure sette, a contare dalla iscrizione all’Ordine professionale. Ma il polemista si vede anche qui, nella disinvoltura dell’autodifesa, nei rapidi tocchi dialettici che sanno portare risultato.
Più sostanziale è invece l’orgoglio che sfoggia, nell’occasione datagli, riguardo alle sue produzioni teatrali. Il richiamo dei nomi del grande Ruggeri e di Simoni – indubitabilmente fra i maggiori critici nazionali – basta a rendere la misura della importanza ch’egli annette, nella sua biografia presente, alle proprie performances autorali, riconosciute ed apprezzate da chi ha competenza ed autorevolezza per dare le pagelle. Resta impregiudicato se egli, in questa fase della sua vita e della sua carriera giornalistica, consideri il proprio talento di commediografo già tutto speso, e del quale magari farsi legittimo onore, oppure – com’è mia opinione – se aspetti il momento propizio per nuove prove che, nella dimensione della scrittura per palcoscenico – riposata per definizione –, valgano a bilanciare e ristorare il ritmo bruciante del lavoro di cronista, riossigenandone la capacità inventiva impedita ovviamente nel quotidiano cimento professionale che deve guardare soltanto ai fatti per come sono.
Resterebbe, in ultimo, da formulare un’osservazione sulla confessione che, non estorta, egli ha presentato al suo antagonista (e coetaneo, che avrà – in quanto giornalista militante o organico al Biancofiore – un futuro a Il Popolo). Di avere nei suoi trascorsi qualche colpa, quella di aver sostenuto cause non sentite ma imposte dalla direzione o dall’editore. Riferimento a chi? Forse a L’Epoca di Repaci – personalità da Crivelli venerata anche in vecchiaia – o a Il Momento di Tommaso Smith, prima di passare a Il Giornale d’Italia? Manca la risposta.
I processi, la libertà di stampa e «l’amore alla propria città». Saranno ben più di uno, s’è detto, i processi che, nel corso della sua carriera, vedono e vedranno Fabio Maria Crivelli costretto a difendersi dall’accusa di diffamazione a mezzo stampa. Il primo, anzi i primi, sono quelli chiamati a palazzo di Giustizia già nello stesso inaugurale 1954. Capitano in piena estate, a luglio, quando di mezzo c’è una volta quella certa proroga (ritenuta irregolare)delle sub-concessioni dell’arenile del Poetto ed un’altra la costruzione di un palazzo troppo alto nel sinuoso e spazioso Stradoni (quel viale in cui per un quarto di secolo il giornale ha avuto la sua redazione e la sua tipografia: nella casa di Pietro Marini, zio del celebre pietrificatore, in faccia al Cerrutti e a La Scala di Ferro).
Il giornale nel restyling di stile e contenuti introdotto dal nuovo direttore si è dato a denunciare abusi o forzature, invero più dell’Amministrazione civica che dei privati, i quali degli atti comunali sono certo i beneficiari, chissà se anche gli ispiratori. Esso ne ha avuto immediato consenso da parte dei lettori, ma naturalmente ne ha anche presto cominciato a pagare i prezzi in termini di querele. Talvolta anche con seguito di controquerele, esposti all’Associazione della Stampa, supplementi di polemica fra testate…
Basteranno alcuni cenni ed il richiamo a qualche documento. Quel che importa è adesso di dare la misura dello spessore delle cause e anche della ricaduta che queste ultime hanno tanto nella città quanto nello specifico campo giornalistico isolano.
Il palazzo del viale Regina Margherita è tanto alto da pareggiare addirittura la terrazza del bastione di San Remy e togliere la visuale del mare agli edifici che pur s’alzano, avvantaggiati, nella piazza Costituzione e vorrebbero legittimamente continuare a gustarsi il panorama.
Un noto professionista cagliaritano – l’ing. Gaetano Lixi – ha scritto al sindaco, al presidente della Regione, al prefetto, al sovrintendente ai monumenti, al ministro alla Pubblica Istruzione, deplorando l’approvazione, da parte dell’Ufficio Tecnico Comunale, di un progetto ritenuto incongruo, sciagurato anzi. Giunta in redazione la lettera-esposto è stata ampiamente commentata e rilanciata dalle domande critiche, indirizzate all’Amministrazione, dal cronista incaricato della rubrica “Terrapieno”. Di qui la querela presentata dagli impresari Trois e Artizzu, assistiti dagli avvocati Mauro Angioni e Agostino Frau.
E’ del 27 giugno (precedente dunque alla querelle con Il Quotidiano Sardo) un corsivo direttoriale che racconta i fatti ma ancor meglio descrive stati d’animo d’un imputato e principi deontologici, diritti e doveri di un giornalista. Il titolo è interrogativo ed ovviamente retorico: “E’ reato difendere gli interessi del pubblico?”, mentre l’occhiello reca “A proposito di una querela contro il nostro giornale”. Eccone larga parte del testo che merita la ripresa perché vale qui, splendidamente, anche il lessico scelto (e anche perché – sia detto anticipando qualche conclusiva riflessione – sarà proprio per la difesa della propria autonomia professionale che il direttore un giorno – l’ultimo del 1976 – perderà la sua poltrona):
«Mercoledì prossimo dunque, per la prima volta nella nostra vita, dovremo sedere sul banco degli imputati, nell’aula di un tribunale; aggiungeremo una nuova esperienza alle molte di cui è ricco il nostro passato professionale.
«Considerando la legislazione vigente in materia di libertà di stampa, la vicenda, nei suoi limiti giudiziari, non meriterebbe, probabilmente, neanche un breve commento. Ogni giorno che passa, il verbo “querelare” diventa di uso sempre più diffuso, più popolare, fino a divenire parte integrante di un costume che alle antiche concezioni di probità, serietà, coscienza, va sostituendo l’abuso della carta bollata; che alla mancanza di argomenti supplisce con una sommaria interpretazione del codice, e che affida la difesa delle varie onorabilità non a serene contemplazioni delle ragioni o dei torti ma a semplicistiche chiamate in causa della Legge, che per molti diventa così, in questi casi, una specie di roulette sulla quale si può anche imbroccare il numero giusto. Tutti “si querelano” oggi; e che il sistema vada sempre più prendendo piede lo sanno bene i nostri colleghi più anziani, tutti i direttori dei giornali italiani, molti dei quali sarebbero da gran tempo nelle accoglienti celle dei penitenziari italiani se, per nostra fortuna, a rimediare alle manchevolezze o alle imperfezioni legislative non pensassero i nostri Magistrati, con le loro tradizionali doti di equità e di saggezza.
«Se parliamo una volta tanto di un nostro caso personale è, dunque, per motivi che vanno oltre i limiti della vertenza giudiziaria. L’accusa della quale dovremo mercoledì rispondere è questa: l’aver pubblicato sul giornale che dirigiamo la lettera di un onesto e stimato cittadino cagliaritano che intendeva pubblicamente esprimere lo sdegno di migliaia di altri cittadini contro l’abuso perpetrato dai costruttori del palazzo nel Viale Regina Margherita. I nostri lettori conoscono già la questione. Si tratta di un arbitrio che ha sollevato e continua a sollevare una implacata ondata di proteste per l’offesa che questa costruzione reca ad uno dei più preziosi panorami cittadini: il patrimonio panoramico. La lettera che noi pubblicammo – e che era indirizzata oltre che a noi alle alte autorità statali e regionali – era una fra le centinaia giunteci in quei giorni. Pubblicandola intendemmo soltanto assolvere un nostro preciso dovere giornalistico: quello di fare del nostro giornale il fedele portavoce degli interessi del pubblico…
«Quando sei mesi fa, assumendo la direzione di questo giornale, scrivemmo che la nostra prima ambizione era quella di fare de “L’Unione Sarda” il giornale che veramente rappresentasse la voce dell’Isola e fosse il difensore degli interessi di tutti i Sardi, molti, forse, pensarono che quelle erano solo le solite frasi d’occasione. Le lettere che da mesi ci giungono quotidianamente – via via che il nostro giornale tocca problemi vitali e di interesse generale, e affronta con decisione, liberamente, senza mezzi termini, discussioni e polemiche attorno a questioni da anni in attesa di soluzione, o attacca privilegi, illeciti, irregolarità, arbitrii, errori, deficienze di ogni genere – stanno a dimostrare che il nostro programma era quello che i lettori attendevano. E i consensi entusiastici che ci giungono sono il solo premio alla nostra fatica, il compenso per certe sorde resistenze, per certi non chiari ostruzionismi, per certe sotterranee manovre che costituiscono l’altro lato del fronte: quello formato da coloro che per i più svariati motivi non digeriscono un giornale libero, che sono pronti a ricorrere a tutti i mezzi per poter vivere indisturbati, che non gradiscono il nostro intervento ogni qualvolta questo turbi i loro personali interessi.
«La querela dei costruttori del Viale Regina Margherita non è che un primo episodio, probabilmente, in una battaglia in cui sono in gioco gli interessi generali della cittadinanza contro i privilegi, il malvolere, l’egoismo, l’arbitrio di pochi. Stando infatti alle voci che circolano in questi giorni al Poetto (ma di cui non abbiamo nessuna conferma dalla sola fonte degna di fede) un altro processo ci attende: quello promosso da un proprietario balneare per i nostri articoli sulla questione delle concessioni sull’arenile cagliaritano. La strada della verità, è chiaro, non è la strada più comoda con i tempi che corrono. Ma abbiamo buone e lunghe gambe; e ci rifiutiamo di ritenere reato la difesa dei più sacrosanti diritti della cittadinanza.
«Questo, insomma, ci premeva dire ai nostri lettori alla vigilia di questa nostra prima e probabilmente non ultima esperienza giudiziaria: che non sarà il sistema della carta bollata né la moda “querelistica” ad arrestarci nel programma annunciato. Migliaia e migliaia di cittadini hanno testimoniato con il loro interesse e con la loro approvazione che le campagne iniziate dal nostro giornale rappresentano l’unico e concreto avvio alla soluzione di problemi urgenti e indifferibili. Finché questi problemi, e altri di cui ancora non abbiamo parlato, non saranno risolti, continueremo ad usare fino in fondo di quel diritto di critica che la Costituzione ci accorda.
«E’ con la serena coscienza di aver semplicemente adempiuto ad un nostro dovere che siederemo, dunque, mercoledì sul banco degli imputati. Perché noi nella Giustizia ci crediamo sul serio; e non come coloro che con troppa faciloneria sfogliano il codice penale dopo aver dimostrato tanto poco rispetto per la Legge da provocare contro se stessi una ordinanza comunale. E siamo fermamente convinti che la Giustizia anche questa volta insegnerà a questi neofiti della carta bollata che non basta pagare le parcelle di un buon avvocato per farsi beffe di migliaia di cittadini offesi in uno degli affetti più tradizionali: l’amore alla propria città».
Come finisce? Finisce, il processo, con un’assoluzione. “Assolti con formula piena il nostro Direttore e l’ingegnere Lixi”, spara su sei colonne il giornale, nella pagina della cronaca cittadina, il 4 luglio. Sommario: “I querelanti condannati al pagamento delle spese – Il P.M. definisce ‘mostruoso’ il palazzo in costruzione – Brillanti arringhe degli on.li Cocco Ortu ed Endrich e dell’on. Angioni di parte civile”.
Dal resoconto del dibattimento pare utile stralciare almeno la sintesi della deposizione rilasciata dall’imputato: «Sull’argomento ho ricevuto molte lettere, che riflettevano l’orientamento dell’opinione pubblica. Tra le tante ho preferito pubblicare quella dell’ing. Lixi: perché scritta da un tecnico e perché rivolta alle Autorità. Non conoscevo gli impresari e del resto m’importava solo del fatto che è abusivo, come risulta dal comunicato del Municipio. Aggiungo peraltro che se i querelanti mi avessero scritto per chiarire le loro ragioni io avrei pubblicato la loro lettera: come avevo già fatto con la SPES, da noi e dallo stesso Municipio ritenuta proprietaria dell’edificio».
Interessanti e anche simpatici alcuni passaggi delle arringhe degli avvocati difensori. L’on. Cocco Ortu, patrono di Crivelli, ricorda: «“L’Unione Sarda” aveva già iniziato la sua campagna quando il dott. Crivelli pubblicò la lettera dell’ing. Lixi: era una lettera indirizzata alle massime autorità ed il giornalista doveva dare notizia al pubblico di quanto era successo; doveva dare pubblicità al documento perché nessuna autorità si sottraesse al suo dovere d’intervenire. Dov’è l’animus diffamandi?». E il sen. Endrich, per il suo patrocinato ing. Lixi: «Persino le massime autorità della Regione si proclamano per iscritto solidali con l’ing. Lixi, questo presunto criminale. Volete condannarlo? E volete condannare un giornalista degno di questo nome che è stato sensibile alla protesta elevata dall’opinione pubblica? Oh certo. Finché il giornale è un diafano e scialbo bollettino nessuno protesta. Ma lei caro Crivelli (e non lo dico per procurarmi la sua amicizia poiché molti sono gli amici che non mi danno il voto) lei ha dato al giornale dei sardi un dinamismo nuovo: ne ha fatto per virtù sua e dei suoi collaboratori, giovani ma anch’essi giornalisti degni di questo nome, un centro da cui si irradiano idee nuove, coraggiose, giuste. Ora, signori giudici, il paradosso è questo: che i signori Trois e Artizzu, i quali hanno commesso un abuso accertato denunziabile ai magistrati, siedono qui in veste di accusatori E chi l’abuso ha rilevato è in veste d’imputato. Il mondo alla rovescia».
Sarebbe anche da dire che, in materia di «edifici… provvisori» e di concessioni o autorizzazioni rilasciate dall’Ufficio Tecnico Comunale e anche dell’azione di controllo sugli atti amministrativi come sulle costruzioni materiali in esame (altre se ne rilevano addirittura in via Roma), il giornale continua la sua campagna fatta soprattutto di “ospitate” in sana e fruttuosa dialettica fra di loro, fra operatori tecnici e responsabili degli uffici municipali o anche amministratori (si riparte l’11 e il 22 agosto…).
Un esposto o controquerela, stavolta da Cagliari a Sassari. L’accenno alla proroga delle sub-concessioni comunali al Poetto presente nelle polemiche di fine giugno/inizio luglio fra L’Unione e Il Quotidiano Sardo, ha anch’esso un risvolto che impressiona fortemente i rapporti fra redazioni. Stavolta però fra L’Unione e La Nuova Sardegna, che pur sembrerebbe estranea – dato il suo range sassarese – ad una tale contesa. Perché? Perché il querelante – quel Gaetano Usai gestore del Lido beneficiario delle sub-concessioni passate e di quelle prorogate dal Municipio – ha chiesto il patronato legale nientemeno che all’avv. Arnaldo Satta-Branca, direttore de La Nuova Sardegna! Con la conclusione che l’imputato Crivelli si trova torturato da una controparte rappresentata dal suo collega-concorrente di maggior nome nell’Isola!
Il caso sembra senza precedenti, almeno in Sardegna. E per questo il direttore de L’Unione Sarda ne interessa tempestivamente i vertici della Federazione Italiana della Stampa e dell’Associazione Romana della Stampa, Crivelli. E’ il 17 luglio 1954. L’indomani il giornale ne dà conto in prima pagina, in cui riporta integralmente l’esposto (titolo “In margine alla querela per gli articoli sul Poetto. Un vergognoso caso di scorrettezza professionale”):
«Nella mia qualità di giornalista professionista e di Direttore del quotidiano “L’Unione Sarda” ritengo doveroso portare a conoscenza degli organi professionali e di tutti i colleghi un episodio che ritengo sommamente lesivo degli interessi morali di tutta la categoria e che costituisce, a mio avviso, una patante violazione dei più elementari principi di correttezza e di colleganza giornalistica.
«A seguito di una campagna di stampa del mio giornale su un problema di interesse cittadino, campagna che ha riscosso i più vasti consensi della pubblica opinione, sono stato querelato, nella qualità di direttore responsabile, dal proprietario di uno stabilimento balneare che si è ritenuto diffamato da alcuni di questi articoli. Il processo, fissato per oggi 17 luglio, è stato rinviato al 24 di questo stesso mese.
«Stamane, in udienza, si è costituito come avvocato della Parte Civile, l’avvocato Arnaldo Satta-Branca, direttore responsabile del quotidiano sassarese “La Nuova Sardegna”. Lo stesso Satta-Branca ha steso la querela con la quale vengo chiamato a rispondere di diffamazione continuata a mezzo della stampa. Sabato prossimo verrò, dunque, a trovarmi di fronte, come difensore della parte avversa, un avvocato che come direttore di un altro quotidiano e come giornalista dovrei considerare un collega.
«Chiedo di conseguenza ai colleghi chiamati a tutelare gli interessi dell’intera classe giornalistica: 1) Come è possibile che Arnaldo Satta-Branca possa esercitare la professione di avvocato ed essere contemporaneamente investito della responsabilità di direzione di un quotidiano? Come può avere ottenuto la necessaria iscrizione all’Albo professionale dei giornalisti? 2) Può essere tollerato dai nostri organi professionali e dall’intera classe che un giornalista professionista trascinato in tribunale per fatti inerenti all’esercizio della sua professione si trovi di fronte, come accusatore, un altro giornalista, anche lui direttore di giornale, che dimenticando questa sua qualifica tranquillamente sostenga, come avvocato, le ragioni dei querelanti?… ».
Al testo così riprodotto, lo stesso Crivelli fa seguire un commento. Questo: «Sabato prossimo, dunque, torneremo davanti ai Giudici: e lo faremo con la cosciente severità di chi sa di non aver commesso alcun reato, di non aver diffamato nessuno e di aver solo voluto prospettare, valendosi della libertà di stampa, alcuni lati di una questione che ha sollevato unanimi proteste in città. Oltre tutto noi abbiamo solo voluto polemizzare con gli organi comunali, avvertendo chiaramente che i privati sub-concessionari non ci interessavano in quanto persone. Di tutto ciò, ad ogni modo, torneremo a parlare ampiamente a suo tempo.
«Quella che non potevamo differire era invece la denuncia agli organi professionali di un vergognoso caso di scorrettezza giornalistica. Noi sappiamo benissimo che voler fare un giornale libero, che veramente difenda gli interessi di tutti i cittadini contro gli arbitrii e gli interessi dei pochi ma dei più potenti, non è né comodo, né facile. Indubbiamente è molto più facile ignorare le proteste della grande massa, composta da cittadini umili e inermi, e tenersi buoni coloro che più sono in grado di far pesare, in mille modi, la loro amicizia e la loro inimicizia. Noi sappiamo benissimo che la verità spesso scotta, e che la strada scelta ci procura sì il consenso della sempre più grande famiglia dei lettori ma anche il rancore di chi, toccato nei suoi interessi, può in tanti modi recarci dei fastidi. Tuttavia questo non ci preoccupa minimamente: consideriamo tutto ciò come un preciso dovere inerente alla professione che abbiamo liberamente scelto.
«Abbiamo però oggi scoperto che esiste anche qualche giornalista (ma è il caso di usare questo termine?) il quale non solo è di diverso avviso sul modo di adempiere a questo nostro dovere, ma anzi chiaramente preferisce schierarsi dall’altra parte e avvalendosi di una doppia qualifica professionale indossa la toga per difendere chi è in grado di pagar ricche parcelle, allegramente, infischiandosi degli interessi di un’intera città e dei più elementari principi della correttezza giornalistica che pur dovrebbe conoscere, essendo iscritto, magari solo per un rivedibile caso, alla nostra categoria.
«Per questo abbiamo voluto denunciare l’episodio ai nostri organi professionali; soprattutto in difesa del buon nome della nostra professione.
«Resterebbe ora da chiederci con quale dignità e quali risultati il Signor Satta-Branca, avvocato-giornalista, possa dirigere un giornale, dopo aver così esplicitamente manifestato i suoi principi in fatto di libertà di stampa e dimostrando un così manifesto disprezzo nei confronti degli interessi e dell’opinione del pubblico. Ma è probabilmente una domanda superflua. La risposta migliore possono darcela i sempre più striminziti bollettini di tiratura del quotidiano sassarese che egli così brillantemente e con così profonda coscienza giornalistica dirige».
Quali gli sviluppi? Allo stato delle ricerche non ho completo il quadro (mi darà notizie l’Associazione della Stampa Sarda) ma è certo che alla udienza fissata per il 24 luglio l’avv. Satta-Branca non presenzia e viene sostituito dal collega avv. Franco Massacci, il quale chiede al Tribunale la formalizzazione del fascicolo, il che precede, di norma, la remissione della querela.
Il ritiro di Satta-Branca può anche essere implicito riconoscimento delle chiare ragioni del direttore de L’Unione Sarda, non valutate appieno, sotto il profilo deontologico, dal direttore e comproprietario del quotidiano sassarese. Sarebbe peraltro da dire che Satta-Branca è, a La Nuova Sardegna, dominus morale ma di fatto estraneo alla sua cucina, piuttosto affidata a Frumentario, cioè al redattore capo Aldo Cesaraccio (che ne prenderà anche formalmente il posto alla morte avvenuta, dopo lunga malattia, nel 1976).
Egli è stato, nel fronte della buona borghesia turritana di estrazione radicale, un democratico autentico, ed è da credere che soltanto la sgradevolezza dell’episodio del 1954 (da lui giustamente denunciato) e la non conoscenza personale dell’uomo, abbia indotto Fabio Maria Crivelli a giudizi così crudi. Meriterebbe ricordare infatti come, giovane ufficiale sassarino ferito al fronte, abile e instancabile (con Michele Saba)promotore delle iniziative di assistenza civile e di protezione dei reduci dal fronte, Satta-Branca fu antifascista, resisté all’assalto dei dark mussoliniani che imposero, dopo infiniti sequestri ed incendi, la chiusura del giornale di cui era il direttore, per riprendere poi il mestiere fra il 1944 e il 1945 a L’Isola ormai a controllo della Concentrazione antifascista, risvegliando infine, nel 1947, La Nuova Sardegna, di cui conservava la maggioranza azionaria. (Tutto ciò all’opposto di quanto, nel parallelo temporale, avveniva a Cagliari con L’Unione Sarda sorcinelliana: dal 1920 con i duri e puri del manganello squadrista, dal 1925 – dopo la morte dell’avv. Ferruccio – con i fasciomori del conformismo di regime).
Sarebbe anche da dire che, riassunta come attività professionale esclusiva l’avvocatura negli anni della dittatura, Satta-Branca – alla ripresa democratica che l’aveva visto unanimemente prescelto dall’eptarchia ciellenista per le funzioni di direttore del quotidiano locale – non aveva dismesso la toga sentendosi intimamente ancora legato a quel certo mondo che riconosceva… le compatibilità fra gli incompatibili soltanto per la superiore integrità morale dei protagonisti.
Un rapido spoglio, le pagine e i nomi. E’ Vitale Cao a trasmettere i pastoni politici da Roma. Un sardo nella capitale legato alla storia e alla vita del giornale. Nativo di Ittireddu, ufficiale sassarino nella grande guerra, funzionario camerale a Cagliari e, negli anni del secondo conflitto mondiale, addetto ministeriale a Roma (all’Ufficio regionale della presidenza del Consiglio), è stato di fatto il direttore de L’Unione Sarda per un decennio, fra 1929 e 1939. Muore improvvisamente nell’estate 1958: nel suo nome paiono raccordarsi le famiglie de L’Unione Sarda di prima e di dopo la tragedia bellica, quella del tempo del partito unico e questa che è soggetto di prim’ordine di una democrazia pluralista. Così è stato anche, nel novembre 1951, quando ad andarsene è stato Nando Sorcinelli, l’abile ed intelligente presidente della SEI.
Nel giro di uno o due anni il giornale acquisisce una squadra di editorialisti del circuito nazionale cui esso aderisce: sono esperti di politica estera e politica interna ed economica soprattutto – compresi i sardi Marco Trudu e Ignazio De Magistris (questi per materie isolane), il liberal-federalista Armando Zanetti, l’economista liberale Giuseppe Alpino, Italo Zinagarelli (già corrispondente estero del Corriere della Sera e de La Stampa, nonché anche direttore de Il Globo), Guglielmo Peirce (l’artista e scrittore comunista deluso, passato poi alla stampa moderata e al Borghese di Longanesi), Alberto Giovannini (notista e saggista dalle molte vite fra trascorsi fascisti e suggestioni socialiste), Giuseppe Sardo, ecc. –, ai cui fondi naturalmente il direttore aggiunge, pressoché settimanalmente, i suoi.
Ma la novità non è ancora o non tanto nel notiziario nazionale od estero o nei commenti ai grandi fatti del mondo. Essa è piuttosto visibile, fin dai primi tempi, nell’informazione dai territori isolani che mostra lo sforzo di radicare il giornale nelle abitudini di lettura del pubblico della provincia, o delle province, fornendo loro giustamente interesse e motivo di fidelizzazione.
A scorrere le annate del 1954 e magari del 1955 o 1956 si rileverebbe facilmente la progressività che il programma editoriale s’è dato come obiettivo, non soltanto di coprire con il notiziario anche le più modeste comunità locali, ma perfino di marcare, nella impaginazione, con i titoletti di zona, gli ambiti territoriali delle cosiddette sub regioni, fra l’Iglesiente e la Trexenta, l’Oristanese – tanto più in tempi di vivace rivendicazione della quarta provincia – e il Marghine-Planargia, per non dire, come già s’è accennato, dei più problematici Goceano-Logudoro, Algherese, Gallura fra Tempio ed Olbia, Nuorese ed Ogliastra… Senza illusioni di sfondare, si ripete, ma non di meno nella convinzione che sia un dovere tentarci.
Potrebbe dirsi che già nel 1954 a Sassari la redazione è affidata a un giovane di talento che avrà un futuro nella politica sardista e repubblicana, Nino Ruju, per passare poi ad un altro giovane intellettuale di valore (anch’egli nato mazziniano!): il portotorrese Filippo Canu. Presto si aggregheranno come collaboratori il cagliaritano Paolo Fadda ed il tempiese Manlio Brigaglia, giovane professore di solidissima cultura storica e, insieme, efficace divulgatore che dà prova di sé anche come osservatore civico, siglando gustosi corsivi nella rubrica “Grattacielo”. Già dal 1955 la sua firma è comunque frequente anche in prima pagina, come cronista sovente di nera. Fra i collaboratori di questa prima stagione di riforma crivelliana è anche – reduce dal congresso universitario ORUC/ORUS all’Eden di Cagliari – il ventenne Vindice Ribichesu, il quale svilupperà poi il grosso della sua carriera a La Nuova Sardegna e quindi all’Ufficio stampa del Consiglio Regionale. A Nuoro invece tocca a Nino Tola, maturo avvocato di simpatie monarchiche (sarà anche, alla fine degli anni ’50, consigliere regionale del PNM), già collaboratore alla pagina sarda de Il Giornale d’Italia, grande esperto di banditismo, purtroppo all’ordine del giorno della cronaca dalle zone interne.
Insieme con questo salta agli occhi, immediata, fin dalle primissime settimane della sua direzione, la cura che Crivelli porta al notiziario del capoluogo, affidato fortunatamente a penne abilissime, prima fra tutte quella di Antonio Ballero, al giornale ora già da trent’anni. Ballero, colui che con Alziator sarà, per il verso cittadino, la guida del giovane “capo”curioso dei segreti della sua nuova residenza, compila anche, firmandosi semplicemente “Il Cronista”, la rubrica “Terrapieno”, nel taglio basso della pagina cittadina. E’ il segno più evidente di un giornale che vuol farsi difensore civico o megafono nei confronti dell’istituzione comunale (e non solo), nella tutela di cittadini dimenticati o maltrattati nella condizione delle case o delle strade o dei servizi.
Cagliari conta, all’esordio della direzione Crivelli, s’è detto, poco meno di 150mila abitanti, che aumenteranno di ben 20mila dopo soltanto un lustro, al nuovo censimento 1961. Per dire dell’accelerazione demografica del capoluogo divenuto polo centripeto dopo che qui si sono radicati gli uffici regionali i quali hanno chiamato, con gli impiegati, tutto quel certo terziario – tra tutti, i baristi (non soltanto ogliastrini e seuesi in particolare) – che fa corona e spettacolo attorno alla piccola burocrazia. Di tutto è fedele registrazione la pagina della cronaca locale con il notiziario e con le inchieste sulle trasformazioni cittadine.
Con Ballero, come anche con Alziator, ecco Mario Pintor, segretario di redazione al suo tavolo ogni pomeriggio e sera, dopo la mattina passata nell’altro ufficio ch’egli presidia alla Camera di Commercio. Prolifico di articoli non meno che di figli che lo faranno cento volte nonno, Pintor assicura al giornale un numero incredibile di pezzi di storia minore o tradizioni popolari e piccoli corsivi evocativi di uomini e luoghi (di rilievo la rassegna toponomastica, che ciclicamente ritorna con gli aggiornamenti legati anche alla espansione urbanistica del capoluogo) che hanno marcato la singolarità cittadina nell’arco di tremila anni, dai fenici agli italiani. Nel novero non mancano quelli, ripetuti ogni anno (ma mai doppioni l’uno dell’altro), riguardanti i territori giuliani e istriani conosciuti durante la guerra 1915-18, i quali inevitabilmente stimolano le nostalgie di un direttore che in quelle parti d’Italia ha le sue radici spezzate.
Ma le firme che compaiono ora in cronaca ora nella quinta pagina, all’inizio omnibus poi in crescendo riserva degli spettacoli – rubrica, quest’ultima, che tende a farsi pure essa, in progress, spazio-pagina – sono anche altre, e di valore: i due Fiori in particolare, Peppino e Vittorino (assunti già da qualche anno e raggiunti presto da autentiche istituzioni come Tatano Ponti – gemello per anagrafe del direttore – e il più giovane Gianni Filippini, mandato all’inizio a far giudiziaria e cronaca sportiva in abbinata a L’Informatore). Sono versatili nel loro talento: firmano inchieste sulla qualità dei servizi pubblici in città (e non soltanto in città), ma firmano anche cronache delle stagioni ospitate all’anfiteatro, magari anche del Veglione di carnevale promosso ogni anno da L’Unione Sarda… firmano recensioni teatrali o cinematografiche, che diventeranno anche televisive di qui a poco (è tempo, infatti, di preparazione al debutto della televisione di Stato!) . E per intanto bisogna dar conto dei risultati referendari, ora per i concorsi di Radio Cagliari ora per il campanile d’oro o il nuraghe d’argento che mobilitano in entusiasmo paesano migliaia e migliaia di sardi…
Colpisce, del 1954 e degli anni successivi, per l’insistenza dei pezzi che ne trattano nelle pagine di cronaca, la drammatica epidemia della poliomielite che colpisce progressivamente un numero impressionante di bambini. Ci vorranno ancora dieci anni per vincere, con le vaccinazioni di massa, il terribile morbo.
La terza pagina che pur godrà di collaborazioni pregevoli di intellettuali sardi – da Nicola Valle a Marcello Serra, da Mario Ciusa Romagna (uno fra i più convinti sostenitori del premio Deledda nel 1952) al fedelissimo Salvatore Cambosu (il quale, presente nella famiglia del giornale già dai tempi della direzione Spetia , inizia nel 1954 una rubrica settimanale dal titolo “Gazzettino delle lettere” ), da Francesco Alziator, presentissimo anche nella cronaca cittadina con gustosi quadri cagliaritani sospesi sempre fra il passato e il presente ed autore proprio nell’anno di una originale e corposa “Storia della letteratura di Sardegna”, a Francesco Masala, critico d’arte e non solo di letteratura , ad Attilio Mastino (medico-scrittore), ecc. –, raccoglie ogni giorno due o tre articoli di quel novero di scrittori i cui pezzi giungono dal circuito nazionale e d’agenzia al quale, come per la grande politica, aderiscono numerosi giornali di provincia e di analogo orientamento, illustrando narrativa e monumenti, personaggi e costume, romanzi e storia o archeologia, e religione e geografia, ecc. (ho contato, nel decennio 1954-1963, ben 146 firme abbonate).
Non è ancora tempo di pagine speciali, ma neppure esse tarderanno molto: si comincerà con gli inserti vacanzieri, con i consigli per le escursioni familiari (seguendo tracciati sulla cartina provinciale, nella sequenza dei diversi territori dell’Isola), con le ricostruzioni – efficacissime anche sul piano grafico per l’ampio ricorso anche alla fotografia – delle maggiori feste religiose e folcloriche, da Sant’Efisio al Redentore, alla Cavalcata… Si arriverà agli speciali letterari, e perfino alla pagina della donna affidata a Clara Sorcinelli..
Le firme regionali chiamate a bilanciare quelle nazionali sono fra le più prestigiose: alcune vengono direttamente dalle facoltà umanistiche dell’Università (fra breve in trasferimento da via Corte d’Appello a sa Duchessa), altre riportano a casa i sardi entrati ormai nel gran giro italiano, come Giuseppe Dessì – che pubblica, in un decennio, un’ottantina fra elzeviri e (soprattutto) racconti – e come l’ispanista Mario Pinna (anch’egli, come Dessì, del gruppo ferrarese di Giorgio Bassani).
Si tratta di collaborazioni di grande prestigio che il giornale dovrebbe oggi, forse, sulla scia di quanto fatto con il volume-raccolta dei contributi (una parte assolutamente marginale) di Salvatore Cambosu, recuperare riunendo in una collana editoriale quanto essi hanno offerto, nel tempo, al vasto pubblico de L’Unione Sarda.
Va soggiunto, in questa rapida – troppo rapida – ricognizione, che sempre maggior spazio, col tempo, i resoconti quasi stenografici dei dibattimenti in svolgimento presso le Corti d’Assise, o nella Corte d’Appello di Cagliari, per i più efferati crimini del banditismo o di una follia esplosa all’improvviso. Si sa che questo è un filone d’interesse del pubblico, e il giornale lo seconda .
Le partite dei rossoblu teletrasmesse via telefono. Nel 1954 il Cagliari gioca in serie B ed è allenato da Cenzo Soro che ha rilevato la squadra da Federico Allasio (già centrocampista del Torino e del Genoa, e a Cagliari come allenatore dal 1951). Alla penultima giornata di campionato (quello 1953-54) la squadra ha 40 punti alla pari con la Pro Patria di Busto Arsizio, provincia di Varese, segue il Como con 39. In testa alla classifica, con 43 punti, è il Catania che matematicamente è già in A e cui tempestivo e sportivo – e anche per giusta fraternità isolana – giunge un caloroso messaggio di complimenti e auguri della dirigenza cagliaritana. Si tratta ora di vedere se il campo dirà che la seconda promossa debba essere il Cagliari o la Pro Patria.
Domenica 23 maggio penultima di campionato il Cagliari è sconfitto 1 a 0 dal Fanfulla, sul campo di Lodi. Giocano con i colori rossoblu Santarelli in porta e Bersia, Simeoli, Villa, Bertoli, Morgia, Mezzalira, Torriglia – che farà molte stagioni in Sardegna – Lorenzi, Gennari e Frugali. L’Unione Sarda ha organizzato una teletrasmissione della cronaca. Dove il prefisso “tele” riguarda il telefono e non certo ancora la televisione! Dalle ore 16 un cronista racconta le azioni di gioco e la ricezione viene diffusa dagli altoparlanti installati presso lo stabilimento del giornale. Per Il giornale (e già lunedì dalle pagine de L’Informatore) ne scriveranno Mario Mossa Pirisino e Guido Zirano.
La sconfitta non deve demoralizzare. Il 30 maggio è l’ultima partita e il giornale replica il suo servizio… extra di telefoni e altoparlanti. I cagliaritani giocano a Pavia, la Pro Patria a Padova. Sono due pareggi: 0 a 0 e 2 a 2 rispettivamente. Per sperare nella A la squadra che meglio e più rappresenta gli amori sportivi dei sardi deve vedersela in uno spareggio con i bustocchi. La società chiede il campo di Roma o di Napoli, dove sarebbe più agevole alla tifoseria di arrivare con il traghetto. L’Unione Sarda organizza anche una comitiva: “comitiva rossoblù Unione Sarda” si chiama. L’altra rappresentanza è quella della Società Sant’Anna. Partono anche i… granatieri di Sardegna, un intero reggimento per sostenere il Cagliari! Un minatore – certo Francesco Trudu – scende perfino dal Belgio per tifare Cagliari: 36 ore di treno…
Si gioca domenica 6 giugno alle 16,30. Il campo infine scelto dalla Lega è quello della capitale. Il calcio giocato è allo stadio, nelle strade di Roma fra piazza San Silvestro e la Galleria Colonna gli strilloni distribuiscono centinaia e centinaia di copie del quotidiano cagliaritano. Neppure sei mesi dopo i saluti alla redazione centrale de Il Giornale d’Italia, il direttore Crivelli torna alla grande con il suo prodotto nella città che l’ha visto crescere, formarsi ed avviarsi alla professione. Una soddisfazione non da poco. Per l’occasione ha mobilitato tutti i suoi redattori. Una pattuglia è su, a Roma, con la speranza di poter raccontare una vittoria. Peppino Fiori – il nome più illustre – scriverà una cronaca (di colore, cioè sull’umanità che ha accompagnato la squadra e gridato sino alla fine “Forza Cagliari”) che è un autentico capolavoro. Intanto un’altra volta ancora in viale Regina Elena è stato predisposto il meccanismo dei rimbalzi: la tecnologia telefonica al servizio degli amori alla maglia calcistica.
Purtroppo in campo le cose non vanno come si sperava, anche se il Cagliari gioca bene. La sconfitta per 1 a 0 rinvia a un altro anno il sogno della A condiviso dai rossoblù e dalla tifoseria. Restano gli entusiasmi dei generosi di cui è simbolica rappresentazione una lettera che un medico di Villa Clara ha inviato al fratello speaker alla Rai: «I miei matti parlano del Cagliari, ma tra tutti non sono certo i più folli». Un contagio virtuoso: il tifo può essere questo, quando è appassionato e insieme misurato, manifestato lealmente, con rispetto dell’avversario, dei valori e dei talenti. Esprime la gioia della appartenenza a una comunità, territorio e gente, storia e parlata. Non offende nessuno, e può (e deve) anche, nel nome della sportività, applaudire chi, con altri colori, gioca contro i propri, e addirittura fare fraternità – nel prima e nel dopo dei 90 minuti – con la tifoseria concorrente. E’ tutto più bello così, la faziosità è sempre degli imbecilli, la sportività dei migliori.
Il Cagliari rimane in B, ma subito, a campionato finito, si cerca in città di vedere come rafforzare tanto l’Unione Sportiva – ancora non è tempo di società per azioni – quanto la squadra. Si susseguono le riunioni, bisognerà implementare le risorse, giocarsele tenendo conto dell’esperienza. Verranno presto le stagioni isolane di Silvio Piola allenatore, anche se per la A bisognerà aspettare giusto dieci anni…
Crivelli valorizza lo spazio delle cronache sportive, intanto cercando progressivamente una impaginazione non soffocata nel mezzo delle corrispondenze di tutt’altro argomento – ora in seconda pagina, ora in quinta – , fino alla completa autonomia nella più ricca foliazione. E insieme con questo puntando molte carte sulle professionalità che il giornale ha in redazione, dove per la verità gli esperti (soprattutto di calcio) sono… tutti quanti! Affacciano la loro firma, o la replicano con frequenza quasi quotidiana, i vari Angelo Carrus (proveniente da Il Quotidiano Sardo) o Mario Mossa Pirisino (già de La Nuova Sardegna)…
Un appoggio sostanziale, e di grande qualità anche grafica, è dato a L’Unione Sarda confinato nei sei numeri settimanali da L’Informatore del lunedì. Se la può permettere, L’Informatore – ancora a otto pagine, quattro di sport e altrettante di notiziario vario, con la seconda fissa su Cagliari e il puntuale colonnino cittadino di Ballero – una grafica mossa e moderna, orientata molto al racconto per immagini, come anche sarà sempre più spesso nella stampa sportiva nazionale. E non sarà soltanto per il Cagliari ed il calcio ma anche, e non per poco, per il pugilato e le fortune sul ring di Manca e Rollo… Tutto verrà perfezionato, può dirsi, dal 1956, quando alla direzione arriverà Franco Porru – per il resto della settimana, e già dall’aprile 1954, vicedirettore a L’Unione –, il quale rileva la gerenza da Sergio Valacca. Questi , da Roma, offre al settimanale della SEI non il lavoro redazionale ma ancora e soltanto la copertura del nome. Ha cominciato nel giugno 1952, quando il conte Spetia ha preferito dedicarsi, fra le due testate, in esclusiva alla maggiore, certamente la più impegnativa e la società editrice ha dovuto trovare una soluzione ponte per la formale responsabilità, come da legge.
Concludendo. Avevo pensato di scrivere un articolo breve, per il sito di Fondazione Sardinia, ricordando il sessantesimo anniversario del primo giorno cagliaritano del direttore Fabio Maria Crivelli. Ho deviato, ma non sono scontento. Io a lui debbo molto in termini di relazione personale. Gli ho voluto bene, prima di frequentarlo lo potevo soltanto stimare. Poi ho sommato i due sentimenti, li ho incrociati, mi sono sembrati entrambi le vie per capire meglio e più compiutamente la statura e la complessità dell’uomo. Al giornale l’ho incontrato in una stagione ancora acerba per certe aperture (io adolescente, nel 1971), assai meglio è stato fra il 1975 ed il 1976, e dopo ancora fra il 1986 e il 1988. Ne ho scritto nella dispensa “Omaggio a Fabio Maria Crivelli”, ne ho parlato al reading allestito in casa massonica, a Cagliari, nel gennaio 2011.
Al di là delle occasioni pratiche o conviviali della vicinanza personale, l’incontro morale e intellettuale con lui – così lo sento, così lo rivivo oggi, e non vorrei certamente essere presuntuoso in questa affermazione – è avvenuto nella fase della sua vita in cui egli aveva maturato o definito al meglio la sua identità complessa, armonizzando fra loro quei lati di un prisma che lo rivelavano tutti veritiero ma pure diverso a seconda della visuale scelta dal suo interlocutore.
Io l’ho conosciuto umanista sapiente, semplice e raffinato, l’ho conosciuto democratico progressista, consapevole del sociale, rispettoso del valore alto delle istituzioni pubbliche. Credo proprio non avrebbe potuto mai confezionare, nel tribolato passaggio fra l’ultimo Novecento e questo inizio del terzo millennio, un giornale sdraiato su forza italia e accoliti – come non lo fece negli anni democristiani e monarchici e destrorsi di Brotzu –, su forze senza forza, smidollate perché senza conoscenza ed orgoglio della storia patria, senza radici nelle grandi culture che alle nostre generazioni hanno dato in affidamento il meraviglioso patrimonio scaturito dal Risorgimento e dall’antifascismo, dalla resistenza e dalla Costituzione repubblicana, come tante volte che ce lo ha rappresentato il presidente Ciampi – mazziniano ed azionista – e così svillaneggiato negli ultimi due decenni.
Fabio era cresciuto in un’epoca e in una città il nome di Nazario Sauro – andato in sacrificio eroico soltanto cinque anni prima – diceva di onore patriottico. Noi queste parole le abbiamo declinate con quelle forse più moderne, ma per tanti versi simili e più impegnative ancora, di rigore democratico. L’Unione Sarda ha vissuto, nei suoi oltre centovent’anni stagioni alte – quelle del contrasto a Bacaredda e poi dopo dell’appoggio a Bacaredda, quelle della risurrezione nel novembre 1943 e fino al referendum repubblicano, quelle anche, a mio avviso, di larga parte (o forse tutta, nella varietà delle situazioni), della direzione Crivelli, direi anche del decennio circa della direzione Filippini – e stagioni misere, come sono state quelle dell’appoggio ai fascisti della prima ora, e a quelli della seconda ora, e in epoca molto più recente, del conformismo belante, purtroppo anche delle censure che la storia sanzionerà. Perché poi le collezioni dei giornali sono lì, io ho raccolto due milioni di ritagli stampa, dagli anni ’50, e frequento tutti i giorni l’emeroteca. Ho sentito, fin da bambino, L’Unione Sarda come una istituzione, ma proprio per questo – e mentre mi si riferisce di modifiche azionarie e di intese con altre testate per un ritaglio dei territori di vendita – mi è riuscito penoso trovarla talvolta incapace di cogliere anche l’essenziale: l’onore patriottico, il rigore della democrazia.
Sono opinioni, naturalmente. Come tali le offro, insieme con la grata memoria del maggior direttore che la stampa sarda moderna possa vantare. Che ha saputo, nel nome dei valori – i valori! – rinunciare alla poltrona. La storia gli ha dato ragione. La proprietà del giornale non poteva, nel 1976, accettare le limpide cronache, impaginate in prima, sugli avvisi di garanzia inviati a quei tanti amministratori e dirigenti della Rumianca cui si addebitavano abusi ed inquinamenti. Doveva, voleva affermare un altro principio, quello del giornale come strumento di interessi estranei alla logica della libera stampa. La storia della SIR e del suo fallimento ci ha poi veramente spiegato tutto. Dimentichi di quelle rovine, altri si sono impegnati ad imitare, a produrre un bis, o un ter, e sono anch’essi caduti. La libertà di stampa è il cuore della democrazia. Ma della democrazia vera, quella che rimanda alle grandi correnti ideali della nostra storia, ignorando le quali noi siamo nani (magari moderni e perfino avveniristici) di plastica e senza personalità.