2013, BILANCIO DI UN ANNO TRISTE, di Gianni Mula
Il 2013 sta per finire con le finte luminarie di un governo che annuncia che stiamo uscendo dalla crisi perché i conti economici dello stato hanno smesso di peggiorare (anche se non c’è traccia di segni positivi). Ci distinguiamo in Europa per come difendiamo i diritti umani in quel di Lampedusa (si veda l’editoriale di Giovanni Sarubbi Gli Erode di turno) e mostriamo quanto sono dure le famose palle d’acciaio del premier Letta con una sostanziosa pioggia di mance ai vari potentati di turno: ad esempio la svendita di Telecom a Telefonica fa capire (vedi l’articolo di Giorgio Meletti) che il governo delle larghe-strette intese voluto dal presidente Napolitano esiste soltanto per permettere ai soliti noti di continuare a fare i propri affari a spese del resto della popolazione.
Purtroppo le cronache di queste settimane sono talmente piene di segni analoghi a quelli che ho appena ricordato che la profonda indignazione che ciascuno di essi dovrebbe suscitare si trasforma inevitabilmente in una sensazione di totale impotenza. Anche perché il movimento 5 stelle, la sola vera opposizione che abbiamo, senza la quale il governo riuscirebbe perfino a fare di peggio, non perde occasione per mostrare la propria incapacità di pensare un cammino politico comprensibile anche a chi non sia del tutto convinto che Grillo ha sempre ragione.
D’altro canto non è che se si allarga il discorso all’Europa e agli Stati Uniti si trovano molti motivi di conforto, se non altro intellettuale. L’amarezza di Paul Krugman di trovarsi a vivere in un periodo di politiche economiche dissennate è particolarmente evidente nei due editoriali della settimana prima di Natale. Nel primo, Why inequality matters (Perché la disuguaglianza è importante, ripreso dalla rassegna stampa del sito finesettimana.org, nell’impeccabile traduzione di Anna Bissanti), Krugman coglie l’occasione del recente discorso di Obama, che ha dichiarato la diseguaglianza la sfida che definirà il giudizio sul nostro tempo, per riassumere per l’ennesima volta le proprie critiche alle politiche economiche seguite negli ultimi anni dai governi occidentali.
Ad esempio per ribadire che “il continuo spostamento dei redditi dalla classe media verso una piccola élite è stato di ostacolo per la domanda dei consumatori, e di conseguenza la disuguaglianza è collegata sia alla crisi economica sia alla debolezza della ripresa che le ha fatto seguito”, e, soprattutto, che questo spostamento è dovuto “al desiderio di alcuni grossi esperti di depoliticizzare il nostro discorso economico, di renderlo tecnocratico, non di parte. Ma questo è un sogno impossibile. La classe sociale e l’ineguaglianza finiranno sempre coll’influenzare — e distorcere — il dibattito perfino in relazione a quelle che possono apparire questioni puramente tecnocratiche”. Come dire che l’esigenza di riformare quei meccanismi economici che in tempi di globalizzazione non riescono più (a causa dell’avidità delle classi che più ne hanno profittato) a trovare ragionevoli punti di equilibrio viene trasformata in una richiesta dissennata di politiche di austerità che, sotto lo slogan “meno tasse per tutti”, fanno pagare agli strati più deboli della popolazione il costo del continuo arricchimento di quelli più forti.
Nell’editoriale del venerdì successivo, Osborne and the Stooges (I tre marmittoni alla crisi economica, che qui riporto in una mia traduzione) l’amarezza di Krugman sfocia nell’aperta irrisione. La pretesa di George Osborne, Cancelliere dello Scacchiere (cioè ministro del tesoro) della Gran Bretagna, di attribuire il merito dell’abbozzo di ripresa economica di questi ultimi mesi alle politiche di austerità che ha perseguito per anni (e allentato solo in questi ultimi mesi), viene esplicitamente paragonata alle battute di un trio comico famoso negli anni ’30 secondo cui è bello sbattere la testa contro il muro perché ci si sente tanto bene quando si smette!
Effettivamente c’è poco da festeggiare. Ad esempio, tornando al governo Letta, l’intera vicenda delle nuove norme a favore del gioco d’azzardo (e quindi della potente lobby che ci sta dietro), col ministro Zanonato capace, come racconta il FQ, di esprimere al riguardo due opinioni opposte nello spazio di un’ora, è emblematica dello stato di disfacimento morale nel quale ci troviamo.
E tuttavia la via d’uscita non sta né nella sola indignazione, né, tantomeno, nel rassegnarsi alla tristezza dell’impotenza. Sta forse nella strada indicata da Papa Francesco che, di fronte all’impossibile compito di riformare la Chiesa dalle radici non sceglie di affidarsi a programmi ben definiti, alleanze esplicitamente contrattate, e neanche a precise piattaforme teologiche. Procede invece lanciando messaggi a tutti e a nessuno in particolare, e seminando al tempo stesso esempi di incredibile novità. Evita con cura di impelagarsi in polemiche dottrinali tanto pretestuose quanto in fin dei conti irrilevanti. Insomma mina alla base l’architettura barocca della curia vaticana e aspetta con pazienza che le sue scelte producano gli effetti voluti.
Per far questo serve la pazienza del contadino che sa che l’autunno è il tempo della semina e l’estate quello del raccolto e non confonde un tempo con l’altro. Anche nella politica probabilmente siamo in un tempo adatto per seminare e non per raccogliere, perché la globalizzazione non può essere contrastata sognando di ritornare a tempi che non torneranno più. Si tratta invece di imparare a capire, senza l’affanno del dover prevedere tutto, come comunità locali appartenenti a culture differenti possano crescere e convivere in contesti sempre più globali. In altri termini bisogna ricordarsi che Dio esiste certamente (almeno per i credenti) ma altrettanto certamente non è nessuno di noi e che quindi non siamo noi a scegliere i tempi di soluzione dei problemi. Noi possiamo solo decidere che cosa fare della nostra vita e non negare a priori il nostro contributo, per quanto piccolo, ai cambiamenti che una genuina apertura alle esigenze fondamentali dell’altro potrebbe richiederci.
In definitiva, se ci troviamo in questo stato di crisi è perché non abbiamo seminato abbastanza o al tempo giusto. Il tempo presente è sempre l’ultima occasione per cominciare a farlo.
Repubblica” 21/12/ 2013 (ripreso dalla rassegna stampa difinesettimana.org) – Originale pubblicato sul New York Times del 16/12/2013
Perché la disuguaglianza è importante[1]
Paul Krugman
L’aumento della disuguaglianza non è una preoccupazione nuova [Frase assente nel testo pubblicato da Repubblica]. Il film di Oliver Stone Wall Street, ritratto di plutocrati in ascesa secondo i quali l’avidità è un bene, è uscito nelle sale nel 1987. I politici, però, intimoriti da chi grida alla “lotta di classe”, hanno fatto il possibile per evitare di fare del sempre crescente divario tra i benestanti e il resto della popolazione una questione di primaria importanza.
Le cose, tuttavia, potrebbero cambiare. Possiamo anche parlare del significato della vittoria di Bill de Blasio nella corsa a sindaco di New York o della convalida da parte di Elizabeth Warren dell’espansione di Social Security. E resta ancora da vedere se la dichiarazione del presidente Barack Obama secondo cui la disuguaglianza è «la sfida che definisce la nostra epoca» si tradurrà in qualche cambiamento politico. In ogni caso, la discussione si è già spostata al punto da suscitare una reazione eccessiva da parte degli esperti che sostengono che la disuguaglianza non è poi chissà che grande problema.
Hanno torto.
L’argomentazione migliore per dare alla disuguaglianza una bassa priorità è lo stato depresso dell’economia. Non è forse più importante ripristinare la crescita economica invece di preoccuparsi di come sono distribuiti gli utili della crescita?
Beh, no. Prima di tutto, anche solo guardando all’impatto diretto che ha l’aumento delle disuguaglianze sulla classe media americana ci si accorge che di fatto esso crea davvero un grosso problema. Oltre a ciò, molto probabilmente la disuguaglianza ha rivestito un ruolo fondamentale nel provocare il caos economico nel quale ci ritroviamo, e ne ha rivestito uno cruciale nel nostro dimostrarci incapaci di mettere a posto le cose.
Ma partiamo dalle cifre. In media, gli americani oggi continuano a essere molto più poveri di quanto fossero prima della crisi economica. Per il 90 per cento delle famiglie che guadagnano meno, questo impoverimento riflette sia un restringimento della torta economica, sia una percentuale in calo di quella torta. Che cosa ha avuto maggiore importanza? La risposta, sbalorditiva, è che le due sono più o meno equivalenti. In altri termini, la disuguaglianza è aumentata così rapidamente negli ultimi sei anni da fungere da enorme peso morto per i redditi dei normali americani, tanto quanto una mediocre performance economica, anche se questi anni comprendono quelli della peggiore recessione economica che ci sia stata dagli anni Trenta.
Se poi si assume una prospettiva sul più lungo periodo, l’aumento della disuguaglianza sta diventando di gran lunga il singolo fattore più importante dietro alla stagnazione dei redditi della classe media. Oltre a ciò, se si cerca di comprendere sia la Grande Recessione sia la non così grande ripresa che le ha fatto seguito, gli impatti economici e soprattutto politici della disuguaglianza incombono minacciosi all’orizzonte.
È ormai comunemente riconosciuto che l’indebitamento in forte aumento dei nuclei famigliari ha contribuito a spianare la strada alla nostra crisi economica. Questa impennata del debito è coincisa con l’aumento della disuguaglianza, e i due fenomeni probabilmente sono correlati (sebbene ciò non sia inoppugnabile). Dopo che la crisi ha colpito, il continuo spostamento dei redditi dalla classe media verso una piccola élite è stato di ostacolo per la domanda dei consumatori, e di conseguenza la disuguaglianza è collegata sia alla crisi economica sia alla debolezza della ripresa che le ha fatto seguito.
Dal mio punto di vista, tuttavia, il ruolo veramente cruciale rivestito dalla disuguaglianza nella catastrofe economica è stato di natura politica. Negli anni prima della crisi, a Washington prevaleva un notevole consenso bipartisan a favore della deregulation finanziaria, consenso non giustificato dalla teoria né dalla storia. Quando è subentrata la crisi, c’è stata una corsa a salvare le banche. Ma, non appena si è conclusa questa fase, si è affermato un nuovo consenso, che ha comportato di lasciar perdere la creazione di nuovi posti di lavoro e di concentrarsi sulla presunta minaccia derivante dai deficit di bilancio.
Che cosa hanno in comune i consensi pre-crisi e quelli post-crisi? Entrambi sono stati devastanti dal punto di vista economico: la deregulation ha contribuito a rendere possibile la crisi, e la precipitosa svolta verso l’austerità fiscale ha fatto più di qualsiasi altra cosa per intralciare la ripresa. Entrambi i consensi, tuttavia, corrispondevano agli interessi e ai pregiudizi di una élite economica la cui influenza politica è balzata alle stelle in parallelo con la sua ricchezza.
Ciò diventa quanto mai chiaro se cerchiamo di capire perché Washington, nel bel mezzo di una crisi dell’occupazione che si protrae, per taluni aspetti è ormai ossessionata dalla presunta necessità di tagliare Social Security e Medicare. Questa ossessione non ha mai avuto senso, dal punto di vista economico: in un’economia depressa con tassi di interesse bassi quasi da record, il governo dovrebbe spendere di più e non di meno. Oltre a ciò un’epoca di disoccupazione di massa non è certo il momento più opportuno per concentrarsi sugli eventuali problemi fiscali nei quali ci imbatteremo a qualche decennio di distanza. L’attacco a questi programmi, per altro, non è avvenuto su richiesta dell’opinione pubblica.
I sondaggi condotti presso i soggetti molto facoltosi, tuttavia, hanno messo in evidenza che — a differenza dell’opinione pubblica in generale — essi considerano i deficit di bilancio una questione cruciale e sono favorevoli quindi a ingenti tagli nei programmi assistenziali e alle reti di sicurezza.
Indubbiamente, le priorità di quelle élite hanno il sopravvento sul nostro discorso politico. Ciò mi porta al mio punto finale. Dietro a una parte delle reazioni eccessive contro il dibattito sulla disuguaglianza credo che c’è il desiderio di alcuni grossi esperti di depoliticizzare il nostro discorso economico, di renderlo tecnocratico, non di parte.
Ma questo è un sogno impossibile. La classe sociale e l’ineguaglianza finiranno sempre coll’influenzare — e distorcere — il dibattito perfino in relazione a quelle che possono apparire questioni puramente tecnocratiche. Il presidente, dunque, aveva ragione. La disuguaglianza è davvero la sfida che definisce la nostra epoca. Faremo qualcosa per raccogliere tale sfida e reagire adeguatamente?
(Traduzione di Anna Bissanti)
New York Times – 20 dicembre 2013
I tre marmittoni alla crisi economica
Paul Krugman
Mi ricordo un episodio, nelle storie dei “Three Stooges” [un trio comico statunitense, composto dai personaggi Larry, Moe e Curly, famoso negli anni ’30, conosciuto in Italia come I tre marmittoni], in cui Curly continuava a sbattere la testa contro un muro. Quando Moe gli chiedeva perché, lui rispondeva: “Perché mi sento tanto bene quando smetto.”
Beh, mi pareva divertente. Ma non avrei mai immaginato che un giorno la logica di Curly sarebbe stata usata da autorevoli esponenti governativi per difendere le loro disastrose scelte di politica economica.
Retroscena: nel 2010, quando ancora perdurava la profonda depressione economica innescata due anni prima dallo scoppio negli USA della bolla immobiliare dei mutui subprime, la maggior parte delle nazioni più ricche del mondo decise che la politica economica da seguire era quella dell’austerità: bisognava cioè ridurre i deficit (saliti alle stelle a causa della crisi) tagliando le spese e, in alcuni casi, aumentando le tasse. Secondo i principi basilari dell’economia se un’economia è già depressa le misure di austerità servono solo ad aggravare la depressione. Ma gli “austeriani”, come molti di noi cominciarono a chiamarli, insistevano che i tagli alla spesa avrebbero portato all’espansione economica, perché avrebbero migliorato la fiducia delle imprese.
Ne è venuto fuori un esperimento controllato, per quanto è possibile in macroeconomia, che ha avuto come risultato che in tre anni non si è visto alcun segno di ripresa di fiducia. In Europa, dove l’ideologia austeriana si è imposta con più forza, la ripresa economica nascente si è ben presto trasformata in una recessione a doppio minimo. A questo punto, in realtà, gli indicatori chiave dello stato di salute dell’economia danno, sia nell’area dell’euro che in Gran Bretagna, valori peggiori di quelli del periodo corrispondente nella Grande Depressione degli anni ’30.
È vero che tutto ciò avviene con costi umani molto diversi da allora. Ma il merito è dell’attuale protezione dell’occupazione e dell’attuale rete di sicurezza sociale, cioè proprio di quelle politiche governative che secondo gli austeriani devono essere smantellate nel nome delle famose “Riforme di struttura”.
È stata davvero l’austerità la causa dell’aggravamento? Beh, c’è una correlazione molto chiara: più dura è l’austerità, più forte è la diminuzione della crescita. Si consideri il caso dell’Irlanda, una delle prime nazioni ad imporre un’estrema austerità, caso ampiamente citato nei primi mesi del 2010 come modello da seguire. Tre anni più tardi, nonostante l’emigrazione di centinaia di migliaia di cittadini irlandesi in età lavorativa, e dopo ripetute dichiarazioni che la sua economia aveva girato l’angolo, l’Irlanda ha ancora una disoccupazione a due cifre.
L’effetto deprimente di misure di austerità in tempi di crisi è qualcosa che si vede con chiarezza negli annali della storia economica. Ma gli austeriani non solo non hanno mai ammesso il loro errore (almeno per quanto a mia conoscenza) ma arrivano ad attaccarsi agli ultimi dati per rivendicare che, dopo tutto, avevano sempre avuto ragione. E ora che alcuni paesi hanno ricominciato a crescere, come la Gran Bretagna che sembra avere un rimbalzo significativo, l’Irlanda che ha finalmente avuto un trimestre decente, e che perfino l’economia spagnola mostra deboli segni di vita, gli austeriani si affrettano a organizzare parate per celebrare la loro vittoria.
Forse l’esempio più sfacciato è quello di George Osborne, Cancelliere britannico dello Scacchiere, principale anima dell’austerità del suo paese. Non appena sono apparsi numeri di crescita positivi ha infatti dichiarato che “Chi era a favore di un piano B” – cioè di un’alternativa all’austerità – “ha perso”.
OK, riflettiamo su questa affermazione, al di là della constatazione generale che le fluttuazioni nel corso di un trimestre o due in genere non dicono molto.
Prima di tutto, la recente crescita della Gran Bretagna non cambia la realtà che sono passati quasi sei anni da quando la nazione è entrata in recessione, e il PIL reale è ancora al di sotto dei valori precrisi. Nel lungo periodo questa rimane pertanto la storia di un triste fallimento – peggiore, come ho ricordato prima, di quello che si è verificato, sempre in Gran Bretagna, ai tempi della Grande Depressione.
In secondo luogo, è importante capire che cosa ha significato per la Gran Bretagna l’austerità di Osborne. Il suo governo ha speso i suoi primi due anni a fare grandi cose: ridurre drasticamente gli investimenti pubblici, aumentare la tassa nazionale sulle vendite, e altro ancora. Dopo di che ha rallentato il ritmo, cioè non ha invertito l’austerità, ma non l’ha resa peggiore di quanto già non fosse.
Ed ecco il punto: le economie tendono a crescere, a meno che non siano colpite da shock avversi. Non sorprende, quindi, che l’economia britannica si sia alla fine ripresa, una volta che Osborne ha mollato la presa. Ma è questo un buon motivo per rivendicare la giustezza delle sue politiche di austerità? Lo è solo se si accetta la logica dei Three Stooges, per la quale sbattere la testa contro un muro ha senso, perché ci si sente tanto bene quando si smette.
Ora, io so bene che gli austeriani possono continuare a guadagnare consensi, visto che che gli studiosi di scienze politiche ci dicono che gli elettori sono miopi, e giudicano i leader sulla base della crescita economica nell’ultimo anno prima delle elezioni, anziché sull’andamento complessivo dell’economia in tutto il periodo in cui sono rimasti in carica. Quindi si può benissimo governare durante anni di depressione, e tuttavia essere rieletti se si riesce a ottenere un piccolo miglioramento qualche mese prima delle elezioni.
Ma questa è politica. Quando si tratta di economia, c’è una sola risposta possibile all’assurdo trionfalismo degli austeriani: Nyuk. Nyuk. Nyuk. [La risata caratteristica di Curly]
(Traduzione di Gianni Mula)
[1] Il titolo dato da Repubblica, La crisi e la disuguaglianza, appare come un’arbitraria interpretazione redazionale del titolo originale Why inequality matters (Perché la disuguaglianza è importante), aggravata dall’incomprensibile omissione della prima frase del testo: Rising inequality isn’t a new concern. (L’aumento della disuguaglianza non è una preoccupazione nuova).